domenica 2 dicembre 2012

L'IDEALISMO

La parola "idealismo" presenta una varietà di significati. Nel linguaggio comune si denomina idealista colui che è attratto da determinati ideali o valori e che sacrifica per essi la propria vita. In filosofia si parla di "idealismo", in senso lato, a proposito di quelle visioni del mondo, come ad esempio il platonismo e il cristianesimo, che privilegiano la dimensione "ideale" su quella "materiale" e che affermano il carattere "spirituale" della realtà "vera". In questo senso il termine idealismo viene introdotto nel linguaggio filosofico verso la metà del '600.
Ma l'idealismo costituisce anche il nome della grande corrente filosofica post kantiana che si originò in Germania nel periodo romantico ( XVIII Sec.) e che ha avuto numerose ramificazioni nella filosofia moderna e contemporanea di tutti i paesi. Dai suoi stessi fondatori, Fichte e Shelling, questo idealismo fu chiamato "trascendentale" o "soggettivo" o "assoluto" o “romantico”. L' aggettivo "trascendentale" tende a collocarlo con il punto di vista kantiano, che aveva fatto dell'"io penso" il principio fondamentale della conoscenza. La qualifica di "soggettivo" tende a contrapporre questo idealismo al punto di vista di Spinoza, che aveva bensì ridotto la realtà ad un unico principio, la Sostanza, ma aveva inteso la Sostanza stessa in termini di oggetto o di natura. L' aggettivo "assoluto" mira a sottolineare la tesi che l'Io o lo Spirito è il principio unico di tutto e che fuori di esso non c'è nulla: il pensiero è l’unica realtà ed il mondo è la continua creazione dell’attività pensante. Infine l’aggettivo “romantico” sta ad indicare il trasferimento dell’attività infinita dell’Io dal piano morale al piano estetico.

FICHTE

Nell’ “Io Puro”, nell’ “Io infinito” (o “Autocoscienza assoluta e universale”), soggetto ed oggetto coincidono. L’Io pone se stesso come causa di sè (tesi), quindi pone un non-Io, cioè si rapprenta in un oggetto diverso (antitesi), infine riconosce il non-Io e si fonde in esso ristabilendo la unità (sintesi). Un’Attività infinita in cui la natura è solo teatro. Nella Dottrina della Scienza del 1804 Giovanni Amedeo Fichte sostiene così che l'Io puro o assoluto è il fondamento del nostro sapere (e del nostro agire), ma è un Assoluto in sé e non un semplice dover essere. L'assoluto è per noi inaccessibile, e la filosofia non muove dall'assoluto ma solo dal sapere assoluto: l'assoluto cioè costituisce la fonte del sapere e la sua unità più profonda, ma esso è anche il limite del sapere, il punto in cui questo si annichila. La ragione non può mai uscire da sé stessa per comprendere la sua origine, che rimane quindi non comprensibile. Dice Fichte: «Il fondamento della verità non risiede nella coscienza, ma assolutamente nella verità stessa. La coscienza è soltanto il fenomeno esterno della verità»; in altre parole, essa è solo emanazione della verità, un indicatore di questa, non la verità stessa. Nell'Introduzione alla Vita beata, Fichte interpreta il suo idealismo alla luce del Vangelo di Giovanni: il Logos di cui parla l'evangelista, cioè il Sapere, la Coscienza divina, è l'immediata e diretta espressione di Dio, che è l'assoluto. Il Logos è intermediario tra Dio e il mondo, e l'uomo non può unirsi a Dio Padre direttamente, ma solo tramite il Logos, il mediatore. Per giungere a questa unione la ragione deve riconoscersi per quello che è, cioè semplice esteriorizzazione dell'assoluto, fenomeno espressione non di sè, e deve quindi cancellarsi negando se stessa. Grazie a questo processo di auto-umiliazione è possibile elevarsi e giungere alla visione estatica dell'Uno. È evidente l'influsso neoplatonico della teologia negativa di Plotino su quest'ultima fase dell'idealismo di Fichte, che voleva comunque essere per lui solo un approfondimento e non una revisione. Tuttavia, in precedenza nel“Profilo delle particolarità delle dottrine della scienza” Fichte aveva affermato che Dio non va inteso come persona metafisica ma come ordine del mondo e venne accusato di ateismo.

SHELLING

Federico Guglielmo Schelling si occupò inizialmente soprattutto di Emanuele Kant e Giovanni Amedeo  Fichte. La sua prima dissertazione L'io come principio della Filosofia (1795) era molto vicina alle idee di Fichte. Schelling mantiene infatti il motivo fichtiano del primato della filosofia pratica, come attività articolata in tre momenti: espansione creativa e infinita dell’Io, produzione inconscia di un limite che vi si contrappone, presa di coscienza e superamento di una tale auto-limitazione tramite l’agire etico; Schelling le dà però una diversa connotazione, nella quale anche il momento del non-Io viene valorizzato. Non più solo l'idealismo, ma anche il realismo viene dunque giustificato, nel tentativo di dare organicità e coerenza al kantismo su un piano ontologico. Influenzato da Spinoza, finisce così per conciliare il criticismo con il dogmatismo: questi due sistemi filosofici, che a prima vista sembrano inconciliabili, sono in realtà convergenti, perché l'uno parte dal soggetto, l'altro dall'oggetto, mirando entrambi al loro punto di unione. Ma partendo ciascuno da un punto di vista unilaterale, rischiano di smarrire il principio ad esso complementare: soggetto e oggetto infatti sono una realtà sola, visibile ora in un verso, ora nell’altro, ma comunque non scomponibile. Dialetticamente infatti un soggetto è tale solo in rapporto a un oggetto, e viceversa. Compito della filosofia è allora raggiungere l'Assoluto, inteso, alla maniera di Plotino e Cusano, come l'Uno nel quale gli opposti coincidono, e situato al di là del processo conoscitivo, cioè di quella conoscenza puramente teoretica che in quanto tale comporta opposizione con l'oggetto reale della propria indagine ed è perciò limitata e finita. L'Assoluto è inconoscibile perché conoscere significa collegare, relazionare qualcosa con altro da sé; ma poiché l'Assoluto ha già tutto dentro, non ha un termine di riferimento esterno con cui possa relazionarsi; tuttavia va ammesso, con un'autocoscienza immediata che è la fichtiana intuizione intellettuale, perché altrimenti si rimane nella contrapposizione di soggetto e oggetto, che è una contraddizione logica. La reciproca complementarietà di questi due termini opposti, però, si realizza come piena identità solo nell’azione pratica, mentre sul piano teorico si resta nel dualismo tra criticismo e dogmatismo, e il finito può accedere all’infinito solo negando se stesso. Il motivo di questa antitesi tra identità e dualismo, teoria e pratica, finito e infinito, costituisce secondo Schelling il problema centrale di ogni filosofia. Per superarlo, come spiega nel Panorama della più recente letteratura filosofica, occorre postulare che l’assoluto non sia né infinito, né finito, bensì l'originaria unione dell'infinità e della finitezza: il soggetto infatti, cioè lo Spirito infinito, è pura attività soggettiva, ma un’attività è tale solo in quanto produce un’azione, cioè si fa oggetto. E a sua volta l’oggetto, che è spinozianamente la natura, ha bisogno di un soggetto o una ragione che lo ponga. Così da un lato lo Spirito, conoscendo se stesso, risulta condizionato da se stesso, e perciò si auto-limita, diventando finito; d'altra parte, nella sua attività è al tempo stesso incondizionato, non avendo nulla fuori di sé. Lo Spirito si riflette nella Natura che è dunque spirito pietrificato. La loro unione immediata è il vero Assoluto, in quanto ha in sé la soggettività e l’oggettività, l’essere e il pensiero, il finito e l’infinito, spirito e materia, attività e passività; esso è l’Indifferenza di Natura e Ragione. Per l’importanza attribuita all'arte come punto di fusione di questi due estremi, l'Idealismo di Schelling sarà detto estetico. Ma come si spiega che dall'unità assoluta dello Spirito si passa alla frantumazione totale della realtà? La filosofia di Schelling, da questo momento in poi, è interamente orientata a rispondere a questa domanda: nei primi anni dell'Ottocento, Schelling ritiene di poter fornire una risposta riprendendo la filosofia panteista di Giordano Bruno, la quale aveva insistito in modo particolare su come l'uno si potesse articolare nella molteplicità. Ed è in Bruno che Schelling trova una prima soluzione al problema: si tratta della soluzione della caduta . Il passaggio dall'uno alla molteplicità viene cioè spiegato come una sorta di decadenza (caduta) dai livelli più alti della realtà ai più bassi.
In chiave religiosa, Schelling intende la caduta come una specie di peccato originale che ha portato l'uno a spaccarsi in una miriade di frantumi; oltre alla tradizione religiosa, riprende anche elementi di remota ascendenza anassimandrea, insistendo sul fatto che vi sia stata una disarticolazione causata dall'aver commesso colpe. Da questo momento, il pensiero schellinghiano si avvita su speculazioni sempre più complesse di ordine mistico-religioso, con il recupero delle riflessioni di Böhme (pensatore seicentesco che mescolava alchimia e filosofia nel tentativo di giustificare il passaggio dall'uno al molteplice). Ed è con queste riflessioni che si entra nella fase della Filosofia della libertà , caratterizzata dalla rinuncia al panteismo e dalla netta accettazione del teismo: alla natura divina si sostituisce cioè il Dio-persona. Resta però il problema della caduta, strettamente connesso a quello del male. E' un problema a prima vista insormontabile, poichè, se vi è un unico principio da cui tutto deriva, allora il male deve per forza derivare da esso. La soluzione adottata in questo periodo da Schelling, sulle orme di Böhme e dello stesso Platone, consiste nell'ammettere un dualismo nel principio (Dio) . Il male che pullula nel mondo, deve per forza derivare, come ogni altra cosa, dal decadimento del principio e di conseguenza Schelling riconosce due aspetti distinti in Dio: fondamento ed esistenza. Sullo sfondo di queste riflessioni vi è la convinzione, tipicamente romantica, che il principio supremo sia dinamico, un qualcosa in fieri , la cui natura stessa è il divenire, poichè esso è vitale. L'esistenza di Dio, spiega Schelling, è essa stessa una sorta di prodotto, in quanto Dio esiste venendo fuori da un fondo oscuro (fondamento), una sorta di origine presente in Dio ma da cui Dio stesso viene fuori. In questo senso Dio è un' esistenza (dal latino exsisto , 'vengo fuori'), ovvero un venir fuori dal suo stesso fondamento oscuro: la luce emerge dalle tenebre , dice metaforicamente Schelling, che in questo modo trova in Dio stesso (nel suo fondo oscuro) il fondamento del male. Molte volte Schelling parla del fondamento di Dio come egoismo di Dio , alludendo al rimanere dentro di sè di Dio in modo egoistico, senza venir fuori (ovvero senza esistenza). A livello di Dio, però, la distinzione tra fondamento (tenebre) ed esistenza (luce) non si connota ancora esplicitamente come distinzione tra bene e male, poichè sarebbe ridicolo ammettere la presenza del male in Dio. Dunque Schelling, ammettendo il dualismo in Dio e distinguendo tra esistenza e fondamento, non dice che in Dio c'è il male, bensì che in Dio c'è il principio del male, del decadere, del frantumarsi della realtà e, in ultima istanza, della possibilità di scelta tra bene e male: e proprio per questo la filosofia di questo periodo è designata col nome di Filosofia della Libertà. Di sfuggita, si può notare che nella storia secondo Schelling (e anche secondo Hegel) si manifesta Dio stesso. Con la Filosofia Positiva si resta su un terreno ancora più religioso: Schelling ripensa alla filosofia dell'ormai defunto Hegel e alle altre fiorite in quegli anni e le definisce filosofie negative , contrapponendo ad esse la nuova filosofia da lui stesso elaborata in quegli anni: la Filosofia Positiva. Si tratta di filosofie negative nel senso che sono limitate dall'aver chiarito l'essenza ma non l'esistenza: hanno cioè spiegato il quid est (che cosa è) ma non il quod est (il fatto che una cosa esista), per dirla con un'espressione scolastica. Sì, perchè una cosa è dire che cosa è il libro, un'altra cosa è dire che il libro esiste: le filosofie di quegli anni, nella prospettiva schellinghiana, si son limitate a spiegare che cosa fosse il libro, dando per scontato che esistesse. E' come se tali filosofie avessero chiarito che cosa sono le cose con l'uso della ragione, dando per scontato che esse esistessero. Pur potendo chiarire l'essenza delle cose, nota Schelling, la ragione non potrà mai motivarne l'esistenza, poichè essa dipende da un atto di volontà creatore da parte di Dio: le cose esistono poichè Dio ha deciso che esistessero, in base ad un atto libero, il quale (proprio perchè libero) sfugge ai dettami della ragione. Con la pretesa di spiegare ogni cosa con la sola ragione, le filosofie negative han potuto render conto esclusivamente delle essenze, ossia di ciò che è necessariamente. Ma se l'essenza dell'uomo consiste necessariamente nell'avere due gambe, due occhi e una testa e può essere colta dalla ragione, la sua esistenza , viceversa, dipende da un atto assolutamente libero da parte di Dio. Un atto libero non sarà mai razionalmente spiegabile, sicchè l'esistenza delle cose non la si è mai spiegata tramite la ragione: e Schelling scocca i suoi dardi velenosi soprattutto contro Hegel, il cui errore più grande consiste non nell'aver spiegato razionalmente l'essenza della realtà, ma nell'aver preteso di dedurre l'esistenza delle cose dalla loro essenza. Hegel era cioè convinto che, partendo dall'essenza delle cose, da essa potesse derivare l'esistenza del mondo. Ma Schelling critica aspramente questa posizione, contrapponendo ad essa quella secondo cui dall'essenza dell'uomo non non deriva mai l'esistenza, la quale, al contrario, nasce da un atto libero di creazione da parte di Dio, atto che, proprio in quanto libero, sfugge alla ragione . Ecco dunque che Schelling si propone di integrare le filosofie negative con l'elaborazione di una filosofia positiva che non si limiti ad indagare sulle condizioni negative della realtà (l'essenza), ma anche su quelle positive (dal latino positum , 'posto' dall'atto libero di Dio), ovvero sull'esistenza. La soluzione che dà Schelling è che la filosofia positiva parta non dall'impiego della ragione, ma dall'accettazione del dato di rivelazione: se una persona è libera, del resto, la ragione non può dirmi nulla su ciò che egli farà o non farà, con la conseguenza che l'unica maniera per conoscere ciò che farà o non farà è che ce lo dica lui (rivelazione). Questa è la filosofia positiva di Schelling, divisa in filosofia della mitologia e filosofia della rivelazione . Pur essendo profondamente cristiano, Schelling non ritiene che il cristianesimo sia la sola religione 'vera' rivelata da Dio, bensì sostiene che pure le altre sono state rivelazioni divine, seppur indirette, quasi come se Dio fosse stato colto con la capacità metapoietica, come cioè se si fosse rivelato all'uomo con la mitologia pagana (Filosofia della mitologia). Ed è però ai Cristiani che si è rivelato direttamente (filosofia della rivelazione). Sull'onda di queste speculazioni, Schelling elabora una filosofia della storia triadica, di impostazione religiosa. Come Fichte, anche Schelling ha un esito extra-filosofico: egli esce piuttosto in fretta dal tracciato filosofico per rifugiarsi prima nell'arte e poi nella religione. Si può notare come Schelling, pur non essendo un esistenzialista, abbia aperto spiragli in quella direzione : non a caso Kierkegaard, precursore dell'esistenzialismo, resterà colpito dai suoi insegnamenti, anche se riterrà Schelling troppo oscuro e nebuloso. In effetti, comincia ad affacciarsi timidamente sulla scena filosofica l'idea (che sarà tipica dell'esistenzialismo) dell'irriducibilità dell'esistenza all'essenza, nella convinzione che esista una dimensione della realtà non riconducibile all'essenza e alla ragione.

HEGEL

Per Federico Hegel la realtà non è “sostanza”, ma Soggetto e Spirito ed è perciò attività, processo, movimento. Già Fiche aveva concepito l’Io come attività, ma per Hegel si trattava di un processo irrisolto, in quanto l’Io fischiano non riusciva mai a superare interamente il Non-Io, ossia il proprio limite. Rimaneva, allora, in Fiche, la scissione e l’opposizione tra Io e Non-Io, soggetto e oggetto, infinito e finito. Schelling aveva cercato di superare queste scissioni con la sua filosofia dell’identità, ma per Hegel la concezione dell’Assoluto come Identità originaria di Io e Non-Io,soggetto e oggetto, finito e infinito era vuota e artificiosa. Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel afferma che l’Assoluto schellinghiano è come “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. La posizione di Hegel è chiara: lo Spirito si autogenera, generando contemporaneamente la propria determinazione, e superandola pienamente. Lo Spirito è infinito nel senso che è una continua posizione del finito e superamento del finito stesso. Lo Spirito in quanto movimento produce via via i contenuti determinati e quindi negativi (omnis determinatio est negatio: la determinazione si definisce per quello che non è; il fenomeno determinato esclude da sé altri fenomeni, altre proprietà diverse dalle proprie); l’infinito è il positivo che si realizza mediante la negazione di quella negazione che è propria di ogni finito, è il superamento del finito. Allora lo Spirito infinito hegeliano è come un circolo, in cui il finito è sempre posto ed è sempre dinamicamente superato. Ogni momento del reale è indispensabile per l’Assoluto, perché Esso si realizza in ciascuno e in tutti questi momenti (es. bocciolo-fiore-frutto: in questo processo ogni momento è essenziale all’altro e la vita della pianta è questo stesso processo che pone via via i vari momenti, e via via li supera). Hegel sottolinea che il movimento proprio dello Spirito è il “riflettersi in se stesso”. E in questa riflessione circolare si distinguono tre momenti: 1) ESSERE IN SE’ ; 2) ESSERE FUORI DI SE’; 3) ESSERE IN SE’ E PER SE’ (il seme è in sé la pianta, ma deve morire come sè, quindi uscire fuori di sé, per diventare la pianta). Questi tre momenti sono denominati: IDEA, NATURA, SPIRITO. L’IDEA, che è il Logos, ha in sé il principio del proprio svolgimento e, prima esce fuori di sé divenendo NATURA, poi supera questa alienazione e ritorna a sé medesima come SPIRITO. Si comprende allora la triplice distinzione della filosofia hegeliana: 1) LOGICA : studia l’ IDEA IN  SE'  (LOGOS); 2) FILOSOFIA DELLA NATURA : studia l’ IDEA FUORI DI SE' (NATURA); 3) FILOSOFIA DELLO SPIRITO : studia l’IDEA che ritorna a sé o l' IN SE’ E PER SE’ (SPIRITO).
Nella Filosofia del diritto è presente un’altra tesi hegeliana assai celebre: “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”. Questo significa che la realtà è lo stesso svilupparsi dell’Idea, che tutto è razionale, che ogni cosa è momento dello sviluppo dell’Idea.
Per Hegel la dialettica è la legge suprema del pensiero e del reale. Egli polemizza contro la pretesa romantica di cogliere immediatamente l’Assoluto. Questo non si coglie col sentimento, con l’intuizione o con la fede, ma con un metodo “scientifico”, quello della dialettica. Il nome di Hegel nel pensiero contemporaneo è strettamente legato al concetto di dialettica; eppure alla dialettica il filosofo tedesco non ha dedicato nessuno scritto specifico. La dialettica non è certo una scoperta di Hegel, ma occupa un posto cospicuo nella storia della filosofia, dove però è stata generalmente intesa solo come uno strumento molto efficace del pensiero e via via diversamente valutata a seconda che fosse considerata la forma più alta di sapere (Platone), oppure identificata con un tipo di sillogismo fondato su premesse non necessarie, ma soltanto verosimili(Aristotele). Con Kant, poi, la dialettica era stata collegata alla natura stessa della ragione, considerata come facoltà delle idee caratterizzata dal perenne contrasto tra la tensione verso l’oggetto delle idee e l’impossibilità di coglierlo, essendo la conoscenza umana limitata al fenomeno. La novità del pensiero hegeliano sta nel concepire la dialettica non come un procedimento del pensiero esterno alla realtà, ma come una legge interna e necessaria, tanto del pensiero quanto della realtà. Il cuore della dialettica è il movimento, giacchè il movimento è la natura stessa dello Spirito. La dialettica non è altro che uno sviluppo che tende al concreto mediante il superamento dell’astrattezza insita in ogni opposizione. Concreto, per Hegel, è ciò che rappresenta il compimento di un processo, l’unità di opposti, l’uno bisognoso dell’altro per realizzarsi. Perciò la logica hegeliana si contrappone alla logica tradizionale fondata sul principio di identità e non contraddizione, accusandola di considerare astrattamente gli opposti, e perciò di non poter giungere alla mediazione, ossia a cogliere l’unità degli opposti nella loro sintesi. Il movimento dialettico si configura come processo triadico di: TESI, ANTITESI e SINTESI. Il 1° momento (TESI) è detto il lato astratto e intellettivo; il 2° (ANTITESI) è detto il lato dialettico in senso stretto o negativamente razionale; il 3° (SINTESI) è detto il lato speculativo o positivamente razionale. Il 1° momento è quello della determinazione come entità statica e irrelata. Il fenomeno determinato esclude da sé altri fenomeni e si presenta come un’entità statica. L’intelletto è, infatti, la facoltà che astrae concetti determinati, che distingue, separa e definisce. L’intelletto vede solo una pluralità di determinazioni rigide, differenti l’una dall’altra, perciò resta chiuso nell’astratto irrigidito e rimane vittima delle opposizioni che esso stesso crea, distinguendo e separando. Il pensiero filosofico deve, quindi, andare oltre i limiti dell’intelletto. Il 2° momento è quello del rovesciamento della determinazione nel suo opposto. E’ il momento “negativo” della ragione, che consiste nello smuovere la rigidità dell’intelletto e dei suoi prodotti. Il pensiero razionale, superando quello intellettuale, vede che la negazione, oltre a dare alla determinazione stessa la sua qualità, ne mette in crisi la staticità e la chiusura, immettendola in un processo che oltrepassa il suo carattere isolato e irrelato. Hegel indica in questo processo l’aspetto specifico della dialettica: è la fase in cui la determinazione, scoprendosi unilaterale e limitata, tende a negarsi, a rovesciarsi nella determinazione opposta. Il 3° momento è quello dell’unificazione degli opposti. E’ questa la funzione positiva della ragione: concepire non l’opposizione, ma l’unità delle determinazioni che si contraddicono, ossia cogliere il positivo che emerge dalla sintesi degli opposti. La dialettica, come la realtà in generale, è questo movimento circolare che non ha mai posa. Hegel, da romantico, panteizza la eretica “teologia del processo”, o “teologia del riassorbimento” (Plotino), secondo la quale prima della creazione l’uomo (collettivisticamente, come specie, non come singoli individui) viveva in uno stato di felice unione cosmica con Dio e con la Natura; la creazione ha determinato separatezza (alienazione), ma una legge necessaria della storia condurrà ad una riunificazione dell’uomo con Dio ad un più alto e perfezionato livello. Per Hegel Dio è in realtà l’Uomo. L’Uomo - meglio, l’Uomo-Dio, chiamato da Hegel anche “Spirito del mondo” o “Sé del mondo” – creò il mondo (ecco in che senso Hegel è panteista, l’Uomo-Dio è anche il mondo). Fece ciò non per benevolenza, ma per il bisogno fortemente sentito di diventare conscio di se stesso come un sé del mondo. Questa esternalizzazione di se stesso avviene attraverso la creazione della natura, e, successivamente, attraverso la storia umana. L’imperfezione dell’Uomo consiste nella sua incapacità di capire che egli è Dio. Egli è alienato, separato dalla fondamentale consapevolezza che egli e Dio sono un’unica cosa. “Alienazione” dunque significa separazione dell’Uomo da Dio, finitezza; l’Uomo (lo Spirito) percepisce il mondo come ostile perché (ancora) non si rende conto che il mondo è egli stesso. La storia allora è l’inevitabile processo attraverso il quale l’Uomo-Dio sviluppa le sue facoltà, consegue le sue potenzialità e migliora il suo sapere; fa ciò attraverso la civilizzazione; fino al giorno finale in cui acquisirà la Conoscenza Assoluta, cioè la piena conoscenza e consapevolezza che egli è Dio. A quel punto, l’Uomo-Dio raggiunge la sua potenzialità, diventa un essere infinito e senza limiti; quindi pone fine alla storia. La dialettica della storia si svolge in tre fasi fondamentali: la fase della pre-Creazione; la fase della post-Creazione, caratterizzata dallo sviluppo con alienazione; e la fase finale del riassorbimento nello stato di infinitezza e auto-consapevolezza assoluta, che pone fine al processo storico. L’elemento metodologico della filosofia politica di H. è la dialettica, che egli ritiene in grado di raggiungere negli studi sociali conclusioni nuove e altrimenti indimostrabili. La storia offre un metodo specifico che può essere applicato allo studio di argomenti sociali quali il diritto, la politica, l’economia, la religione, la filosofia, la morale. Tale metodo non è un miglioramento della ricerca empirica; è un modo di derivare dall’evoluzione storica delle norme di valore (scientifiche o etiche), per mezzo delle quali poteva essere determinato il significato dei singoli stadi di tale evoluzione. Il metodo storico voleva dire una filosofia della storia, cioè la scoperta di una legge generale dello sviluppo della cultura, applicabile a qualsiasi aspetto di una società; per mezzo di essa si poteva ad esempio tracciare una linea fra popoli progrediti e popoli arretrati. Tale criterio fu molto utilizzato nell’‘800. Bisogna portare alla luce questo ordine, nascosto in un ammasso di fatti, riuscendo così a distinguere la corrente principale dal transeunte, il necessario dal non necessario, il “reale” dall’ “apparente”. Nella storia gli individui e i loro fini consapevoli contano poco; l’individuo è solo una variante accidentale della cultura che lo crea, una materializzazione parziale e imperfetta di forze sociali, una mera cellula dell’organismo umanità. La realtà e le cause efficienti della storia sono forze generali e impersonali, non eventi o singoli individui. La storia della civiltà è la realizzazione continua e progressiva nel tempo dello spirito universale.

SCHLEGEL

Di grande rilievo risulta l'opera filosofica di Federico Schlegel, il fondatore dell’dealismo romantico. Nel saggio giovanile Sullo studio della poesia greca egli introduce un'importante distinzione tra poesia oggettiva e poesia interessante che riprende sostanzialmente quella, fatta da Schiller, tra poesia ingenua e sentimentale. Anche Schlegel é convinto che la poesia moderna (interessante) non si debba semplicemente contrapporre a quella classica (oggettiva), ma possa recuperare i valori dell'oggettività tramite un processo di riflessione su se stessa. Schlegel elabora pertanto, ispirandosi anche a Kant, l'idea di una poesia trascendentale, o "poesia della poesia" in cui si ricompone la frattura tra la spontanea unità della poesia oggettiva classica e le consapevoli divisioni di quella moderna. Un altro importante aspetto del pensiero di Schlegel é la teorizzazione del concetto di ironia, concetto tipèicamente romantico. In ambito estetico, in cui trova la prima formulazione romantica, l'ironia indica il rapporto di inadeguatezza tra l'infinità dell'artista creatore, concepito come soggetto assoluto, e la finitezza dell'opera d'arte e del mondo fenomenico in cui essa si pone. Ma il concetto viene a indicare, più in generale, l'atteggiamento di chi, comprendendo il carattere relativo degli aspetti finiti dell'esistenza, coglie l'incomparabile superiorità dell'infinito che é in sè. Così Schlegel definisce ironia il modo di sentire di "chi sovrasta ogni cosa, di chi si eleva infinitamente al di sopra di ogni cosa finita, anche sopra la propria arte, virtù e genialità". Segno dell'incidenza della cultura romantica sul costume dell'epoca sono due opere di Schlegel filosoficamente minori, ma molto famose: il saggio su Diotima (1795) e il romanzo Lucinde (1799). In questi scritti, Schlegel elabora una dottrina dell'eros in cui si riconosce il diritto della donna a cercare la propria realizzazione nella passione. Soprattutto Lucinde, che destò un grande scandalo, contribuì particolarmente a quiell'emancipazione della donna che nella cultura romantica era non solo teorizzata, ma anche praticata e che Nietzsche detesterà e avverserà con tutte le sue forze. Il modello autobiografico di Lucinde é, infatti, Dorothea Mendelssohn, figlia del filosofo illuminista Moses Mendelssohn, la quale si era separata dal proprio marito per sposare lo stesso Schlegel.
Con la morte di Novalis (1801), il circolo di Jena si disperse. Schlegel tenne corsi privati a Parigi e a Colonia e nel 1808, dopo la conversione personale al cattolicesimo, si trasferì a Vienna mettendosi al servizio del principe di Metternich, uno dei maggiori esponenti della Restaurazione. Qui Schlegel diede vita ad un nuovo circolo, espressione ormai del tardo romanticismo tedesco, fondando la rivista Concordia (1820-1823). Quest'ultima fase dell'attività del pensatore é contrassegnato politicamente dalla difesa della politica restauratrice e reazionaria condotta dal governo austro-ungarico a partire dal Congresso di Vienna e, sul piano filosofico, da un'evoluzione del suo pensiero in senso religioso e teistico. Il problema fondamentale di Schlegel diventa allora quello di elaborare una filosofia che sostituisca l'idealismo tedesco, da lui ricondotto ai quattro sistemi di Fichte e di Schelling da un lato (espressioni dell'aspetto teoretico dell'idealismo), e di Kant e Jacobi dall'altro (che rappresentano il versante pratico, il tentativo di passare dalla filosofia alla fede con un "salto nel buio"). Ma nè il metodo razionale-speculativo, nè il ricorso all'atteggiamento fideistico possono, secondo Schlegel, cogliere l'assoluto nella sua pienezza. Per fare ciò bisogna attingere l'elemento della personalità come principio della vita stessa: l'ultima parola di Schlegel é quindi la rivalutazione di un atteggiamento religioso che fa leva sul teismo, ossia su una concezione di Dio come persona e come vita. Quest'ultimo periodo del pensiero di Schlegel é espresso in cicli di lezioni dedicate alla Filosofia della vita (1827), alla Filosofia della storia (1828) e alla Filosofia del linguaggio e della parola (1830).

NOVALIS (FEDERIC VON HARDENBERG)

L'idea romanticista di Federico Novalis ha una buona parte delle sue radici nella rilettura di Plotino e del pensiero neoplatonico in generale. Di contro al trionfo del pensiero sistematico, vince in lui un pensiero fortemente orientato al frammentismo, poetico e saggistico. Da questo punto di vista è un atteggiamento simile a quello di Leopardi. Sua idea centrale è il concetto di «immaginazione creatrice», ossia la capacità che ha l'immaginazione di forza plastica. Novalis contrappone alla logica dell'intelletto, arida e razionalistica, la logica dell'immaginazione che egli chiama "fantastica". La poesia, quando è veramente tale, ossia opera del genio ispirato, ci fa comprendere la realtà dal punto di vista del tutto, secondo un modello organicistico che affonda le sue radici nella Critica del Giudizio di Immanuel Kant. Passato e immaginazione sono due strumenti messi al servizio di una revisione dell'idea di progresso e di storia, che si concentra attorno alla nuova idea di Europa che Novalis presenta: un' Europa fortemente eurocentrica, unitarista, forte e germanica, una visione che non sarà senza conseguenze nella successiva assunzione dell'irrazionalismo romanticista da parte della mitografia reazionaria. Per capire meglio Novalis non si può prescindere dalla formazione rigidamente pietistica ch'egli ricevette in famiglia. Il padre, il barone Erasmus, si sentì attratto da quella forma di religiosità protestante sorta in polemica con il luteranesimo istituzionale chiamata pietismo, che ebbe il suo centro di diffusione a Herrnhut (Dresda). Questa fu la via che imboccò il padre di Novalis, dopo essere rimasto scosso per la perdita della prima moglie. Quel lutto segnò così in modo decisivo non solo la sua vita, ma anche quella della famiglia che si costruì più tardi; il barone infatti, profondamente convinto della ragionevolezza di quella dottrina, per punizione, si costrinse, e costrinse i famigliari, a vivere una vita rigorosa, severa che sfociò nel progressivo isolamento. Nonostante ciò l'esperienza religiosa di Novalis non sfociò nel rifiuto per essa: si fece esperienza poetica; ma quest'ultima porta ancora evidenti tracce della concezione pietistica e, più in generale, mistica della conversione, che è frutto di un'illuminazione e inizio di una strada che porta all'assoluto. La struttura mentale di Novalis è quella di un mistico: certe immagini che egli adopera, certe metafore linguistiche, fanno parte della letteratura mistica. Prima di abbandonare questo discorso sul pietismo, è opportuno accennare ad uno sviluppo importante che esso ebbe nella storia dello spirito e della letteratura. La pratica pietistica dell'esame di coscienza, che aveva portato alla stesura di tante "Confessioni" aveva dato vita ad un idealismo romanzesco che sembra essere a giusto titolo una delle forme germaniche e protestanti del bell'ingegno e del preziosismo: v'era un tipo intellettuale e sentimentale nella società tedesca, che tentava di amalgamare le esigenze del cuore con il pensiero filosofico. Era un tipo presentato da Jacobi nel romanzo Woldemar, appartenente a una classe sociale tale per cui risultava esonerato o quasi dalle necessità dell'esistenza e poteva dedicarsi con agio all'analisi interiore e ai godimenti intellettuali. Nel romanzo il protagonista e la partner godono del proprio cuore più che della passione realmente provata, adorano se stessi nell'oggetto amato e nell'amore cercano soprattutto il loro proprio metodo per amare, vale a dire un'idea raffinata ed esaltata di se stessi. Si può quindi dire che sul piano mondano il pietismo si trasformi in un'educazione mistica del sentimento. In uno dei suoi Frammenti Novalis scrisse: "Bisogna nobilitare la passione utilizzandola come un mezzo, conservandola a forza di volontà per farne il veicolo di un'idea bella. Per esempio di un'alleanza stretta con un "io" amato". È stretta la linea di confine che separa l'intenzione di coltivare la propria sensibilità per poter provare sentimenti più elevati, dall'intenzione di abbandonarsi ai più raffinati piaceri sensuali dell'immaginazione. E la passione di Novalis verso Sophie, la fidanzata bambina, rientra perfettamente in questo discorso: non è tanto rivolta al suo naturale oggetto (Sophie) quanto è prodotta piuttosto dal gioco d'immaginazione che nasce dall'esaminare, scrutare, indagare continuamente se stessi. Quest'amore quindi sarebbe "un voluttuoso dell'immaginazione più ancora che dei sensi". In effetti dagli Inni e dai Canti spirituali, come dagli Aforismi, traspare una sottile malia erotica: "Cos'è la fiamma? Uno stretto amplesso il cui frutto si espande in una voluta voluttuosa". V'è una mistica erotica anche nella morte. Tutto, in definitiva, può trasformarsi in voluttà; tale è la morale segreta del sensuale mistico. È indubbio quindi che in Novalis debba esser considerata anche questa faccia del misticismo sensuale, diretta ma non necessaria derivazione di quello religioso-pietistico. La contaminazione tra sacro e profano si mantenne però quasi sempre in Novalis entro limiti accettabili e non raggiunse mai quegli estremi morbosi cui arrivarono altri scrittori romantici

SCHLEIERMARCHER

E’ il fondatore del Romanticismo religioso. “La religione non è altro che il sentimento dell’infinito”. così scrive nei Discorsi sulla religione. Schleiermacher riscuote ancora oggi molto interesse, in particolar modo per i suoi scritti di ermeneutica, che furono ripresi da Dilthey (Schleiermarcher: "Etica ed ermeneutica).
Federico Daniele Schleiermacher intende l'ermeneutica come dottrina dell'arte o tecnica del capire, la quale analizza le condizioni grazie a cui è possibile comprendere le manifestazioni dell'esistenza. Dato che ogni testo è, da una parte, prodotto particolare di un determinato autore, e, dall'altra, fa parte di un sistema linguistico comune, si delineano in primo luogo due modi di interpretazione: il metodo oggettivo (grammatico) comprende un testo attraverso la totalità della lingua; il soggettivo tramite l'individualità che l'autore stesso immette nel suo processo creativo. A ciò fa seguito una seconda distinzione fra un procedimento comparativo, che rivela il significato attraverso il confronto delle proposizioni nel loro contesto storico e linguistico, e uno divinatorio, che coglie il significato intuitivamente tramite l'immedesimazione. E' necessario che tali forme cooperino e si integrino in modo progressivo nel processo di comprensione.
L'etica di Schleiermacher è volta a conciliare i princìpi universali con la varietà dell'esistenza concreta, le esigenze individuali con quelle generali. Questi suddivide l'etica in tre ambiti: la dottrina della virtù, che considera la morale come una forza che ha sede in ogni individuo; la dottrina dei doveri, che ha per oggetto l'azione stessa, il cui principio universale è che ogni individuo deve produrre quanto più gli è possibile nella comunità per adempiere al suo compito morale complessivo; la dottrina dei beni, che indica i beni che, da un lato, risultano dal compito di conciliare intenti individuali con intenti universali (comuni), e, dall'altro, dal modo di agire della ragione nei confronti della natura.
La ragione è ciò che conferisce una forma alla natura (organizzazione) e che modella la natura a proprio simbolo (simbolizzazione), attraverso il quale questa diviene oggetto di conoscenza. Il bene si consegue se la natura diventa completamente organo e simbolo della ragione, e se individuale e universale si equilibrano. Il combinarsi degli ambiti d'azione dà origine a quattro istituzioni morali: lo Stato, la libera aggregazione, la scienza e la Chiesa. La religione non si fonda sulla razionalità o sulla moralità, ma sul sentimento di assoluta dipendenza (Schleiermarcher: La fede cristiana).





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