venerdì 29 marzo 2013

L' OMOSESSUALITA' NELLE RELIGIONI ABRAMITICHE E NELLA STORIA DELLUMANITA'

(La distruzione di Sodoma e Gomorra, John Martin, 1852)

La forma ordinata della sessualità umana è fissata sin dal momento della Creazione. In Genesi 1, 27 è scritto: “Dio creò l’uomo a sua immagine; ad immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”.
La bipolarità complementare dei sessi costituisce, secondo la Creazione, la condizione indispensabile per la trasmissione e la prosecuzione della vita animale. La necessità di tale condizione è ribadita in Genesi 2, 18 - 25 : il Signore si rende conto di dover dare un aiuto ad Adamo che ha il compito di coltivare e custodire il giardino dell’Eden, un aiuto che fosse a lui simile: ebbene, questo aiuto non glielo dette maschio, ma femmina. Dunque, nel disegno creativo dell’uomo non c’è posto per la omosessualità: la concezione divina dell’uomo è eterosessuale e, per di più, omofoba, come vedremo.
Nella Bibbia, come nel mondo antico, non c’è un termine per designare l’omosessualità. La parola ”omosessualità” fu coniata soltanto nel 1869 da un medico ungherese, Karoly M. Benkert, che in una pubblicazione in tedesco la usò per designare “individui di sesso maschile e femminile” che ”dalla nascita”sono orientati eroticamente verso il proprio sesso”. Tantomeno si parla di sessualità come condizione o orientamento omo-sessuale o etero-sessuale.
Quello di ‘sessualità’ è un concetto astratto di cui siamo debitori alle moderne analisi e teorie psicologiche. Lo stesso vale ovviamente, per i concetti di ‘eterosessualità’, di ‘omosessualità’ e ‘bisessualità’: nel mondo antico non esistevano termini per designarli. Era universalmente dato per presupposto che tutti fossero ‘eterosessuali’, nel senso di congenitamente (naturalmente) predisposti al congiungimento fisico col sesso opposto. Così non esistono passi biblici sull’omosessualità intesa come ‘condizione’ o ‘orientamento’.

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Tutta la Sacra Scrittura condanna la pratica omosessuale, come la intendiamo oggi, in quanto costituita da atti depravati, nel senso di atti contro Dio e contro Natura.
Se avrai con maschio relazioni come si hanno con donna è abominio.” (Lv 18, 22).
Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro.” (Lv 20, 13).
I due versetti sono all’interno della Legge di Santità (Lv 17-26) che parla della purità rituale e cultuale che permette di avvicinarsi a Dio. Infatti, in Levitico 18 e 20 si argomenta a partire dalla santità di Dio. Qui la pratica omosessuale – come anche l’immolazione dei bambini, l’evocazione degli spiriti, i rapporti sessuali con parenti prossimi o con una donna durante le mestruazioni – appare come una grave infrazione della sfera divina della santità. Quest’ultima va intesa a sua volta come una ‘zona di forza divina’ o come un ‘campo di forza di Dio’ (cfr. E. Gerstenberger, "Teologia ell'Antico Testamento. Pluralità e sincretismo della fede veterotestamentaria"), dalla cui integrità dipende la vita del popolo o della comunità. Ma ciò significa che le affermazioni di Lv 18, 22 e 20, 13 tematizzano l’omosessualità sotto la prospettiva di una possibile infrazione dell’ordine della sfera vitale creata e protetta da Dio e non dal punto di vista della (possibile) configurazione etica di una relazione omosessuale. Quindi, la impurità attiene alla promiscuità della specie, perché la promiscuità generava sporcizia fisica e di conseguenza impossibilità di partecipare al culto, di stare alla presenza di Dio, il Santo, l’incontaminato: “Essere puri significava essere un esemplare incontaminato di una certa specie, che non avesse promiscuità con altre specie (il che avrebbe comportato la contaminazione). In questo contesto, perciò, ‘corruzione’ non significa corruzione morale, ma sporcizia in senso letterale, fisico. E’ questa la ragione per cui la Legge di Santità proibisce per esempio di accoppiare ‘bestie di specie differenti’, di seminare il proprio campo ‘con due specie di semi’, di indossare una ‘veste tessuta di due diverse materie" (Lev 19, 19)” (v. AA. VV., “Bibbia e omosessualità”, Ediz. Claudiana) ).
Non si tratta perciò di impurità morale, etica, a livello di peccato, ma di contaminazione, impurità che indica sporcizia in senso letterale, fisico: ”Osservate le mie leggi. Non accoppierai bestie di specie differenti; non seminerai il tuo campo con due sorta di seme, né porterai veste tessuta di due diverse materie”(Lev 19, 19).
In questo contesto culturale e cultuale occorre interpretare le proibizioni del Levitino circa la omosessualità.
Secondo l’esegesi protestante i rapporti omosessuali, di cui parla il Levitico, sono contaminati e proibiti perché fatti in modo non naturale: uno dei due partner giace nella posizione della donna, assume un ruolo passivo, recettivo. Lo dice alla lettera il testo ebraico: Esse, le proibizioni del Levitico, condannano i rapporti sessuali tra due individui di sesso maschile perché in simili atti uno dei due partner deve – come dice letteralmente l’ebraico – “giacere la giacitura (o nella posizione) di una donna” (Lev 20, 13). In questo modo, secondo la concezione ebraica antica, la virilità di quel partner restava compromessa: egli non era più un esemplare incontaminato della sua specie, ed essendo contaminato, tutto l’atto risultava impuro: e così anche l’altro partner.
E’ importante osservare che questa norma del Levitico non prende in considerazione in modo specifico il problema di cosa sia ‘buono’ o ‘giusto’ o ‘amorevole’. L’unica sua preoccupazione è la purità, intesa in un senso oggettivo e letterale. E’ anche per questo motivo che la proibizione è così assoluta e priva di ulteriori specificazioni. L’identità dei due individui di sesso maschile non ha importanza, né conta la loro età, la natura della relazione che li lega, se ci sia stato reciproco consenso. L’unica cosa che ha importanza è che uno di loro verrebbe fisicamente contaminato dall’assunzione del ruolo femminile, e in tal modo contaminerebbe l’atto stesso e il suo partner.
Ma è anche importante osservare che, secondo l’esegesi cattolica dai due brani del Levitico, non si può dedurre una condanna chiara dell’omosessualità, infatti potrebbe trattarsi della proibizione della prostituzione sacra maschile: La condanna non viene motivata e neppure posta in relazione con l’ordinamento della creazione. Non è possibile affermare con sicurezza che il divieto riguardi l’omosessualità in genere o una forma specifica di prostituzione cultuale (maschile) (cfr. Deut 23, 18s; 1Re 15, 12; 2Re, 23, 7). La relazione con la prostituzione sacra praticata a Canaan può permettere un’ interpretazione dell’omosessualità come mancanza contro la purezza della fede di Jahvé e non da ultimo, a causa della grande stima degli ebrei per il matrimonio e la famiglia - come espressione tipica dell’immoralità dei pagani.

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Nella Bibbia ebraica l’omosessualità è particolarmente colpevolizzata in  Genesi 19, 1-13 : “1 due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. 2 E disse: «Miei signori, venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte, vi laverete i piedi e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No, passeremo la notte sulla piazza». 3 Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto, fece cuocere gli azzimi e così mangiarono. 4 Non si erano ancora coricati, quand'ecco gli uomini della città, cioè gli abitanti di Sòdoma, si affollarono intorno alla casa, giovani e vecchi, tutto il popolo al completo. 5 Chiamarono Lot e gli dissero: «Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!». 6 Lot uscì verso di loro sulla porta e, dopo aver chiuso il battente dietro di sé, 7 disse: «No, fratelli miei, non fate del male! 8 Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all'ombra del mio tetto». 9 Ma quelli risposero: «Tirati via! Quest'individuo è venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E spingendosi violentemente contro quell'uomo, cioè contro Lot, si avvicinarono per sfondare la porta. 10 Allora dall'interno quegli uomini sporsero le mani, si trassero in casa Lot e chiusero il battente; 11 quanto agli uomini che erano alla porta della casa, essi li colpirono con un abbaglio accecante dal più piccolo al più grande, così che non riuscirono a trovare la porta. 12 Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo. 13 Perché noi stiamo per distruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandati a distruggerli”.
Secondo gli esegeti, questo racconto non ha lo scopo diretto di dare un giudizio morale su un comportamento omosessuale, non stigmatizza una pratica omoerotica. Riporta invece l’intenzione dei cittadini di Sodomia di fare violenza a degli stranieri, ai quali invece si doveva ospitalità e protezione, secondo la cultura del tempo. Quindi direttamente viene colpito il peccato gravissimo di inospitalità (cfr. Sap 19, 13-17). L’ accenno allo stupro dei due uomini sarebbe secondario:
“Il fatto che l’aggressione, se fosse riuscita, avrebbe comportato lo stupro dei due ospiti maschi di Lot da parte di una banda di altri maschi sarebbe solo un dato accessorio del racconto. A quanto pare gli uomini di Sodomia avevano intenzione di trascorrere una ‘notte brava’, e gli inermi ospiti di Lot erano parsi un obiettivo atto alla bisogna” (Bibbia e omosessualità, op.cit.).
L’ospitalità era così sentita presso gli orientali e il rispetto della donna così basso, che Lot, per tutelare gli ospiti, è disposto a prostituire le figlie.
A conferma di questa interpretazione starebbe il fatto che in seguito, nella Bibbia, si riporta questo episodio senza parlare del progettato stupro. In Ezechiele il peccato di Sodomia è presentato come peccato di avidità e di indifferenza nei riguardi del povero: “Ecco questa fu l’iniquità di tua sorella Sodoma: essa e le sue figlia avevano superbia, ingordigia, ozio indolente, ma non stesero la mano al povero e all’indigente” (Ez 16, 49). In Matteo e Luca il fatto di Sodoma è riportato in un contesto di mancata ospitalità: (Mt, 10, 12-15; Lc, 10, 10-12). In Giuda si parla di Sodoma e Gomorra come città che hanno commesso vizi contro natura: “Così Sodoma e Gomorra e le città vicine, che si sono abbandonate stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno” (v. cap.7).
Che cosa si intenda per “contro natura”appare da una nota della Bibbia di Gerusalemme: “Vizi contro natura: alla lettera una ‘carne diversa’: una carne che non era umana, perché il loro peccato era consistito nel voler abusare degli angeli” (Gen 19,1-11, Bibbia di Gerusalemme, nota 7.).
Per questi autori sacri quindi il peccato di sodomia consiste nel fatto che esseri mortali vollero fare violenza a esseri immortali, a degli angeli.
Esegeti cattolici e protestanti a concordano su questa interpretazione: “In Genesi 19 viene raccontata la distruzione di Sodoma . In primo piano c’è l’inviolabilità del diritto di ospitalità, che viene santificato, e non l’omosessualità. La successiva tradizione dell’Antico e del Nuovo Testamento non ricorda mai la proibizione dell’omosessualità quando accenna a Sodoma (cfr. Is, 3, 9; Ger, 23, 14; Ez, 16, 49s; Sir, 16 ,8). Inoltre lì si tratta di violenza sessuale, ma anche della mescolanza di sfere proibite, di uomini con angeli. Quindi è molto discutibile che in Genesi 19 si condanni l’omosessualità” (cfr. AA.VV. : “Il posto dell’altro, le persone omosessuali nelle Chiese cristiane”, edizioni la Meridiana).
Insomma, tutti i commenti sottolineano che per l'autore la colpa più grave è la violazione dell'ospitalità, che nella cultura del tempo, data l'insicurezza totale in cui veniva a trovarsi un viandante, era considerata particolarmente vincolante. Per questo l'indifferenza di Lot nei confronti delle due figlie appare scusabile, essendo considerata l'estremo rimedio per evitare un male più male più grave. Tuttavia basta questa scelta, che a fatica si potrebbe far rientrare in un'applicazione del principio del duplice effetto, del quale era certamente ignaro l'autore, per dimostrare che non può avere alcun rilievo morale permanente una visione delle cose nella quale il rispetto dell'ospite è ritenuto superiore al rispetto per le giovani figlie. Sono esecrabili i sodomiti, ma non è certo Lot a dare un buon esempio di come reagire alla violenza e alla paura. Lot, del resto, in tutte le vicende che lo riguardano, è sempre raffigurato come un irresoluto, incapace di percepire la gravità delle situazioni, tanto che fra poco i due angeli dovranno costringerlo a fuggire in tempo, vincendo i suoi tentennamenti inconcludenti, e poi concedergli di fermarsi a Zoar, perché non ha forza di raggiungere la montagna. Là saranno le figlie a prendere l'audace iniziativa di farsi mettere incinte da lui per avere discendenza. La famiglia di Lot non è certo un esempio di moralità.

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Ma nel capitolo 19 del libro dei Giudici si racconta una vicenda simile a quella di Sodoma, ma nella quale i protagonisti gli abitanti Beniamiti di Betlemme, che il testo definisce "figli di Belial", per dire che sono pari ai peggiori idolatri. Leggiamo il capitolo:
1 In quel tempo, quando non c'era un re in Israele, un levita, il quale dimorava all'interno delle montagne di Efraim, si prese per concubina una donna di Betlemme di Giuda. 2 Ma la concubina in un momento di collera lo abbandonò, tornando a casa del padre a Betlemme di Giuda e vi rimase per quattro mesi. 3 Suo marito si mosse e andò da lei per convincerla a tornare. Aveva preso con sé il suo servo e due asini. Ella lo condusse in casa di suo padre; quando il padre della giovane lo vide, gli andò incontro con gioia. 4 Suo suocero, il padre della giovane, lo trattenne ed egli rimase con lui tre giorni; mangiarono e bevvero e passarono la notte in quel luogo. 5 Il quarto giorno si alzarono di buon'ora e il levita si disponeva a partire. Il padre della giovane disse: «Prendi un boccone di pane per ristorarti; poi, ve ne andrete». 6 Così sedettero tutti e due insieme e mangiarono e bevvero. Poi il padre della giovane disse al marito: «Accetta di passare qui la notte e il tuo cuore gioisca». 7 Quell'uomo si alzò per andarsene; ma il suocero fece tanta insistenza che accettò di passare la notte in quel luogo. 8 Il quinto giorno egli si alzò di buon'ora per andarsene e il padre della giovane gli disse: «Rinfràncati prima». Così indugiarono fino al declinare del giorno e mangiarono insieme. 9 Quando quell'uomo si alzò per andarsene con la sua concubina e con il suo servo, il suocero, il padre della giovane, gli disse: «Ecco, il giorno volge ora a sera; state qui questa notte; ormai il giorno sta per finire; passa la notte qui e il tuo cuore gioisca; domani vi metterete in viaggio di buon'ora e andrai alla tua tenda». 10 Ma quell'uomo non volle passare la notte in quel luogo; si alzò, partì e giunse di fronte a Iebus, cioè Gerusalemme, con i suoi due asini sellati, con la sua concubina e il servo. 11 Quando furono vicino a Iebus, il giorno era di molto calato e il servo disse al suo padrone: «Vieni, deviamo il cammino verso questa città dei Gebusei e passiamovi la notte». 12 Il padrone gli rispose: «Non entreremo in una città di stranieri, i cui abitanti non sono Israeliti, ma andremo oltre, fino a Gàbaa». 13 Aggiunse al suo servo: «Vieni, raggiungiamo uno di quei luoghi e passeremo la notte a Gàbaa o a Rama». 14 Così passarono oltre e continuarono il viaggio; il sole tramontava, quando si trovarono di fianco a Gàbaa, che appartiene a Beniamino. Deviarono in quella direzione per passare la notte a Gàbaa. “15 Il levita entrò e si fermò sulla piazza della città; ma nessuno li accolse in casa per passare la notte. 16 Quand'ecco un vecchio che tornava la sera dal lavoro nei campi; era un uomo delle montagne di Efraim, che abitava come forestiero in Gàbaa, mentre invece la gente del luogo era beniaminita. 17 Alzati gli occhi, vide quel viandante sulla piazza della città. Il vecchio gli disse: «Dove vai e da dove vieni?». 18 Quegli rispose: «Andiamo da Betlemme di Giuda fino all'estremità delle montagne di Efraim. Io sono di là ed ero andato a Betlemme di Giuda; ora mi reco alla casa del Signore, ma nessuno mi accoglie sotto il suo tetto. 19 Eppure abbiamo paglia e foraggio per i nostri asini e anche pane e vino per me, per la tua serva e per il giovane che è con i tuoi servi; non ci manca nulla». 20 Il vecchio gli disse: «La pace sia con te! Prendo a mio carico quanto ti occorre; non devi passare la notte sulla piazza». 21 Così lo condusse in casa sua e diede foraggio agli asini; i viandanti si lavarono i piedi, poi mangiarono e bevvero. 22 Mentre aprivano il cuore alla gioia ecco gli uomini della città, gente iniqua, circondarono la casa, bussando alla porta, e dissero al vecchio padrone di casa: «Fa' uscire quell'uomo che è entrato in casa tua, perché vogliamo abusare di lui». 23 Il padrone di casa uscì e disse loro: «No, fratelli miei, non fate una cattiva azione; dal momento che quest'uomo è venuto in casa mia, non dovete commettere questa infamia! 24 Ecco mia figlia che è vergine, io ve la condurrò fuori, abusatene e fatele quello che vi pare; ma non commettete contro quell'uomo una simile infamia». 25 Ma quegli uomini non vollero ascoltarlo. Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro. Essi la presero e abusarono di lei tutta la notte fino al mattino; la lasciarono andare allo spuntar dell'alba. 26 Quella donna sul far del mattino venne a cadere all'ingresso della casa dell'uomo, presso il quale stava il suo padrone e là restò finché fu giorno chiaro. 27 Il suo padrone si alzò alla mattina, aprì la porta della casa e uscì per continuare il suo viaggio; ecco la donna, la sua concubina, giaceva distesa all'ingresso della casa, con le mani sulla soglia. 28 Le disse: «Alzati, dobbiamo partire!». Ma non ebbe risposta. Allora il marito la caricò sull'asino e partì per tornare alla sua abitazione. 29 Come giunse a casa, si munì di un coltello, afferrò la sua concubina e la tagliò, membro per membro, in dodici pezzi; poi li spedì per tutto il territorio d'Israele. 30 Agli uomini che inviava ordinò: «Così direte ad ogni uomo d'Israele: È forse mai accaduta una cosa simile da quando gli Israeliti sono usciti dal paese di Egitto fino ad oggi? Pensateci, consultatevi e decidete!». Quanti vedevano, dicevano: «Non è mai accaduta e non si è mai vista una cosa simile, da quando gli Israeliti sono usciti dal paese d'Egitto fino ad oggi”.
Qui è ancor più chiaro che quel che gli uomini iniqui vogliono è abusare dell'ospite. Infatti chiedono all'inizio di conoscere l'uomo arrivato in città, poi rifiutano la figlia vergine dell'ospitante, ma, alla fine, si sfogano con la concubina dello straniero fino a farla morire per le violenze subite. Più che omosessuali sono degli assatanati bisessuali per i quali va bene tutto, purché sia un forestiero da massacrare. Il brano è, uno dei più terribili dell'intera Bibbia ebraica. Come spiegare il comportamento del vecchio che ospita il Levita il quale, in cambio dell’ospite, offre la figlia vergine alle voglie immonde dei Beniamiti, così come Lot aveva offerto le due figlie, altrettanto vergini, per placare la libidine dei Sodomiti? E come spiegare il comportamento dello stesso Levita che, alla fine, sacrifica la propria concubina/moglie. Sembra quasi un'usanza quella di offrire le proprie figlie vergini e le mogli per calmare le voglie del branco, donne usate come animali da sacrificare.
Ma la seconda storia fa ancor più rabbrividire ed angosciare, perché è la storia di una donna senza nome e senza voce, che ad un certo punto della sua vita ha a che fare con uomini che di umano non hanno nulla. Tutto comincia con un suo gesto di liberazione, impensabile per l’epoca : fugge di casa e torna dal padre. Perché fugge non è detto ma dal comportamento successivo del marito, intuiamo uno scenario di violenza e sopraffazione. Dopo quattro mesi, l’uomo la raggiunge "per parlare al suo cuore", perché torni a casa. Ma non parla affatto al suo cuore. Non ha rimorsi, non vuole ricominciare con lei una storia diversa ma solo riaffermare il suo diritto di proprietà. Il padre non ha il coraggio di andare contro le regole del tempo. Col genero è gentile e ospitale. In difesa della figlia non dice una parola. Dopo quattro giorni il marito decide di partire senza interrogarsi sulla volontà della donna e la storia diventa sempre più angosciante. La notte li coglie per la strada, un vecchio si offre di ospitarli. Avete letto quello che poi succede. La donna è buttata fuori casa e violentata tutta la notte. Abbandonata a se stessa dal padre, buttata in strada dal marito, violentata da una masnada di uomini, non può che raggiungere la casa da cui è stata messa fuori. Ma la porta è chiusa. Senza forze, crolla a terra. Al mattino il marito la vede lì, dentro di lui non si smuove niente, non si avvicina, non si piega su di lei, non dice una parola di rimorso, non compie nessun gesto che lasci trasparire un po’ d’umanità L’unica cosa che fa è ancora comandare : “Alzati e partiamo”. La donna, senza forze, non può scattare all’ordine ricevuto.. Lui la carica sull’asino e parte. A casa la fa a pezzi - il testo non ci dice se morta o ancora viva - e la manda pezzo per pezzo alle 12 tribù d’Israele per far sapere l’ingiuria subita: il suo onore è stato offeso, la sua vita messa in pericolo, la sua proprietà danneggiata. A lei non è successo niente.

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Dai racconti riportati emerge che per l'Ebraismo la violenza per finalità omosessuali, non l'omosessualità in se stessa, diviene lo stereotipo che riassume la massima degradazione morale. Il contesto di violenza e disprezzo dell'ospite straniero con cui è connotata nel testo l'intenzione dei sodomiti mette in secondo piano l'omosessualità. Quello che i sodomiti vogliono è maltrattare e umiliare degli stranieri: che questo avvenga con violenze sessuali può aggravare la loro malizia, ma non costituisce l'essenza della loro malvagità. A riprova di questo sta il fatto che, nelle numerosissime ricorrenze in cui nell'Antico Testamento è citata Sodoma (si pensi alle invettive isaiane contro Gerusalemme) le colpe che si denunciano come evocative di quella città sono crimini contro mi poveri, la giustizia, il rispetto dei diritti all'interno delle comunità, ma non sono mai evocati disordini di tipo omosessuale.
All'interno della Bibbia vi sono molte denuncie contro la gravità della violenza immotivata come, ad esempio, le deportazioni di popolazioni inermi, lo sventramento di donne incinte, l'uccisione di neonati, la profanazione di cadaveri e, per alcuni di questi si può vedere “Am 1,6.9.13; 2,1.”
L'omosessualità è vista nei nostri racconti come uno dei mezzi per esercitare la violenza: è stata utilizzata probabilmente perché, nell'atmosfera generalmente pacifica dell'età patriarcale, non erano verosimili altre deviazioni o violenze. E' un motivo che si presta ad essere riutilizzato quando si vuol descrivere una colpa non dei re o degli stati ma dei singoli. Il fatto che risulti istintivamente ripugnante alla maggioranza delle persone, lo rende un tema particolarmente utile per tutti i testi in cui si ha di mira l'effetto e si vogliono suscitare reazioni emotive. Ma una geniale trovata a livello letterario ed espressivo non implica valenze morali particolari. L'omosessualità è un male morale fra i tanti che l'Antico Testamento conosce: ebbe la ventura di prestarsi alla buona riuscita di una narrazione che ebbe successo e celebrità, ma questo non basta a farla diventare una deviazione peggiore di altre. Si deve anche precisare gli episodi raccontati condannano la violenza omosessuale, non l'amore omosessuale, che è tutt'altra cosa e che potrà essere riprovato per altre ragioni, non sulla base degli stessi.
D’altra parte anche l'amicizia di Davide e Gionata viene celebrata servendosi di qualche tonalità erotica, il che è diverso da omosessualità praticata, può anche darsi. Ma filologicamente ed esegeticamente è arduo determinare se frasi come "l'animo di Gionata si legò all'animo di Davide fino ad amarlo come se stesso" (1Sam 18,1; cf. 18,3; 19,1; 20,41) oppure "la tua amicizia era per me preziosa più che amore di donna" (2Sam 1,26) siano qualcosa di più che semplici iperboli. Del resto anche dimostrare che nell'Antico Testamento poteva essere giudicato non immorale un amore omosessuale tra due giovani non significa assolutamente nulla per la costruzione di un discorso morale. L'Antico Testamento è pieno di proibizioni che non hanno seguito nel Nuovo e tollera o esalta scelte di vita, come la poligamia e il concubinato, che sono escluse nel Nuovo. Decreta la morte Decreta la morte per una quantità di trasgressioni, ma nessuno oggi fa appello a quei testi per sostenere la legittimità della pena di morte.

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Anche il Cristianesimo si occupa dei sodomiti. Leggiamo Paolo, 1 Corinzi, 6, 9-10 : “O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio”.
I versetti contengono uno dei tanti elenchi di peccati in opere pagane, giudaiche e cristiane del primo secolo (cfr. Rm 1, 29-31; Gal, 5, 19-21; 1Cor, 5, 11). Questo elenchi non coincidono e non sono completi.
In 1Cor, 6, 9-10 ci sono due parole per indicare uomini che praticano rapporti omosessuali: 1) Effeminati (in greco malakoi, in latino molles): erano uomini dai modi femminili oppure uomini che nel rapporto sessuale tra maschi assumevano un ruolo passivo. Oppure si tratta di adolescenti che stavano con uomini maturi, per denaro (male prostitutes, prostituti); 2) Sodomiti (in greco arsenokoitai, in latino masculorum concubitores) : il termine greco è composto da due parole che indicano maschio e letto; l’espressione è la prima volta che si trova nel Nuovo Testamento. Il senso è quindi di un maschio che ha rapporti sessuali con un altro maschio.
La stessa parola si trova in 1Tm. 1, 9-10: “Sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, i fornicatori, i pervertiti, i trafficanti di uomini, i falsi, gli spergiuri e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina”.
Secondo altri studiosi nei due brani Paolo condanna il rapporto sessuale tra un adulto e un bambino, così frequente nella antica Grecia. Inoltre l’apostolo si rivolge ai membri della comunità di Corinto che avevano sperimentato queste pratiche ma che ora sono stati purificati da Cristo: “E tali eravate alcuni di voi; ma voi siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello spirito del nostro Dio!”(1Cor, 6, 11).
Naturalmente, bisogna subito aggiungere che questo rifiuto dell’abuso sessuale dei bambini riguarda non solo le pratiche omosessuali ma anche allo stesso modo quelle eterosessuali. E anche nel caso in cui con le espressioni ‘ragazzo di piacere’ e ‘stupratore di bambini’ si dovesse pensare in primo luogo all’aspetto della pratica di mestiere (e meno al punto di vista dell’abuso del bambino), la cosa varrebbe allo stesso modo anche per la variante eterosessuale. Orazio (cfr. Ep. 2, 1, 156) ricorda che “I romani qualificavano come ‘vizio greco’ l’omosessualità maschile praticata con gli adolescenti, o più precisamente l’amore efebico, e, dicevano con ragione, che esso era sconosciuto nella vita romana più antica. Era qualcosa di totalmente estraneo alla mentalità romana tradizionale; per cui veniva da loro condannato in modo assoluto. In qualche misura, tuttavia, al tempo di Orazio, aveva messo piede anche a Roma, dove aveva assunto altre forme. Cicerone, scrive: ‘questa abitudine di amare i ragazzi mi sembra che sia nata nei ginnasi greci, nei quali questi amori sono liberi e tollerati”.
Secondo l’interpretazione cattolica non è ben chiaro se in 1Cor, 6-9 Paolo condanni in blocco i rapporti omosessuali o solo la pederastia o addirittura solo una forma particolare di essa che è l’amore prezzolato dei bambini. In Romani 1, 26-27, dichiara: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che si addiceva al loro traviamento”.
Per Paolo e in tutta la Bibbia il peccato più grave è l’idolatria che produce vizi come l’immoralità sessuale (cfr. Sap 14,12), tra cui lo scambio dei ruoli sessuali (Sap 14,26).
E’ certo che Paolo si oppone a relazioni tra lo stesso sesso; non conosciamo i motivi di questa condanna, però li deduciamo da molti suoi contemporanei che nel mondo greco-romano attaccavano e stigmatizzavano questa pratica. Infatti, Si pensava che chi praticava il sesso omo era un etero pervertito che voleva provare anche il piacere dello stesso sesso. Non si pensava a quei tempi che ci fosse nell’uomo e nella donna una tendenza, o un orientamento sessuale verso il proprio sesso. Piuttosto si credeva che gli atti omoerotici fossero intrinsecamente lussuriosi, conseguenza di una bramosia sessuale insaziabile.
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Corano, SuraVII  Al-A'râf  ("Sura del limbo") : 80 E quando Lot disse al suo popolo: "Vorreste commettere un'infamità che mai nes-suna creatura ha mai commesso? 81 Vi accostate con desiderio agli uomini piuttosto che alle donne. Sì, siete un popolo di trasgressori". 82 E in tutta risposta il suo popolo disse: "Cacciateli dalla vostra città! Sono persone che vogliono esser pure!". 83 E Noi salvammo lui e la sua famiglia, eccetto sua moglie, che fu tra quelli che rimasero indietro . 84 Facemmo piovere su di loro una pioggiaGuarda cosa è avvenuto ai perversi”.
Non esiste nell'Islam un concetto analogo a quello di omosessualità, nel senso di un'identità astratta ed unica. Al contrario, le espressioni sessuali fra lo stesso sesso si manifestano in modi diversi e separati, che non sono trattati nello stesso modo, né socialmente né giuridicamente.
Innanzitutto va detto che l'Islam si occupa di giudicare e valutare i comportamenti piuttosto che i desideri sessuali. In particolare nell'Islam viene condannato il rapporto anale – con uomini o donne indifferentemente –, identificandolo come un peccato molto grave. Il concetto stesso di orientamento omosessuale non trova riconoscimento né applicazione nella legge islamica.
Secondo Khaled El-Rouayheb (v. "Before Homosexuality in the Arab-Islamic World 1500-1800") la tolleranza nei confronti dei casti rapporti amorosi pederastici, diffusi sin dal IX secolo (testimoniati dalla letteratura e dalla tradizione di diverse epoche) fu letteralmente spazzata via dall'adozione della morale impressa sulla borghesia dell'Inghilterra vittoriana (metà XIX secolo), che già aveva trasformato l'etica sessuale europea e si apprestava a rivoluzionare i costumi dell'occidentalizzata élite musulmana ottomana.
Tuttavia, occorre comunque riconoscere la presenza di una corrente interpretativa oggi ampiamente minoritaria che considera l'omosessualità come una normale espressione del sentimento umano, senza collegarvi alcun giudizio negativo. Gli studiosi che si esprimono in tale senso sono numerosi, il più noto tra loro è l'Imam Daayiee Abdullah, che si proclama apertamente gay.
Per la parte prevalente degli studiosi islamici, il rapporto anale viene immaginato inseparabile dal coinvolgimento di sentimenti ed implicherebbe una divisione di ruolo tra dominazione e sottomissione: ciò andrebbe in totale contraddizione alla fede islamica, poiché l'essere umano sa che la dominazione è qualcosa a cui l'Eterno, e Lui soltanto, può accedere. Mai un essere umano può dominarne un altro nell'universo terreno, che l'Onnipotente ha creato e che può in esclusiva assoluta dominare. La sottomissione stessa, di conseguenza, diventa un atto possibile solo di fronte a Dio. In questo sta il più profondo dei significati della religione islamica (Islam stesso, in arabo, significa infatti sottomissione).
Il concetto di orientamento sessuale è inammissibile nell'Islam, in quanto trasgressione dalla connessione spirituale che lega tutti e tutto nell'universo. Orientarsi sessualmente significherebbe chiudersi in una visione fisica della vita, a dispetto di quella spirituale: per questo l'attrazione deve avvenire innanzitutto a livello spirituale e trascendentale, poiché ogni essere umano è uno spirito che occupa un corpo; lo spirito in sé, la vera natura umana, non è né donna né uomo, non è né bianco né nero, né ricco né povero. Tutti gli spiriti sono uguali, e non devono in alcun modo accentuare le differenze tra due corpi: in questo si ritrova il fatto che l'Islam, come molte religioni, lavora nell'anelare dello spirito a un livello superiore rispetto a quello terreno.
Terminologicamente, un rapporto tra due uomini è definito liwāt (rapporto anale), sia esso tra uomo e ragazzo, due uomini adulti o tra uomo e donna: quale che sia il caso, l'Islam non lo accetta e lo proibisce espressamente. L'uomo è conosciuto come lūṭī, un'espressione che etimologicamente si riallaccia al biblico Lot e che può tradursi come sodomita. I partner, se pagati, sono murd muʿājirūn (imberbi affittati), altrimenti il singolo è chiamato amrād ("imberbe") o ghulām ("giovane", ma non imberbe e con qualche esperienza).
Una categoria semantica a parte meritano quegli uomini "colpiti" dal desiderio di essere penetrati da partner maschili. A essi viene riferito il termine maʿbūn ("depravato"), in quanto considerati portatori di una vera e propria malattia dello spirito, ubna ("pederastia passiva"). È argomento di discussione l'eziologia e la presunta cura di tale "morbo", che rende il ruolo e la reputazione di queste persone radicalmente diversi da quello di colui che penetra.
Un'altra categoria consiste nello studio di coloro che si sentono attratti da giovani ragazzi. Si pensa che ogni uomo rientri in questa categoria, e i loro desideri sono visti come naturali, eppur problematici, se questo porta a diventare un lūṭī. (v. El-Rouayheb, op. cit.))
Ad esempio, si narra che il giurista hanbalita Ibn al-Jawzī (1200 d.C.) abbia detto: « Colui che afferma di non provare alcun desiderio quando guarda a bei ragazzi o bei giovani è un bugiardo, e se gli credessimo lo vedremmo come un animale, non un essere umano».
Questo certamente testimonia l'opinione, diffusa tra alcuni intellettuali nei secoli passati, che l'omofobia era un sentimento da condannare, quasi da emarginare – una visione che per molti aspetti stride con la moderna idea, più conservatrice, di relazione sessuale.
Nondimeno, l'atto di liwāt (sodomia, per l'appunto) viene condannato, e agli uomini viene consigliato di stare molto attenti all'attrazione che possono provare verso un giovane maschio, chiedendo loro di concentrarsi su una donna attraverso delle raccomandazioni di ordine religioso, improntate sulla resistenza alla tentazione.
Maometto invitò i suoi seguaci a "diffidare dei giovani imberbi, perché sono una fonte di danno più grande delle giovani vergini." Allo stesso modo, l'Imām e studioso di legge Sufyān al-Thawrī (783) si dice sia scappato dalle terme un giorno, asserendo a proposito della tentazione sessuale che "se ogni donna ha un demone che l'accompagna, allora un bel giovane ne ha diciassette".
Allo stesso modo, un ḥadīth attribuito a Maometto dice che l'amore casto garantisce l'ingresso nel paradiso: "Colui che ama e rimane casto e nasconde il suo segreto e muore, muore da martire." Questo significa che, l'amore per giovani uomini nell'Islam, lontano dall'essere il sentiero verso la perdizione che è nel Cristianesimo, era un sentimento comprensibile che, se tenuto sotto controllo, poteva innalzare un credente fino al paradiso. L'amore tra uomini diventò un crimine punibile (nella vita) solo se veniva consumato - e veniva sorpreso nel praticarlo, il che richiede la testimonianza di quattro uomini o di otto donne. Se non si veniva sorpresi nel compiere atti omosessuali, comunque, si veniva ugualmente puniti tra le fiamme dell'inferno.
Storicamente la pena è stata meno severa delle sue controparti abramitiche: il Giudaismo e il Cristianesimo. Nel Corano è scritto che se una persona commette un peccato può pentirsi e avere la sua vita salva, nonostante ciò ci sono degli ḥadīth che prescrivono la pena di morte. Sembra che questo sia parte di un climax che giungerà alla proibizione così come è stato con l'alcol e il gioco d'azzardo. Le prime culture islamiche, specialmente quelle in cui l'omosessualità era radicata nelle loro culture pagane, furono acclamate per la loro cultura nell'estetica omosessuale. Si sono riconciliati con la loro nuova religione seguendo il ḥadīth di Maometto citato in precedenza, che dichiara martire colui che nasconde il suo segreto e muore casto anche provando una forte passione.
Ibn Ḥazm, Ibn Daʿud, al-Muʿtamid, Abū Nuwās, e molti altri scrissero apertamente dell'amore tra uomini. Tuttavia, perché la trasgressione sia provata, almeno quattro uomini o otto donne devono testimoniare contro l'accusato, rendendo in questo modo molto difficile perseguire coloro che non rimangono casti nella privacy della propria casa.
Il significato dato a "rapporto omosessuale" è rapporto sessuale tra due o più uomini, o rapporto sessuale tra due o più donne. Non comprende la masturbazione, e non ha nemmeno niente a che fare con le polluzioni notturne; entrambi questi aspetti, anche non essendo punibili stando alla Sharīʿa, sono comunque considerati invalidanti e richiedono che il musulmano si lavi completamente prima della sua prossima preghiera.
La Sharīʿa - nelle sue costituenti coraniche e della Sunna - è la legge dell'Islam. Nonostante ci sia un certo consenso riguardo al fatto che rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso siano in violazione della Sharīʿa, ci sono differenze di opinione tra gli studiosi dell'Islam per quanto riguarda le punizioni, l'opera di riforma, e quali siano le prove che generalmente richieste prima che la pena fisica abbia luogo.
Nell'Islam sunnita ci sono otto Madhhab, o scuole legali, di cui solo quattro sono attualmente esistenti: la hanafita, la malikita, la sciafeita e la hanbalita. La principale scuola sciita è chiamata giafarita, ma ci sono anche la zaydita e la ismailita. Più di recente, molti gruppi hanno rifiutato la tradizione a favore dell'ijtihād, o interpretazione individuale. Di queste scuole, secondo Michael Mumisa, dell'istituto Al Mahdi di Birmingham:
La scuola hanafita non considera adulterio i rapporti omosessuali, e lascia la pena a discrezione del giudice. Molti dei più giovani studenti di questa scuola hanno esplicitamente scartato la pena di morte; alcuni la ammettono per un secondo crimine.
L'Imām Shāfiʿī considera il sesso omosessuale analogo agli altri zināʾ (sesso prematrimoniale, fuori dal matrimonio). Così, se si scopre che una persona sposata ha avuto rapporti omosessuali viene punita come un adultero (lapidato a morte), e una persona non sposata viene punita come fornicatore (frustato).
La scuola malikita dice che se si scopre che qualcuno (sposato o non) ha avuto rapporti omosessuali dovrebbe essere punito con la pena riservata agli adulteri.
Nella scuola giafarita, l'Āyatollāh iracheno Sayyid al-Khoʿī dice che qualsiasi persona colpevole di aver commesso atti omosessuali deve essere punita come un adultero.
È importante notare che la pena di un adultero richiede che ci siano quattro testimoni perché possa essere eseguita. Analogamente tutte le scuole richiedono la testimonianza di quattro uomini per applicare la pena prevista per i rapporti omosessuali. Tuttavia se può essere presentata una prova oggettiva (come test del DNA, fotografie, ecc.), si può rendere effettiva la pena senza i quattro testimoni.
Secondo lo studioso dell'Islam moderno Yūsuf al-Qaradāwī: « I giuristi dell'Islam hanno avuto opinioni divergenti riguardo alla pena per questa pratica abominevole. Dovrebbe essere la stessa pena prevista per la zināʾ, o andrebbero uccisi sia il partecipante attivo che quello passivo? Anche se questa pena può sembrare crudele, gli è stato consigliato di mantenere la purezza della società islamica, e di mondarla dagli elementi pervertiti. »
L'Islam ammira molto l'atto sessuale, come sacro rapporto spirituale. Pertanto aggravare la pena e presentare i quattro testimoni, sarebbe un atto di oscenità, che è un'offesa per la moralità del resto della società.

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L'OMS definisce l'omosessualità una variante naturale del comportamento umano, ma non ha preso posizione rispetto alla possibile causa di tale variabilità. Definire chi sia la persona omosessuale non è cosa agevole. L'omofobia, del resto, contribuisce a generare talvolta e in alcune culture una situazione sociale pesante in cui le stesse persone omosessuali rifiutano per prime, almeno in pubblico, la definizione di "omosessuale". Oltre a ciò, il confine fra eterosessualità ed omosessualità non è affatto netto: vaste aree del comportamento umano sfuggono a una definizione netta, ad esempio nel caso delle persone bisessuali. Oltre che da parte di persone che provano attrazione sessuale e/o sentimentale sia per persone dell'altro che del proprio sesso (bisessualità in senso stretto), si possono verificare comportamenti omo o bisessuali in molti altri casi, tra i quali: a) comportamenti omosessuali indotti dall'assenza di altre possibilità di sfogo sessuale ("omosessualità situazionale"), per esempio quella che si verifica nelle comunità di persone di un solo sesso, come le carceri, le caserme. Essa è detta anche "omosessualità di compensazione" o, nei testi più antichi, "pseudo-omosessualità" (questa ultima definizione è ormai in disuso); b) comportamenti omosessuali infantili e adolescenziali (o "giochi sessuali" o "omosessualità adolescenziale" o "transitoria"); c) comportamenti omosessuali maggiormente diffusi nelle società in cui i rapporti sessuali con persone del sesso opposto sono strettamente riservati agli adulti, tramite matrimonio o ricorso alla prostituzione; d) comportamenti (anche) omosessuali da parte di persone affette da alcune patologie mentali, tali da rendere indifferenziato l'oggetto delle loro pulsioni erotiche; e) comportamenti omosessuali motivati da ragioni estranee alla tendenza sessuale personale, come per esempio nel caso della prostituzione maschile, nella quale il bisogno economico può indurre a rapporti sessuali con persone del proprio sesso anche persone che non sono omosessuali esse stesse.
Normalmente, quando si parla di "omosessuali", non si intendono le persone coinvolte nelle situazioni sopra elencate, bensì le persone che provano attrazione in modo preponderante o esclusivo per persone del loro sesso anche quando siano al di fuori da tali situazioni. Tali persone ricercano rapporti affettivi e sessuali con persone del loro sesso in base a una pulsione interna personale e non in base a una scelta indotta dall'ambiente o dalle circostanze.
L'American Psychological Association, l'American Psychiatric Association e la National Association of Social Workers asseriscono che "l'orientamento omosessuale" si riferisce ad un modello duraturo o ad una disposizione all'esperienza sessuale, affettiva o di romantica attrazione primariamente a uomini, donne o entrambi i sessi. Si riferisce anche al senso di personale e sociale identità di un individuo basato su tali attrazioni, ai comportamenti che le esprimono, e all'appartenenza ad una comunità di altri individui che le condividono. Benché il raggio d'azione dell'orientamento sessuale si dilunghi in un continuum da un'identità esclusivamente eterosessuale ad una esclusivamente omosessuale, viene solitamente interpretato nei termini di tre categorie: eterosessuale (avente attrazione sessuale e romantica primariamente o esclusivamente con membri dell'altro sesso): omosessuale (avente attrazione sessuale e romantica primariamente o esclusivamente con membri dello stesso sesso); bisessuale (avente un significante grado di attrazione sessuale e romantica nei confronti di entrambi uomini e donne). L'orientamento sessuale va distinto da altre componenti sessuali o della sessualità, inclusi il sesso biologico (le caratteristiche anatomiche, fisiologiche e genetiche associate con l'essere di genere maschile o femminile), l'identità di genere (il senso psicologico di appartenenza al genere maschile o femminile), e il ruolo sociale di genere (l'adesione alle norme culturali che definiscono i comportamenti mascolini o effeminati).
L'orientamento sessuale viene comunemente dibattuto come una caratteristica dell'individuo, così come per il sesso biologico, l'identità di genere o l'età.
Nella storia umana l'omosessualità ha dunque ricevuto valutazioni molto diverse, che vanno da una totale accettazione e integrazione fra i comportamenti socialmente accettati o addirittura alla loro esaltazione (nelle culture dalla Polinesia, Micronesia e Malasya), fino alla condanna a morte. La storia dell'omosessualità è quindi anche una storia degli atteggiamenti sociali possibili verso un comportamento percepito come "deviante", ed ha interesse anche da un punto di vista sociologico, antropologico, politico e in qualche misura filosofico. Per questo motivo esiste una branca della storiografia che si occupa espressamente di storia LGBT ("Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender").
L'atteggiamento sociale verso i comportamenti omosessuali ha conosciuto momenti di relativa tolleranza, durante i quali la società ammetteva un certo grado di discussione ed esibizione pubblica del tema, anche attraverso l'arte e le produzioni culturali (come è avvenuto per esempio nell'Atene classica, nella Toscana del Rinascimento, o a Berlino e a Parigi nell'anteguerra) alternandoli però a momenti di repressione durissima, come nell'Italia del Trecento, o nell'Europa della Riforma e Controriforma o ancora nel periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale, durante il quale persero la vita nelle persecuzioni antiomosessuali diverse decine di migliaia di persone.
Dalla seconda guerra mondiale in poi l'atteggiamento sociale nei confronti delle persone omosessuali è andato migliorando, anche a seguito delle battaglie condotte a questo scopo dal movimento di liberazione omosessualeLa maggior parte delle nazioni non impedisce il sesso consensuale tra persone al di sopra dell'età di consenso. Alcune giurisdizioni riconoscono anche gli stessi diritti, la protezione ed i privilegi per le strutture familiari di coppie dello stesso sesso, a volte anche il matrimonio. Alcune nazioni impediscono relazioni omosessuali, vietandole per legge. I trasgressori possono andare incontro alla pena di morte in alcune aree di fondamentalismo musulmano come l'Iran e alcune parti della Nigeria. Esistono, comunque, numerose differenze tra la politica ufficiale e la reale attuazione delle leggi.
Benché i rapporti sessuali tra omosessuali siano stati decriminalizzati in alcune parti del mondo occidentale, come in Polonia (1932), Danimarca (1933), Svezia (1944) e Regno Unito (1967), non fu prima della metà degli anni settanta del XX secolo che la comunità gay iniziò dapprima a richiedere limitati diritti civili in alcune nazioni sviluppate. Basti pensare che solo recentemente l'India l'abbia decriminalizzata (2 luglio 2009).
Una meta importante fu raggiunta nel 1973, quando l'American Psychiatric Association rimosse l'omosessualità dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, negando così la sua precedente definizione di omosessualità come disordine mentale. Nel 1977 il Québec divenne il primo Stato al mondo a proibire a livello giuridico la discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale. Durante gli anni ottanta e novanta del XX secolo, la maggior parte delle nazioni sviluppate approvò leggi decriminalizzanti il comportamento omosessuale e che proibivano la discriminazione contro persone lesbiche e gay nel lavoro, nei contratti d'affitto, in casa e nei servizi. D'altra parte, molte nazioni del Medio Oriente e africane, così come vari stati asiatici, caraibici e sudpacifici, ritengono l'omosessualità illegale. In sei nazioni il comportamento omosessuale è punibile con l'ergastolo; in altre dieci la pena può giungere alla morte.
Il termine omofobia indica la scarsa tolleranza e la repulsione nei confronti dell'omosessualità, delle persone omosessuali e delle azioni ad esse riconducibili. L'omofobia può arrivare alla violenza fisica e all'omicidio, motivati dalla pura e semplice omosessualità della vittima. In quanto atto discriminatorio, l'omofobia si configura come una forma di sessismo. Alcuni autori, ritenendo inappropriato il suffisso -fobia, utilizzano al posto di omofobia il termine "omonegatività".
In molte culture, le persone omosessuali sono frequentemente soggette al pregiudizio e alla discriminazione. Come i membri di altri gruppi minoritari che sono oggetto del pregiudizio, anch'essi sono soggetti a stereotipi, spesso aggravanti la marginalizzazione. Il pregiudizio, la discriminazione e gli stereotipi sono tutti esempi di omofobia e eterosessismo. L'eterosessismo può includere la presunzione per cui l'eterosessualità o l'attrazione per i membri del sesso opposto sia la giusta norma e quindi che gli eterosessuali siano superiori. L'omofobia, come già accennato, si manifesta in diverse forme e un gran numero di tipologie ne è stato formulato, tra le quali ricordiamo l'omofobia interiorizzata, l'omofobia sociale, l'omofobia emozionale, l'omofobia razionale ed altre.[69] Similmente esistono differenti forme di lesbofobia (specifica nei confronti dell'omosessualità femminile) e di bifobia (contro le persone bisessuali). Quando certi atteggiamenti si manifestano come crimini, questi vengono solitamente definiti crimini di odio.
Gli stereotipi che caratterizzano le persone LGBT sono tanto negativi, quanto solitamente poco concernenti il romanticismo dell'individuo omosessuale; sono caratterizzati dalla promiscuità e spesso dall'erronea associazione dell'omosessualità all'abuso su minori, concezione più volte duramente contraddetta dai ricercatori e studiosi. Inoltre, ricerche suggeriscono che le persone LGBT sviluppino relazioni romantiche anche più durature e stabili. Gli uomini gay vengono spesso associati a persone con tendenze pedofile e allo stesso modo a persone che più degli uomini eterosessuali commettono tali crimini, un punto di vista rigettato dalla gran parte dei gruppi psichiatrici e contraddetta dai ricercatori. La pretesa che esistano evidenze scientifiche in sostegno ad un'associazione tra l'essere gay e l'essere pedofilo sono basate sulla misura in termini di travisamento dell'attuale evidenza. Non a caso, le statistiche dimostrano che, relativamente alla densità di popolazione in base all'orientamento sessuale, l'abuso su minore viene effettuato maggiormente dalla popolazione eterosessuale, e che, sempre in rapporto alla densità di popolazione etero e omosessuale, semmai sono le vittime di tali abusi ad essere superiori nella popolazione omosessuale, anziché in quella eterosessuale.

lunedì 11 marzo 2013

JOSEPH RATZINGER, IL PAPA DISERTORE


PROLOGO
Il suo nome era Simone, ma Gesù gli diede l'appellativo di Pietro: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Giov. 1, 42). In aramaico, la parola che significa pietra è כיפא, translitterata nell'alfabeto latino con "Kefa", "Kepha", "Cephas". Ma l'episodio che, senza alcun dubbio, ha reso Simone celebre a tutti i posteri cristiani, è quello in cui Gesù ebbe a dirgli: “E anch'io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte del soggiorno dei morti non la potranno vincere. A te darò le chiavi del regno dei cieli..."(Mat., 16, 18-19).
Non mi soffermo sulla nota questione sorta in relazione all'appellativo attribuito da Gesù a Simone e che ha fatto dubitare a molti esegeti del N.T. la reale volontà del Cristo di affidare all'apostolo prediletto la costruzione e il governo della futura Chiesa cristiana. A "Simone" viene dato il nome di "πητρος" e la "pietra" di cui si parla nella seconda parte del versetto è in greco "πητρα". Ora, il nome proprio di un uomo dovrebbe essere maschile (-ος), mentre πητρα, la parola usata per "pietra", è femminile (-α). Quindi, il genere è diverso, ma si tratta di un puro requisito grammaticale della lingua greca, un artefatto dovuto alla traduzione dall'aramaico (la lingua probabilmente parlata da Gesù) al greco, e un tentativo di mantenere il gioco di parole. Nè rileva fare la distinzione (circoscritta al linguaggio poetico greco) tra "roccia" e "piccola pietra" o "sasso". Tra i classici, comprese alcune opere di Platone e Sofocle, ci sono molte ricorrenze di πητρος con il significato di "pietra". Inoltre, Gesù dice a Pietro: "A te darò le chiavi del regno dei cieli".  E, in modo particolare, per il popolo ebraico le chiavi erano un simbolo dell'autorità. In Apocalisse (1,18) Gesù dice di avere le chiavi della morte e dell'inferno, che significa che ha potere sulla morte e sull'inferno; anche in Isaia (22,21-22) compaiono le chiavi come simbolo. Il cardinale James Gibbons, nel suo libro "The Faith of Our Fathers" ("La fede dei nostri padri") indica che le chiavi sono un simbolo dell'autorità anche nella cultura odierna; usa l'esempio di qualcuno che dà le chiavi di casa propria ad un'altra persona, e così quest'ultima diventa la rappresentante del padrone di casa durante la sua assenza.
Dopo la Resurrezione e dopo che il discepolo ripara, con una professione di amore assoluto, al triplice rinnegamento di cui si era macchiato durante la Passione, Gesù conferisce a Pietro il primato promessogli : “Quando ebbero mangiato Gesù disse a Simon Pietro: Simone figlio di Giovanni, tu mi ami più di costoro? Gli rispose: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo. Gli disse: Pasci i miei agnelli. Gli disse di nuovo: Simone figlio di Giovanni, mi ami? Gli rispose: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo. Gli disse: Pasci le mie pecorelle. Gli disse per la terza volta: Simone figlio di Giovanni, mi ami? Pietro rimase addolorato che per la terza volta Gesù gli dicesse "Mi ami?", e gli disse: Signore, tu sai tutto: tu sai che ti amo. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle.” (Giov., 21, 15-17). Qui, Cristo dice a Pietro per tre volte: "pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle". Il retroterra biblico di queste frasi sta nelle numerose ricorrenze dell'Antico Testamento in cui Dio dice di essere pastore del suo gregge, cioè del popolo di Israele, Nel Nuovo Testamento è Gesù a dire di sé stesso: "Io sono il buon Pastore" (Giovanni, 10, 11-14); il gregge in questo caso rappresenta coloro che credono in Gesù.
I cattolici credono che a Pietro il Cristo abbia affidato la guida dell'intero gregge dei suoi seguaci, cioè della Chiesa. Cristo medesimo sarebbe dunque  il fondatore della comunità ecclesiale. Pertanto, la Chiesa, pur radicandosi nella storia, avrebbe anche origine e dimensione divine, che sono un elemento costitutivo essenziale del suo essere. Essa, dunque, come il suo fondatore, possiede una duplice natura, umana e divina nel contempo, ed è entro tale cornice che la sua istituzione ed il suo operare vanno colti, letti e interpretati; voler escludere uno dei due elementi che costituiscono la natura della Chiesa (lo storico e il divino) significa pregiudicarsi ogni possibilità di comprensione della sua realtà, che si radica :
- In Cristo, che con la sua parola ed opera, con la sua morte e risurrezione e con l'investitura dello Spirito, ne ha inserito il seme fecondo nella storia degli uomini. La Chiesa ha, pertanto, un fondamento sia cristologico che pneumatico.
- Negli Apostoli, che hanno accolto il seme divino e lo hanno fatto fecondare, rilanciandolo con la loro predicazione e la loro opera.
- Nelle prime comunità cristiane, che hanno lasciato in eredità alle generazioni future e all'intera umanità il dono della fede, ricevuto dall'annuncio apostolico.
- Nei romani pontefici, quali successori di Pietro e depositari del disegno divino di realizzare l'unità di fede e comunione di tutti i credenti; unità necessaria per il compimento della missione salvifica della Chiesa.

STORIA DELLA COSTITUZIONE DELL' UFFICIO DEL ROMANO PONTEFICE
Il Romano Pontefice è in terra il Successore di Pietro, cioè la più alta autorità religiosa riconosciuta dalla religione cattolica. Secondo il Diritto Canonico, è il Vescovo della chiesa di Roma, capo del Collegio dei vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale. Egli possiede anche i titoli di Sommo Pontefice della Chiesa cattolica e, per gli aspetti civili, di Sovrano dello Stato della Città del Vaticano. Inoltre, egli assume anche il nome di Papa. Quest'ultimo deriva dal greco πάππας (pàppas), espressione familiare per "padre", attestata a partire dal III secolo, contestualmente ad un analogo uso fatto per indicare il Vescovo di Alessandria, in Egitto.
L'ufficio del Papa prende il nome di Papato, mentre la sua giurisdizione ecclesiastica ha il nome di Santa Sede o Sede Apostolica: è infatti sede apostolica ed ente di diritto internazionale. La particolare preminenza del Papa sulla Chiesa deriva dal suo essere considerato successore dell'apostolo Pietro, al quale l'interpretazione cattolica dei Vangeli riconosce l'incarico, ricevuto direttamente da Cristo, di guida della Chiesa universale (cosiddetto "primato petrino").  Pietro, secondo la tradizione, avrebbe retto negli ultimi anni di vita la comunità cristiana di Roma, divenendone il primo vescovo e subendovi il martirio nell'anno 67.
Il primato papale è l'autorità apostolica del vescovo della diocesi di Roma su tutte le chiese particolari della Chiesa cattolica, sia di rito latino che di riti orientali. Ma la Chiesa ortodossa riconosce un primato di onore al Vescovo di Roma, ma non di giurisdizione e le chiese protestanti non riconoscono alcuna autorità superiore poiché la ritengono non conforme alle Sacre Scritture. Al giorno d'oggi molte chiese protestanti mantengono questa opinione, mentre altre non escludono una forma di ministero papale, in prospettiva ecumenica, sostanzialmente diversa dal primato papale attuale. La Chiesa anglicana ritiene che "Entro il suo più ampio ministero, il vescovo di Roma offre un ministero specifico riguardante il discernimento della verità, come un'espressione del primato universale." Tuttavia, questo servizio particolare è stato fonte di difficoltà e di fraintendimenti tra le chiese.
Un ulteriore importante attributo del Papa è quello della infallibilità del suo magistero. Il dogma dell'infallibilità papale, contenuto nella costituzione dogmatica della Chiesa "Pastor Aeternus", approvato dal Concilio Vaticano I (18 luglio 1870) nell'imminenza della fine del potere temporale, afferma che il magistero del papa deve essere considerato infallibile quando viene espresso ex cathedra, cioè solo quando il papa esercita il «suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani» e «[...] definisce una dottrina circa la fede e i costumi». Pertanto, quanto da lui stabilito «vincola tutta la Chiesa cattolica». Finora il dogma dell'infallibilità è stato utilizzato due volte: da Papa Pio IX per affermare l'Immacolata Concezione di Maria e da Papa Pio XII per affermare l'Assunzione della Vergine Maria.
L'autorità del Papa, come scrisse Giovanni Paolo I nell'Omelia del 23 settembre 1978, deriva dall'essere vescovo di Roma, cioè successore di Pietro in questa città. Ed infatti, in un primo momento, i papi ebbero solo il titolo di Vescovo di Roma. La più antica menzione del titolo di Papa si deve ad un'epigrafe trovata nelle catacombe di S. Callisto a Roma dove un certo diacono Severo scavò, in occasione della perdita di una figlia, un cubicolo doppio per sè e per la sua famiglia, dicendosi a ciò autorizzato dal "Papae sui Marcellini"(296-304).
Tutti gli antichi elenchi dei vescovi di Roma, che si sono conservati grazie a Ireneo di Lione, Giulio Africano, Ippolito di Roma, Eusebio di Cesarea ed al Catalogo Liberiano del 354, posizionano il nome di Lino immediatamente dopo quello di Pietro. Questi elenchi furono redatti a posteriori basandosi su una lista dei vescovi romani che esisteva al tempo del Vescovo Eleuterio (approssimativamente tra il 174 e il 189). Secondo Ireneo, Papa Lino è il Lino menzionato da Paolo di Tarso nella sua seconda lettera a Timoteo. Il brano di Ireneo ("Adversus haereses", III, III 3) recita: « Dopo che gli apostoli Pietro e Paolo fondarono ed organizzarono la Chiesa [a Roma], essi conferirono l'esercizio dell'ufficio episcopale a Lino. »
L'ufficio di Lino, secondo gli elenchi papali che ci sono pervenuti, durò circa dodici anni. Il Catalogo Liberiano afferma che durò, per l'esattezza, dodici anni, quattro mesi, e dodici giorni, ma le date fornite da questo catalogo, dal 56 al 67, non sono probabilmente corrette. Forse proprio tenendone conto gli scrittori del IV secolo sostenevano che Lino era stato a capo della comunità romana durante la vita dell'apostolo, ma si tratta di un'ipotesi senza alcun fondamento storico. In base ai calcoli di Ireneo sulla Chiesa romana nel II secolo, è fuori dubbio che Lino sia stato scelto come guida della comunità cristiana di Roma solo dopo la morte di Pietro. Per questa ragione il suo pontificato si fa iniziare nell'anno della morte degli apostoli Pietro e Paolo.
Ma, prescindendo dal caso della designazione diretta di Lino da parte di Pietro e Paolo, risulta storicamente accertato che nei primi anni del cristianesimo l'elezione del nuovo pontefice avveniva nell'assemblea dei cristiani di Roma, a volte su indicazione stessa del predecessore. Secondo una tradizione tramandata, Papa Fabiano nel 236 venne eletto poiché durante l'assemblea una colomba si sarebbe posata sul suo capo, fatto che venne interpretato come segno della volontà divina. In seguito al diffondersi della nuova religione dal 336, su decisione di Papa Marco, l'elezione fu riservata ai soli sacerdoti romani. Nel 1059 Papa Niccolò II decise di affidare l'elezione ai soli cardinali vescovi e, nel 1179, Papa Alessandro III stabilì che dovesse decidere l'intero collegio cardinalizio. Era comunque sempre possibile l'elezione anche di semplici maschi battezzati.
Durante i secoli spesso ci fu anche l'ingerenza di re e imperatori che imponevano alcuni candidati o imponevano il veto su altri. Ottone I nel 964 si fece attribuire da papa Leone VIII il diritto di approvare o meno la scelta del papa, che avrebbe dovuto poi giurare fedeltà all'imperatore. Ancora nel 1903, quando si trattò di eleggere il successore di Papa Leone XIII, l'Imperatore d'Austria pronunciò il suo veto contro il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Il collegio cardinalizio respinse il veto ma elesse comunque un diverso candidato, il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, che divenne Pio X. Il neo eletto, nel 1904, finalmente stabilì che i futuri elettori non avrebbero dovuto accettare mai più alcun "veto".
Nel 1198 i cardinali si riunirono per la prima volta in volontaria clausura, ma la decisione dell'isolamento della riunione cardinalizia fu stabilita solo nel 1274 dal Concilio di Lione II, con la Costituzione apostolica Ubi Periculum, per impedire i ritardi, i tentativi di influenza esterna e le corruzioni che in diversi casi si erano verificati. Riassumendo:
1. Nei secoli III e IV il papa veniva eletto dal un collegio di sette diaconi; poi su designazione del clero e del popolo romano, con ratifica dei vescovi suburbicari della provincia.
2. Giustiniano (527-565) sottomise l'elezione del papa all'approvazione imperiale (Vigilio 540 e Pelagio 543) fino al 731 (Gregorio III).
3. Fino alle soglie dell' XII secolo il Papa viene eletto dal clero e dal popolo romano sotto il controllo del potere civile o della pressione di fazioni politiche.
4. Nicola II nel 1059 con la bolla In Nomine Domini riservò l'elezione ai soli cardinali vescovi.
5. Nel 1179 Alessandro III estese l'elezione a tutti i cardinali. Secondo il Canone Licet de evitanda discordia del concilio Lateranense III, l'eletto doveva raccogliere i 2/3 dei voti.
6. Il Conclave ( cum clave, "chiuso con la chiave") venne di fatto istituito da papa Gregorio X che - memore di quanto accaduto a Viterbo durante la sua elezione - promulgò la Costituzione apostolica Ubi Periculum nel corso del Concilio di Lione II (1274). In sintesi, con essa  si stabiliva che i cardinali elettori, ciascuno con un solo accompagnatore, dieci giorni dopo la morte del Papa, si riunissero in una grande sala del palazzo ove risiedeva il papa defunto e fossero lì segregati; qualora dopo tre giorni non fosse avvenuta l'elezione, ai cardinali sarebbe stato ridotto il vitto ad una sola portata per pasto; dopo altri cinque giorni il vitto sarebbe stato ulteriormente ridotto a pane, vino ed acqua; inoltre, durante tutto il periodo della Sede vacante le rendite ecclesiastiche dei porporati erano trasferite nelle mani del Camerlengo, che le avrebbe poi messe a disposizione del nuovo Papa.
7. La Ubi Periculum venne sospesa da papa Adriano V nel 1276 su richiesta di alcuni cardinali e quindi addirittura revocata da papa Giovanni XXI nel settembre dello stesso anno, con la costituzione Licet felicis recordationis, salvo ad essere ripristinata quasi completamente da papa Celestino V con la bolla Quia in futurum, del 28 settembre 1294 e successivamente inserita integralmente da papa Bonifacio VIII nel Codice di Diritto Canonico nel 1298.
8. Gregorio XV (1621-1623) diede due rinnovate Costituzioni per l'elezione pontificia, in balia dei tre grandi stati cattolici di allora, Aeterni Patris e Decet Romanorum Pontificem, che ribadivano la clausura e la maggioranza dei due terzi ed introducevano la segretezza del voto.
9. Le potenze cattoliche continuarono a intromettersi con il diritto di veto, che venne abolito da papa Pio X con la Costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904.
10. Le modifiche più consistenti nella normativa per il conclave sono state effettuate da Paolo VI (Ingravescentem aetatem, 1970; Romano Pontifici eligendo, 1975), che ha escluso dal conclave i cardinali ultraottantenni e che ha fissato in 120 il numero dei componenti del collegio elettorale.
11. Giovanni Paolo II con la Universi dominici gregis del 1996, pur confermando le modalità essenziali in vigore, ha stabilito un nuovo luogo per i cardinali in clausura nella Domus Sanctae Marthae, sempre in Vaticano; ha, inoltre, eliminato le possibilità dell'elezione per acclamazione e per compromesso (ormai comunque in disuso da alcuni secoli) ed ha recuperato, infine, il ruolo dei cardinali che hanno già compiuto ottant'anni: la loro funzione, però, è semplicemente spirituale. Partecipano, infatti, solo alle fasi preliminari dell'elezione e guidano le preghiere della Chiesa Universale.
12. Da ultimo, Benedetto XVI con il motu proprio De Aliquibus Mutationibus dell'11 giugno 2007 (pubblicato il 26) ha stabilito che la maggioranza dei voti per l'elezione del Papa deve essere pari ai 2/3 dei votanti per tutti gli scrutini e che a partire dal 34º scrutinio (o 35° se si era votato anche il giorno di apertura del Conclave) si procederà al ballottaggio, ma sempre con maggioranza di almeno i 2/3 dei votanti, tra i due cardinali più votati all'ultimo scrutinio; questi però perdono entrambi il diritto di voto. Si è così corretta una norma sancita da Papa Giovanni Paolo II - ma già dichiarata possibile in passato da papa Paolo VI - che prevedeva una riduzione del quorum alla maggioranza assoluta a partire dal 34º o 35º scrutinio, qualora ci fosse stato su tale modo di procedere il consenso dei Cardinali elettori. Inoltre, dopo aver presentato le  dimissioni dal soglio petrino, per "assicurare il migliore svolgimento di quanto attiene, pur con diverso rilievo, all'elezione del Romano Pontefice, e in particolare una più certa interpretazione ed attuazione di akcune disposizioni", il 22 febbraio 2013 ha stabilito, sempre  nella forma del motu proprio (“De nonnullis mutationibus in normis ad electionem Romani Pontifici attinentibus") alcune modifiche alle precedenti normative, quali : 1) la facoltà del Collegio dei cardinali, se consta della presenza di tutti i cardinali elettori, di anticipare l'inizio del Conclave, derogando alla regola che a partire dal giorno della "sede vacante" si attendano per quindici giorni interi gli assenti prima di iniziare il conclave; 2) la precisazione delle norme intese a garantire la segretezza del Conclave ( “si dovrà provvedere, anche con l’aiuto di prelati chierici di camera, che i cardinali elettori non siano avvicinati da nessuno durante il percorso dalla Domus Sanctae Marthae al Palazzo Apostolico Vaticano"; "Tutte le persone che per qualsivoglia motivo e in qualsiasi tempo venissero a conoscenza da chiunque di quanto direttamente o indirettamente concerne gli atti propri dell’elezione e, in modo particolare, di quanto attiene agli scrutini avvenuti nell’elezione stessa, sono obbligate a stretto segreto con qualunque persona estranea al Collegio dei cardinali elettori: per tale scopo, prima dell’inizio delle operazioni dell’elezione, dovranno prestare giuramento” secondo precise modalità, nella consapevolezza che un’infrazione comporterà “la pena della scomunica ‘latae sententiae’ riservata alla Sede Apostolica”); 3) l'abolizione dei modi di elezione detti “per acclamationem seu inspirationem” e “per compromissum”: la forma di elezione del Romano Pontefice sarà d’ora in poi unicamente “per scrutinium"; 4) il requisito di almeno i 2/3 dei suffragi, computati sulla base degli elettori presenti e votanti, per la validità dell'elezione, nonchè l'introduzione del ballottagio tra i due più votati nelle votazioni oltre il 33° o il 34°scrutinio.

COME  SI  PERDE  IL TRONO  DI  PIETRO
Dunque, sul trono di Pietro si sale per elezione dei cardinali riuniti in Conclave. La morte del Pontefice eletto o la sua rinuncia o, meglio, la sua abdicazione al trono sono oggi le sole cause che, a mente del Codice di Diritto Canonico,  rendono vacante la Sede Apostolica.
Quella che si è aperta il 28 febbraio 2013, alle 20, è la decima sede apostolica vacante iniziata per cause diverse dalla morte di un Pontefice. Nelle nove occasioni precedenti si tratta di papati le cui vicende, in vari casi, si perdono nella notte dei tempi e risalgono addirittura a prima dell'anno mille.
Queste le 10 eccezioni rispetto alla morte del Papa. Nel 235 Ponziano lascia per rinuncia, nel 537 è la volta di Silverio in cui le cause si sommano: fu deposto e rinunciò insieme; nel 654 tocca a Martino, di nuovo una rinuncia; Giovanni XII nel 963 viene invece deposto; Benedetto V nel 964 è anch'esso deposto; Giovanni XVIII nel 1009 rinuncia al pontificato; Benedetto IX nel 1045 rinuncia; Celestino V nel 1294 rinuncia anche lui, si tratta del Papa del 'gran rifiuto' per antonomasia; anche nel caso di Gregorio XII nel 1415 siamo di fronte a una rinuncia. Dopo oltre settecento anni, Benedetto XVI, nel Concistoro ordinario dell'11 febbraio 2013, annuncia la sua rinincia al Papato. Curiosamente su 10 sedi vacanti 'anomale', in tre casi il Papa si chiama Benedetto.
Per chi si occupa di diritto canonico l’abdicazione del Papa rientra nella categoria della rinuncia all’ufficio ecclesiastico. Quest’ultimo è un incarico, nell’accezione più vasta possibile, costituito stabilmente e per disposizione divina, cioè direttamente collegata a Gesù Cristo come, ad esempio, l’ufficio primaziale del Romano Pontefice e l’ufficio episcopale; o ecclesiastica, collegata invece a coloro che Egli ha posto a capo della Chiesa, come ad esempio, l’ufficio parrocchiale; escludendo con ciò stesso la possibilità di costituzione da parte dell’autorità civile. La rinuncia può essere definita l’atto con cui il titolare dà le dimissioni dall’ufficio che ancora detiene. Due sono le condizioni per rinunciare: l’uso di ragione, per cui chi rinuncia deve essere responsabile dei propri atti e compiere così un vero atto umano e la giusta causa, commisurata in genere secondo il fine spirituale proprio di ogni ufficio ecclesiastico.
Anticamente le cause per la rinuncia all’ufficio venivano compendiate nel sommario contenuto in una lettera decretale di Papa Innocenzo III inviata, nel 1206, al vescovo di Cagliari, che così diceva: «Debilis, ignarus, male conscius, irregularis, quem mala plebs odit, dans scandala cedere potest», quindi l’infermità di mente o di corpo, la mancanza della scienza debita, la coscienza cattiva del crimine commesso, l’irregolarità, l’odio che proviene dai maligni. La rinuncia, di solito, per la sua validità richiede l’accettazione da parte dell’autorità ecclesiastica competente, questo, tuttavia, non si applica per il Pontefice la cui rinuncia non dev’essere accettata da nessuno, basta, per essere valida, che sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, com’è accaduto con Benedetto XVI.
Le regole canoniche sull’abdicazione papale furono emanate da Bonifacio VIII che le inserì, sotto il nome di "Liber extra", nella collezione delle sue Decretali denominata «Liber Sextus», promulgata nel 1298: questa collezione, insieme ad altre, venne poi a formare il «Corpus iuris canonici». Bonifacio VIII aveva stabilito che quando il Romano Pontefice si rende conto di essere insufficiente a reggere la Chiesa universale («se insufficientem agnoscit ad regendam universalem ecclesiam») e a sopportare il peso del sommo pontificato («summi pontificatus onera supportanda») poteva rinunciare al papato e ai suoi oneri e onori («renunciare valeat papatui eiusque oneri et honori»). In effetti, Bonifacio VIII dopo la vicenda dell’abdicazione di Celestino V, che era avvenuta davanti al Collegio dei Cardinali, volle che l’istituto della rinuncia all’ufficio papale entrasse, a pieno titolo, nell’ordinamento giuridico della Chiesa. E così è rimasto. Infatti nel primo Codice di Diritto Canonico, elaborato sotto Papa Pio X e promulgato nel 1917 da Papa Benedetto XV, al canone 221 veniva ribadita la disposizione di Bonifacio VIII precisando che, per la valida rinuncia del Romano Pontefice, non era necessaria l’accettazione né dei Cardinali né di altri. Anche il vigente Codice di Diritto Canonico, promulgato da Papa Giovanni Paolo II nel 1983, che ha sostituito quello del 1917, al canone 332 § 2 riporta la norma sulla rinuncia all’ufficio del Romano Pontefice. Pure il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche, pubblicato nel 1990, al canone 44 § 2 contiene la medesima disposizione.
Più in particolare, il Codice di diritto canonico (o Codex Iuris Canonici) del 1983, al Libro II "Il popolo di Dio", Parte seconda "La suprema autorità della Chiesa", capitolo I "Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi", al canone 332 - §2 recita: "Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti" Si ritiene che alla rinuncia pontificale sia applicabile anche il canone 187 del Libro I "Norme generali", Parte IX "Gli uffici ecclesiastici", capitolo IX "La rinuncia", che disciplina in generale la rinuncia agli uffici ecclesiastici :   "Chiunque è responsabile dei suoi atti può per giusta causa rinunciare all'ufficio ecclesiastico».

IL  CASO  DI  BENEDETTO XVI
Benedetto XVI, nato Joseph Aloysius Ratzinger a Marktl, in Baviera, il 16 aprile 1927, è stato vescovo di Roma e 267º papa della Chiesa cattolica nonché sommo pontefice della Chiesa universale, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, primate d'Italia, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013. È stato il settimo pontefice tedesco nella storia della Chiesa cattolica, il sesto fu papa Stefano IX.
La rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino ha suscitato, com’era prevedibile, sorpresa e stupore. Si tratta, in effetti, di un atto rivoluzionario, non nuovo, ma sempre sconvolgente.
Si noti come il CIC ("Codex iuris canonici") eviti di parlare di abdicazione o di dimissioni del Pontefice e utilizzi soltanto l'espressione "rinuncia". In conformità si è comportato Benedetto XVI :
"Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell'animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l'elezione del nuovo Sommo Pontefice".
Pertanto sotto il profilo strettamente giuridico la sua volontaria e libera discesa dal Soglio pontificio è assolutamente legittima. Ma che dire dal punto di vista del "Diritto divino"?
Si parla di "diritto divino" quando ciò che è istituito nella Chiesa è espressione diretta della stessa volontà di Cristo, rilevabile dalla sua parola o dalla sua opera. Si tratta di un complesso di norme che non sono state poste dal legislatore ecclesiastico, cioè da un’autorità umana, ma da questa sono fatte valere.
Si parla, invece, di "Diritto ecclesiale", cioè di ordinamento giuridico della Chiesa, quando le istituzioni vengono fatte risalire agli Apostoli o alle comunità cristiane. Va detto subito che il "diritto ecclesiale" discende da quello divino e, per certi aspetti, lo incarna e lo attua nella storia. Si sostiene che la distinzione nasce dal fatto che la Chiesa si definisce un’unica realtà composta da un elemento divino e da un elemento umano, regolata correlativamente sia dal diritto divino sia dal diritto (meramente) ecclesiastico, ovvero dalle norme stabilite esclusivamente dalla competente autorità ecclesiastica. Si osservi che in questo caso con "diritto ecclesiale" la Chiesa intende qualcosa di totalmente diverso da quanto indicato con il nome di "Diritto ecclestiastico" dagli stati laici e che attiene alle norme che disciplinano i rapporti interni tra i singoli stati e le istuzioni religiose in essi costituite.
Il "diritto divino" si divide in naturale e positivo: del primo fanno parte tutti i diritti umani intrinseci alla natura umana stessa; del secondo tutte le regole manifestate nella Rivelazione divina, ricavabili dai testi sacri e dalla Tradizione apostolica.
Il diritto divino naturale è dato dall’insieme di principi non scritti che sono stati impressi da Dio nella coscienza dell’uomo e che hanno valore universale.
Il diritto divino positivo è costituito dalle norme che sono state manifestate dalla Rivelazione divina e sono quindi ricavabili dall’Antico e dal Nuovo Testamento, nonché dalla Tradizione Apostolica. Dunque è dato dall’insieme di principi che sono intimamente e strutturalmente connessi con la Chiesa in quanto entità fondata da Cristo, il quale ha dato precise finalità da perseguire nel tempo, i mezzi da utilizzare, le regole fondamentali di governo ed i criteri di appartenenza. Questi principi sono essenziali perché determinano la struttura e il funzionamento della costituzione della Chiesa, irriformabili perché posti dal legislatore divino, quale. ad esempio, il carattere gerarchico che vede due soggetti di suprema autorità comgiunti in un'unità organica : il Romano Pontefice ed il Collegio episcopale, il cui capo è il Pontefice (cann. 330, 331, 336 del Codex iuris canonici).
Il diritto divino e il diritto umano ecclesiale non devono essere inquadrati come due ordini giuridici distinti ma in termini di esplicitazione sul piano del diritto umano dei principi di diritto divino, cioè il diritto umano è una sorta di trasposizione dei principi del diritto divino, il quale è vigente, sovraordinato al diritto umano e dotato di una superiore obbligatorietà. Il Concilio Vaticano II esprime un ripensamento delle tradizionali teoriche dottrinali dando vita a due fondamentali orientamenti: la scuola canonistica di ispirazione teologica e la scuola spagnola di Navarra. La prima pone una netta separazione tra diritto divino e diritto umano ecclesiastico ma in direzione opposta rispetto alla tesi della canonizzazione, assorbendo interamente il diritto divino nella teologia. La seconda pone una teoria che prospetta il rapporto tra diritto divino e diritto umano come un processo di progressivo approfondimento e recezione dei contenuti del primo nelle norme positive attraverso il passaggio da una prima fase (positivazione) caratterizzata dalla presa di coscienza ecclesiale dei contenuti del diritto divino, ad una successiva in cui tali contenuti vengono formalmente inseriti nell’ordinamento giuridico (formalizzazione).
Alla stregua delle suddette considerazioni, mi sembra che la decisione di Benedetto XVI di avvalersi della norma che consente al Pontefice di rinunciare al ruolo di Vicario di Cristo, siccome detentore delle chiavi del Regno dei Cieli  e Pastore del gregge delle pecorelle che Gesù gli ha affidato, sia cosa legittima ma non "cosa buona e giusta". Nessuno lo ha obbligato ad accettare il Pontificato e nessuno e niente gli hanno imposto di assumere il peso del governo di una Chiesa in grave crisi temporale e spirituale. Gesù abbracciò la Croce che il Padre gli aveva destinato e da quella non discese fino alla morte. Quando si accetta di diventare Papa si dovrebbe essere Papa per sempre, fino all'ultimo respiro. Come del resto ha fatto il suo predecessore Papa Giovanni Paolo II. Ma andiamo per gradi.

CELESTINO V  E  BENEDETTO XVI  IN  PARALLELO
Come si è detto, a seguito della rinuncia di Papa Celestino V, nato Pietro Angelerio o Angeleri, monaco eremita detto Pietro da Morrone dal nome del monte Morrone, sopra Sulmona, dove era situato il monastero in cui aveva vissuto nella solitudine della vita ascetica prima dell'elezione al pontificato, Bonifacio VIII con la costituzione "Quoniam alicui" eliminò ogni condizione ostativa all'assoluta libertà del Pontefice in carica a rinunciare al papato.
Ma già nel XII secolo i giuristi avevano cominciato a porsi il problema dell'ammissibilità della rinuncia al papato, cercando di distinguere le eventuali cause legittime da quelle inammissibili e ponendo altresì il problema dell'inesistenza di un superiore gerarchico nelle cui mani il papa in carica potesse rassegnare le dimissioni. Il giurista Baziano sostenne che la rinuncia era ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia. Il canonista Uguccione da Pisa confermò le osservazioni di Baziano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi. Le decretali di Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, precisarono altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l'inadeguatezza del papa per defectus scientiae, nell'aver commesso delitti, nell'aver dato scandalo - quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit - e nell'irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinuncia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, già ritenuto ammissibile dai canonisti. Esse precisarono altresì che non era necessario che la rinuncia fosse confermata dal collegio cardinalizio.
L'atto originale di rinuncia di Celestino V è andato perduto. Lo Stefaneschi scrive nel suo "Opus metricum" che Celestino, nel concistoro dell'8 dicembre del 1294, dichiarò di rinunciare al papato per la sua insufficienza sia fisica che dottrinale; respinta la "dannosa novità" dal collegio, Celestino si consultò con il Caetani e il 13 dicembre espose ancora i motivi della rinuncia: «Defectus, senium, mores, inculta loquela, non prudens animus, non mens experta, nec altum ingenium». Alla fine, circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, nonostante i numerosi tentativi per dissuaderlo avanzati da Carlo d'Angiò, il 13 dicembre 1294 il Pontefice, nel corso di un concistoro, diede lettura del documento di rinuncia all'ufficio di romano pontefice, il cui testo ci è giunto soltanto attraverso l'analoga bolla di Bonifacio VIII:  « Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe [di questa plebe], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale » (Celestino V - Bolla pontificia, Napoli, 13 dicembre 1294).
Nell'immediatezza della rinuncia di Celestino, il francescano Pietro di Giovanni Olivi ed  i teologi della Sorbona Godefroid de Fontaines e Pierre d'Auvergne avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l'illegittimità della rinuncia di Celestino. Contro la rinuncia di si espressero anche Iacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una «horrenda novitas», avendo favorito le successioni degli «Anticristo» Bonifacio e Benedetto XI.
Tuttavia, la rampogna più severa rivolta all'atto di rinuncia di Celestino V fu quella dell'Alighieri che nel III canto dell'Inferno, avendo appena raggiunto con Virgilio l'Antiferno, cioè il luogo dove sono le anime degli ignavi, ossia di coloro "che visser senza infamia e sanza lode", scrisse di lui : "Vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto".
Ritenuta la sostanziale equivalenza fra il "rifiuto" di cui parla Dante e la "rinuncia" pronunciata da Celestino V, resta da capire l'esatto significato che la parola «viltà» ha nel verso di Dante, essendo quella la causa attribuita dal poeta all'atto del Pontefice. Lo storico Paolo Golinelli ha dimostrato come viltà è il contrario di nobiltà - nobilitas, non vilitas - e pertanto può assumere, se riferito all'uomo, un significato tanto morale quanto di condizione sociale. In Dante e in generale nella lingua del Trecento, il vile può essere sinonimo di pusillanime, opposto a magnanimo: «Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempremagnanimo si tiene meno che non è [...] lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare e l'altrui pregiano». Natalino Sapegno conferma : «Viltà è quella rilassatezza che deriva da troppa scarsa coscienza di sé e delle proprie forze». Ed è utile riportare la definizione di "pusillanime" data da uno scrittore stimato e ben conosciuto da Dante come Tommaso d'Aquino: «E' chiamato pusillanime soprattutto colui che, degno di grandi cose, si rifiuta di occuparsene e attende ad altre meno importanti; infatti, si abbasserebbe a cose molto minori se non fosse degno delle grandi». La definizione dell'Aquinate, ripresa da Dante anche nel "Convivio", comporta  un giudizio negativo sotto l'aspetto sia morale che politico:  Celestino sarebbe stato un inetto e un incapace, cioè, in tal senso, un vile, ovvero un uomo indegno del papato e dei compiti che lo attendevano. La causa della sua rinuncia - espressa nei termini della dottrina canonica - va allora individuata nella sua ammissione di insufficienza, provocata dalla sensazione di non possedere adeguata scientia a una carica che l'eremita doveva sentire di troppo elevato impegno per l'umiltà del proprio spirito. Perciò, Dante, lo condannò per mancanza di «magnanimità».
Fra Celestino V e Benedetto XVI corrono più di sette secoli. Ma non è arbitrario constatare l'esistenza di alcune importanti analogie tra questi due Pontefici. Entrambi uomini di grande fede, hanno scelto spontaneamente di dimettersi e per entrambi la motivazione principale appare simile: l'umile e drammaticamente umano riconoscimento di non avere le forze per continuare a guidare la Chiesa e rinnovarla. E forse non è un caso se dopo il terremoto dell'Aquila, nell'aprile del 2009, Benedetto XVI, visitando la basilica di Collemaggio, abbia deciso di porre il suo pallio (il paramento che gli era stato imposto nel primo giorno del pontificato) proprio sull'urna di Celestino V.
Ma, allora, la condanna dantesca di "viltade" rivolta al Papa del "gran rifiuto" è estensibile pari pari a Benedetto XVI?
Penso proprio di sì. Ed infatti, indipendentemente dalla cause vere, prossime o remote, che lo hanno indotto ad abdicare (c'è chi ha ricordato gli scandali che hanno afflitto gli otto anni del suo pontificato, quali il caso della diffusa pedofilia emersa tra le fila dei ministri della fede, quello dello Ior (la Banca del Vaticano), quello delle cosiddette "Vatileaks", cioè della fuga di notizie e documenti dalle stanze del Papa; c'è chi ha alluso alla  fiera opposizione mossa dalle lobby curiali, veri centri di potere, al suo tenace tradizionalismo conservatore; c'è chi ha parlato di un suo cedimento davanti all'incalzare della secolarizzazione del mondo e dell'ateismo montante; e c'è chi, addirittura, è risalito alle torbide dicerie che sono circolate sulla sua giovinezza tedesca), penso che, con una mente lucida ed acuta come la sua e con  un fisico ancora  apparentemente sano come il suo, mai avrebbe dovuto sottrarsi alla lotta volta a difendere ed a rigenerare la Istituzione cattolica, consegnando il pesante fardello al futuro Papa. Evidentemente, non ha ascoltato le parole sapienzali del Siracide (4, 28): "Lotta sino alla morte per la verità ed il Signore combatterà per te"
Benedetto XVI, quando nel coro della Cappella Sistina si riunì il Conclave per eleggere il successore di Giovanni Paolo II,  promise, si obbligò e giurò, prima per bocca del Cardinale Decano e poi personalmente, che qualora fosse stato eletto Romano Pontefice, avrebbe svolto fedelmente il munus Petrinum di Pastore della Chiesa universale e che non avrebbe mancato di affermare e difendere strenuamente i diritti spirituali e temporali, nonché la libertà della Santa Sede. Si può dire che il Papa che si ritira per stanchezza fisica o fragilità psicologica dal suo Sommo Ufficio si comporta "strenuamente" rispetto agli altissimi compiti che si era impegnato a svolgere? O, piuttosto, bisogna riconoscere che in questo ritiro si è manifestata quella carenza di magnanimità che Dante ha rimproverato a Celestino V?
La risposta ce l'ha data implicitamente Giacomo Galeazzi, un valente giornalista de "La Stampa", quando ha scritto: "Ratzinger finalmente sta conducendo a Castelgandolfo la vita che ha sempre desiderato : musica, libri, e preghiere". Anche Hans Kung, intervistato da "Radio 24", ha osservato: "...il Papa ha confermato tutto ciò che molti. anche in Curia, hanno detto: questo papa non governa, non governa . Il Papa ha scritto tre libri su Cristo e ha usato tutto il suo tempo libero non per governare ma per studiare e scrivere libri".  Più esplicitamente, Michela Murgia, su "Micromega Online" del 13 febbraio 2013, si è soffermata sulla guida inadeguata del gregge cattolico da parte di un Papa desideroso di una vita tranquilla, fatta di meditazione e preghiera, sgravata dalle responsabilità che incombono sul Pastore: "Da quando è diventato papa J. Ratzinger di passi falsi ne ha fatto una miridiade. Il ripristino della liturgia latina ... la revoca della scomunica meritatissima dei lefevriani ... la mala gestione dello scandalo della pedofilia ... Più che la pressione del papato, forse è la consapevolezza della propria inadeguatezza a essersi fatta finalmente chiara".
Gli è che a differenza di Abramo, Benedetto XVI crede che per Dio sia impossibile guidare la Chiesa attraverso un pontefice debole: non lo sfiora l’idea che proprio la debolezza del governo centrale e l’abbandono delle pratiche di potere potrebbero essere il disegno di Dio sulla Chiesa. No: egli pensa che la Chiesa va salvata dalla sua debolezza, che ci vuole un papa forte. Perché – questo l’inevitabile sottotesto – il cielo è vuoto, e la Chiesa deve cavarsela da sola. Osserva lo storico Tomaso Montanari sul blog "Il fatto quotidiano" che se da almeno mille e settecento anni l’esercizio del potere da parte della Curia romana tradisce un ateismo pratico, il discorso con il quale, l’11 febbraio scorso, Benedetto XVI ha annunciato l’inaudita decisione di lasciare il pontificato sembra presupporre un ateismo anche teorico. Egli ha voluto dire: mi dimetto perché non sono forte, non sono adatto (in latino, ha scelto la parola «aptus»: capace). E per vincere, nel mondo d’oggi («in mundo nostri temporis»), ci vuole la forza, il «vigor». Per un cristiano queste sono affermazioni sconvolgenti perché negano radicalmente l’idea di Dio che la Chiesa stessa ha insegnato, seguendo la Scrittura e la Tradizione. Il Dio della Bibbia è il Dio che ribalta sistematicamente la logica umana della forza: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Luca, 9, 24). «Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio della mia infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (S. Paolo, Corinzi 2, 12, 9-10).
Come è universalmente noto, da secoli e secoli la maggioranza della Chiesa gerarchica e quasi tutti i papi hanno, nei fatti, negato questa prospettiva. La loro potenza si è manifestata pienamente nella forza, nel potere temporale, nel denaro. Ratzinger si è adeguato fino in fondo. Lo dice esplicitamente, anzi, arriva a teorizzarlo: la debolezza, inaccettabile per il papato, ora diventa inaccettabile anche per la persona del Papa. Paradossalmente, egli sembra aver completamente introiettato la visione ‘relativistica’ che tanto vorrebbe condannare: il suo sistema di valori è quello relativo al nostro tempo storico in Occidente, un «mondo di oggi» ipercompetitivo, basato sulla forza e sulla qualità della prestazione. Però egli è debole, non ce la fa, e abbandona.

I  SANTI  OZI  DI  JOSEPH  RATZINGER
Dunque, Ratzinger immeritevole come Pietro da Morrone? Sì, ma con quali diversi destini finali!
Al vecchio Celestino V toccò infatti una sorte spiacevole: undici giorni dopo le sue dimissioni,  il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, laziale di Anagni. (aveva 64 anni circa ed assunse il nome di Bonifacio VIII). Ebbene il Caetani, che aveva aiutato Celestino V nel suo intento di dimettersi, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi a lui contrari mediante la rimessa in trono di Celestino, diede disposizioni affinché l'anziano monaco fosse messo sotto controllo, per evitare un rapimento da parte dei suoi nemici. Celestino, venuto a conoscenza della decisione del nuovo papa grazie ad alcuni tra i suoi fedeli cardinali da lui precedentemente nominati, tentò la fuga per raggiungere il Morrone e poi Vieste sul Gargano, per tentare l'imbarco per la Grecia, ma il 16 maggio 1295 fu catturato presso Santa Maria di Merino da Guglielmo Stendardo II, connestabile del regno di Napoli, figlio del celebre Guglielmo Stendardo, detto "uomo di Sangue". Celestino tentò invano ancora una volta di farsi ascoltare dal Caetani chiedendo di lasciarlo partire, ma il Caetani restò fermo sulle sue decisioni al riguardo. Gli storici narrano che Celestino si rese conto dell'inutilità delle sue richieste e mentre veniva portato via sussurrò una frase rivolta al Caetani che sembrò essere un presagio: « Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis » (« Hai ottenuto il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane »). Fu rinchiuso nella rocca di Fumone, in Ciociaria, castello di proprietà di Bonifacio VIII, dove, secondo fonti attendibili, morì di stenti. Ma dopo la sua morte, si erano sparse voci secondo le quali Bonifacio ne avrebbe ordinato l'assassinio. Il 5 maggio 1313, fu canonizzato da papa Clemente V, a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo il Bello e da forte acclamazione di popolo, accelerando moltissimo l'iter avviato da Bonifacio. Tuttavia, anche la sua canonizzazione non fu esaltante:  Clemente V non lo canonizzò quale martire, come avrebbe voluto Filippo il Bello, ma come confessore.
Fatte, naturalmente, le debite proporzioni ed i necessari distinguo storici, a Benedetto XVI tutto è andato molto meglio. Il "semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore", come ebbe a definirsi nel suo primo discorso da Papa, il 16 aprile 2005, stanco delle ambasce che gli procurava la gestione temporale e spirituale della Chiesa, ha optato per la vita contemplativa: "Vado a pregare, non vi lascio" ha detto  salutando i suoi fedeli. Un eufemismo, che nasconde la resa. Il conductator resta alla testa delle sue truppe quando la battaglia infuria, non si ritira ad implorare l'intervento di Dio per ottenere la vittoria. Per diventare santi, oltre alle preghiere, ci vogliono le opere buone (S. Paolo, Efesini, 2, 10). Ha pure detto: "Non scendo dalla croce, resto con il Signore". Certo, però con il Signore in Paradiso, perchè il Signore, dopo aver compiuto la sua missione ed aver patito il Calvario per portarla a termine, non è più sulla croce.
Oggi Ratzinger è un pensionato di lusso, ospite non pagante al "Grand Hotel" del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, dove, abito bianco e coppolina bianca in testa, lo abbiamo visto serenamente a passeggio nei giardini, accompagnato dal fido segretario Georg e da qualche monaca ; poi, fra due o tre mesi, si ritirerà in un ex convento di clausura dentro le mura del Vaticano, oggi in corso di ristrutturazione ed ammodernamento perchè divenga degno di cotanta personalità.
Celestino V, dopo le dimissioni, tornò ad essere il povero monaco Pietro da Morrone, per giunta perseguitato ed imprigionato. Joseph Ratzinger, andato a riposo per sua volontà, si è invece assegnato una residenza confortevole nelle cinta del Vaticano, in cui, conservando il nome scelto da Papa e rivestendo la qualifica di "Papa Emerito", potrà tornare alla sua vita di intellettuale e dedicarsi a tempo pieno - assistito dalle quattro affezionate "memores Domini", dal suo segretario particolare Georg Ganswein, da servitù varia e specializzata, da professoroni della medicina - alla sue attività preferite : ai libri., agli studi teologici, all'amato pianoforte. Inoltre, come ha promesso nell'ultimo Angelus, comincerà a salire  "il Monte per incontrare il Signore" (è permesso chiedere se allude ad un incontro supplementare o, effettivamente, fino ad oggi non abbia mai incontrato il Signore?) e pregherà per la rinascita della Chiesa cattolica, per il buon governo del nuovo Pontefice, per la salvezza del gregge che intanto lui ha abbandonato. Immagino che per un ex Papa anche il pregare deve essere un diletto terreno.
La stessa uscita di scena di Papa Ratzinger non è certamente stata improntata all'umiltà del "pellegrino", secondo la definizione che si è data in tale circostanza, visto che egli non si è seppellito nottetempo in un monastero sconosciuto, ma ha scelto un finale da kolossal, decollando in elicottero verso Castel Gandolfo. E il tutto a favore di telecamera, e non prima di aver lanciato un ultimo tweet. Una fine spettacolarmente in sintonia con lo spirito dei tempi. E, quasi fosse l’amministratore delegato di una grande multinazionale, l’avveduto Joseph Ratzinger si è liberato dalle responsabilità ma ha conservato i benefit, come il titolo di ‘papa emerito’, la veste bianca, il diritto di esser chiamato ancora  Benedetto XVI e ‘santità’, e infine un’abitazione di 450 mq., dove presumibilmente passerà le sue giornate scrivendo best-seller.

LA QUESTIONE DEL "PAPA EMERITO"
Nella vicenda bimillenaria della Chiesa Benedetto XVI è il primo ad essere chiamato "Papa emerito".
Qualcuno ha rilevato che la questione non è da poco. Il Papa, con l'aiuto di esperti, si è interrogato su come ci si dovesse rivolgere a colui che ha rinunciato al «ministero petrino» e alla fine è stato lui stesso a decidere. Perciò, Ratzinger, nonostante sia cessato dal Pontificato, è ancora «Sua Santità Benedetto XVI» in quanto «Papa emerito», oppure «Romano Pontefice emerito».  Però sulla veste talare bianca non può più indossare la mantellina papale ed ha dovuto dismettere le scarpe rosse e l'anello del Pescatore, che è stato annullato ed è stato sostituito da un altro affine, da vescovo. Nella Chiesa i simboli sono importanti.
Così la Chiesa avrà ufficialmente, per la prima volta, un Papa effettivo e un «Papa emerito», residente in un ex monastero poco distante dal Palazzo Apostolico dove vivrà il successore. «Il Signore mi chiama a salire sul monte, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa», ha sostenuto Joseph Ratzinger nell'ultimo Angelus. Vale a dire che il nuovo Papa saprà di poter contare sul predecessore, un «Papa emerito» che resta presente in Vaticano con la «preghiera» e la «meditazione» e non «isolato dal mondo». Intanto, congedandosi dai cardinali, ha detto : "La Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente della forza di Dio. Tra voi c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza".
La "questione del papa emerito" aveva spinto il predecessore di Ratzinger, Giovanni Paolo II, a rifiutare decisamente l'idea delle dimissioni pur a fronte di un manifesto peggioramento di salute. Anche Paolo VI, per evitare di recare turbamenti all’interno dell’istituzione ecclesiastica, optò per il mantenimento della carica. “L’elezione di un nuovo pontefice mentre il vecchio è ancora in vita rappresenterebbe un problema (…) la gente si domenderebbe chi dei due conta” sanciva il cardinale Franz Koenig qualche anno fa.
Con l’intento di rimuovere eventuali dubbi al riguardo, si è pronunciato padre Lombardi, portavoce del Vaticano: “Ratzinger non parteciperà all’elezione del prossimo pontefice”. Risulta arduo, tuttavia, ritenere che l’influenza dell’oramai ex pontefice non tocchi il vaglio dei cardinali sul prossimo eletto, come rileva lo storico Alberto Melloni.
A tal riguardo mi sembrano più esaustive le argomentazioni esposte su l' "Huffington Post" del 7 marzo 2013 il solito amico/nemico di Ratzinger Hans Kung: "Sia chiaro, io non ho nulla contro Joseph Ratzinger. Gli auguro tutto il bene possibile. Non ho nulla in contrario a una vita bella, in un posto dove riposarsi, abbiamo la stessa età... Inizialmente avevo pensato: quella di ritirarsi in un convento per pregare è una buona decisione. Ma ora si vede che non era questo il disegno. E’ molto pericoloso avere un ex Papa che vive nel Vaticano stesso. Che non vive in un monastero, che non vive con monaci, ma con suore che erano al suo servizio in Vaticano come Papa, che ha lo stesso segretario, padre George. Evidentemente, vuole avere contatti con i cardinali, con il nuovo Papa. Si delinea la figura di un 'Papa ombra' nel Vaticano. Ora questo mi sembra confermato. Ratzinger ha certamente interesse che la sua linea sia prolungata, altrimenti non avrebbe fatto così. Questo non è andare sul monte a pregare: ma avere la possibilità di interventi continui. E’ una situazione pericolosa. Se per esempio il Papa futuro dirà: è necessario discutere del celibato dei preti, chi non vuole questo, si rivolgerà al Papa vecchio. Io vedo una ingerenza segreta, non controllabile. Ratzinger dice: “Io sono fuori, ma sono al centro del Vaticano”. Insomma, non va bene. Certo non avrà comunicazioni ufficiali ma infiniti colloqui privati. Com’è possibile, per esempio, che padre George Gaenswein, lo stesso segretario del vecchio Papa sia anche Prefetto della casa pontificia? Con controllo sull’anticamera, decisione sulle udienze. Si configura una comunicazione continua tra palazzo pontificio e vecchio Papa. Questo è stato preparato da molto tempo. E’ parte di una strategia chiara. Basta pensare alla nomina del suo segretario come arcivescovo, (lo scorso dicembre): in Curia hanno definito tutto ciò “nepotismo nuovo”. Oppure c’è il Prefetto del Sant’Uffizio, amico e discepolo di Ratzinger, vescovo di Regensburg, meno accettato in Germania tra i vescovi…"

ULTERIORI  RIFLESSIONI  E  CONCLUSIONI
La rinuncia di Benedetto XVI richiede un ulteriore approfondimento.
La Chiesa stabilisce che il Papa viene eletto direttamente per ispirazione divina attraverso la discesa dello Spirito Santo nell'anima dei vescovi. Infatti, secondo l' "Ordo Rituum Conclavis", approvato da Giovanni Paolo II, subito dopo l'ingresso in Conclave, quando tutti sono riuniti, il Cardinale Decano o, se egli è assente o legittimamente impedito, il Sottodecano, o il Cardinale primo per ordine e anzianità, dà inizio al rito di ingresso in Conclave dicendo: "Tutta la Chiesa, unita a noi nella preghiera, invoca istantemente la grazia dello Spirito Santo, perché sia eletto da noi un degno Pastore di tutto il gregge di Cristo. Il Signore diriga i nostri passi nella via della verità, affinché per intercessione della Beata sempre Vergine Maria, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi, facciamo sempre ciò che gli è gradito".  
Ma se così è, e Ratzinger ben sapeva che lo Spirito Santo invocato in Conclave aveva ispirato la sua elezione, è possibile inferire che con le sue dimissioni egli abbia disatteso la Grazia del Signore, ovvero la volontà di Dio?
Mi sembra di udire la risposta della dottrina e del magistero della Chiesa : "I cardinali non sono burattini e il Conclave non è infallibile. I cardinali – principi della Chiesa – sono esseri umani, quindi godono del pieno libero arbitrio in ogni loro scelta. Lo Spirito non è un grande burattinaio che pilota i voti e non stabilisce chi voterà chi: ispira le anime, mostra una via, parla nei cuori e nelle coscienze di tutti noi e, ovviamente, in quelle dei cardinali, tanto più in momenti così delicati per il cristianesimo. Ma i cardinali restano esseri umani come noi" . In altri termini, i cardinali pregano per discernere e per comprendere quale sia la via indicata loro dallo Spirito; lo fanno in particolar modo prima del conclave, nelle Congregazioni generali, per poter compiere la scelta migliore per la Chiesa, ma questo non ci assicura che accolgano davvero la guida dello Spirito. I cardinali sono esseri umani, hanno debolezze, difetti, sentimenti tipicamente umani e, come ogni altro essere umano, sono dotati del libero arbitrio.  Duellano tra loro per questioni prettamente secolari – non credo che dirlo costituisca sacrilegio, anzi: dobbiamo prenderne coscienza – ed, a volte, possono essere mossi dall’invidia, dalla brama di potere, dal denaro; possono subire pressioni esterne. D'altronde,  possono anche sbagliare in buona fede. Molte volte nei secoli sant’uomini hanno agito pensando di fare il bene della Chiesa e, invece, l'hanno pilotata lontana delle sue sponde.
E' vero. La tradizione stessa della Chiesa non ci parla mai di “infallibilità” del Conclave; sappiamo che il papa può effettuare pronunciamenti infallibili, sappiamo che la Chiesa nella sua collegialità gode di una certa infallibilità, ma nulla si dice del Conclave. Tuttavia, dal punto di vista teologico, è difficile accettare l'idea che il Dio cristian agisca in occasione del Conclave come un semplice suggeritore che opera dietro le quinte come un regista occulto, limitandosi a consigliare come mandare avanti la elezione del Papa, senza obbligo a seguire ciò che onniscientemente consiglia.
Dunque, nulla veramente ci assicura che il papa eletto dal Conclave sia scelto da Dio, il migliore possibile o, quanto meno, il solo idoneo al ruolo? Ma se come diceva San Vincenzo Pallotti, il fondatore della "Unione dell'Apostolato Cattolico" «Alcuni papi Dio li vuole, alcuni li permette, altri li tollera»; se dobbiamo prendere atto del lungo elenco di papi non idonei  alle sfide che si sono trovati ad affrontare, papi che hanno recato alla Chiesa più danni che benefici; se, insomma,  dobbiamo accettare con il beneficio dell'inventario la scelta dei cardinali e attendere la prova provata che il Papa eletto sia quello giusto, quello effettivamente voluto da Dio, dove va a finire la certezza della infallibilità che gli viene attribuita a priori, senza alcuna riserva?
Il circolo è vizioso. Ed io, anzichè pensare che anche l'elezione del Papa  faccia parte del segreto incomprensibile dell’Amore di Dio, il quale ci ha donato la libertà (il cosiddetto "libero arbitrio") perché ci ama e questa libertà è tale da consentirci di sbagliare e anche di rifiutarlo (allora dovremmo solo pregare affinchè i cardinali sappiano discernere la guida dello Spirito nella loro scelta imminente, non potendo essere certi che essa sia guidata dalla fede e non dal denaro, dal potere, dai vizi umani o, semplicemente, dall’errore involontario), preferisco pensare che anche il Signore talvolta commette grossi sbagli di valutazione, per cui, dopo aver ispirato la elezione di un Papa inadatto, venga a trovarsi nella ingrata situazione, segnalata da San Vincenzo Pallotti, di doverlo tollerare.
Scrive Marcello Veneziani  su "Il Giornale" di domenica 17 febbraio 2013: "Lo senti assai vicino Ratzinger che si dimette per raggiunti limiti d'età, per vecchiaia e per stanchezza, per sottrarsi a veleni e ricatti, per liberarsi dalla cappa dei poteri, dalle trame oscure e dalle cose del mondo, per tormento intellettuale. Lo senti umano, profondamente umano, nella rinunzia, lo senti perdutamente filosofo e umanista. Magari ammiri la sua ascesi intellettuale, ti ritrovi nella sua solitudine di studioso, nel suo prediligere la spiritualità ai fedeli. Però non lo senti Papa, cioè Santo Padre, cioè custode di una Tradizione e Pastore nel segno della Croce. Semel abbas, semper abbas, dicevano gli antichi: una volta padre, sei padre per sempre. Non si può rinunziare, andarsene in pensione come uno qualunque, spezzare una tradizione, generando assurdi imbarazzi e strane vacatio. Tutti plaudono all'umanità di un Papa che si dimette e perfino al coraggio; ma un Pontifex è ponte con la divinità, non si esaurisce nella sua umanità. È richiesto il sacrificio della sua individualità soggettiva, anteporre l'Ufficio alla sua personale inclinazione. Non a caso perde il suo nome originario. Cosa volete che siano, alla luce di Cristo e dell'eternità, la vecchiaia, i veleni e il disagio di un ruolo? Da Santità non ci si può dimettere. La via dell'ascesi è eccelsa, ma dopo il papato sconfessa il Magistero della Chiesa. Per questo, con tutto l'affetto che nutro per la delicata spiritualità di Ratzinger e per il suo acume teologico, lasciatemi dire, con immenso rispetto e la morte nel cuore: ha disertato".
Condivido. Le dimissioni di Benedetto hanno sconfessato il Magistero della Chiesa e, di conseguenza, desacralizzato la figura del Papa. Lo stesso popolo dei cattolici ne è rimasto disorientato e smarrito. Ho letto sul web dichiarazioni di sfiducia nei confronti del sistema ecclesiastico e di abiura alla fede del Dio cristiano. Non sono pochi quelli che, dopo le dimissioni del Papa, hanno manifestato l'intenzione di convertirsi al Buddismo.
Paolo Flores d’Arcais, intervistato dal quotidiano brasiliano “O Estado de Sao Paulo”, ha detto: "Il Sommo Pontefice era un sovrano assoluto con un’aura carismatica assolutamente senza eguali, quella di essere vicario di Cristo in terra, cioè il sostituto nell’al di qua della Seconda Persona della Santissima Trinità che regna nell’aldilà, insomma il vice di Dio. Ma un vice Dio che può dimettersi, e diventare un ex vice Dio, distrugge proprio la caratura di sacralità che fin qui ha accompagnato la figura del Papa".
Il filosofo Massimo Cacciari su "Il Foglio" del 13 febbraio 2013 ha invece valutato l'addio al Pontificato di Ratzinger da un punto di vista strettamente secolare, rilevando che, d'ora in poi, "...il Pontefice diventa uno come noi e come tutti, qualcuno che può abbandonare la propria carica, andarsene, rinunciare ... Ma non si può far finta che questo gesto dalla immensa carica innovativa non apra un varco, una breccia in cui potrebbero farsi largo altre innovazioni. Dopo le dimissioni, come non pensare a innovazioni anche più radicali?”. Ed aggiunge che gli ambiti nei quali quella carica innovativa potrebbe irradiarsi, preceduta e sollecitata dal gesto senza precedenti del Papa, potrebbe essere non solo quello della crisi delle vocazioni, ma soprattutto quello dei modi di trasmissione, di comunicazione della fede. Una fede che non necessariamente deve essere consolante, rassicurante, e che non ha paura di testimoniare la debolezza, la necessità di affidarsi a un altro.
Come assorbirà, la chiesa, il trauma dell’addio di Benedetto XVI al pontificato? Cacciari risponde: “In tedesco, trauma e sogno sono quasi la stessa parola. Potrebbe anche essere un bel sogno, che porta a innovazioni più radicali, all’abbandono di certe trincee. Il compito della chiesa è quello di dire che cosa pensa della vita, della morte, della libertà, predicando il verbo sulle questioni ultime. Il trauma delle dimissioni del Pontefice, perché di trauma si tratta, potrebbe condurre con sé qualcosa di molto salutare, un ripensamento su come comunicare la fede oggi”. "La giusta strada - dice ancora Massimo Cacciari - l’ho vista nella prima enciclica, la ‘Deus caritas est’, ricca di prospettive nuove, mentre il pensiero successivo di Benedetto XVI si è attardato sulle questioni di ragione e fede, affrontate in termini di scolastica".
Sicuro, la speranza è proprio questa : che proprio il gesto delle dimissioni, nella sua paradossalità, conduca la Chiesa ad una predicazione del Vangelo che riesca ad riavvicinarla al mondo. Ma temo che questo non accadrà e che le auspicate innovazioni si limiteranno a rendere l'istituto delle dimissioni del Papa non più un evento eccezionalissimo, ma una pratica di ordinaria amministrazione. Con l'effetto tragico di alimentare i giochi sotterranei di potere di cui è intessuta la Curia romana, poichè quello di provocare con una dura opposizione la rinuncia del Papa al suo mandato apparirebbe obiettivo concreto ed a portata di mano.