domenica 2 dicembre 2012

L'EMPIRISMO E LO STORICISMO

L' Empirismo (dal greco εμπειρια - esperienza) è la corrente filosofica, nata nella seconda metà del Seicento in Inghilterra, secondo cui la conoscenza umana deriva esclusivamente dai sensi o dall'esperienza. Questo indirizzo filosofico si pose sul piano sensistico e materialistico come vera antitesi cartesiana. I maggiori esponenti dell'empirismo anglo-sassone furono John Locke, George Berkeley, e David Hume: costoro negavano che gli esseri umani avessero idee innate, o che qualcosa fosse conoscibile a prescindere dall'esperienza. L'empirismo si sviluppò in contrapposizione al razionalismo, corrente filosofica il cui esponente principale è stato Cartesio. Secondo i razionalisti, la filosofia dovrebbe essere condotta tramite l'introspezione e il ragionamento deduttivo a priori. Secondo gli empiristi, invece, si considera alla base del metodo scientifico l'idea che le nostre teorie dovrebbero essere fondate sull'osservazione del mondo piuttosto che sull'intuito o sulla fede. L'origine di ogni conoscenza è l'esperienza. Nessuna conoscenza è innata : alla base di ogni conoscenza c'è la sensazione che è il contatto del soggetto con l'oggetto.

Secondo HOBBES  il Dio immortale è l’autore della natura e della sua legge ("la guerra di tutti contro tutti”, imposta dalla difesa della corporeità di ciascuno contro la prevaricazione dell’altro), ma il vero Dio è il Dio mortale, cioè lo Stato (il Sovrano), il solo capace di garantire il rispetto del patto che gli uomini stringono fra loro per evitare l’ homo homini lupus ("Leviatano").

Secondo LOCKE  non si può concepire la realtà come prodotta dal nulla; non si può pensare al tempo senza l’eternità. Neppure è concepibile che ciò che non pensa, cioè la materia, produca da sé il pensiero. Dio non ci ha dato idee innate di sé, non ha stampato caratteri originali nel nostro spirito, nei quali possiamo leggere la sua esistenza; tuttavia, avendoci forniti delle facoltà di cui il nostro spirito è dotato, non ci ha lasciato senza una testimonianza di se stesso: dal momento che abbiamo senso, percezione e ragione, non possiamo mancare di una chiara prova della sua esistenza, fino a quando portiamo noi stessi con noi. Non c’è verità piú evidente che questa, che qualcosa deve esistere dall’eternità. Non ho mai sentito parlare di nessuno cosí irragionevole o che potesse supporre una contraddizione cosí manifesta come un tempo nel quale non ci fosse assolutamente nulla. Perché questa è la piú grande di tutte le assurdità, immaginare che il puro nulla, la perfetta negazione e assenza di tutte le cose producano mai qualche esistenza reale. Se, allora, ci deve essere qualcosa di eterno, vediamo quale specie di essere deve essere. E a questo riguardo è assolutamente ovvio ragionare che debba necessariamente essere un essere pensante. Infatti pensare che una semplice materia non pensante produca un essere pensante intelligente è altrettanto impossibile quanto pensare che il nulla produca da se stesso materia ("Saggio sull'intelletto umano").

Secondo BERKELEY «Esse est percipi», ossia "l'essere è essere-percepito", ossia: tutto l'essere di un oggetto consiste nel suo venir percepito e nient'altro. La teoria immaterialistica così enunciata sentenzia che la realtà si risolve in una serie di idee che, per essere considerate esistenti, hanno bisogno di essere percepite da uno spirito umano. È Dio, spirito infinito, che ci fa percepire sotto forma di cose e fatti le sue idee calate nel mondo. Per Berkeley l'unico scopo autentico della filosofia è quello di confermare e avvalorare la visione della religione: è Dio, infatti, l'unica causa della realtà naturale. Scrive nei "Commentari filosofici", che se l'estensione esistesse al di fuori della mente, o si avrebbe a che fare con un Dio esteso, oppure si dovrebbe riconoscere un essere eterno infinito accanto a Dio. Berkeley aderisce quindi all'immaterialismo ovvero alla dottrina per cui nulla esiste al di fuori della mente. La materia quindi non esiste ed esistono solo Dio e gli spiriti umani. Berkeley era contro l'esistenza delle idee astratte e fautore di un nominalismo radicale. Secondo l'irlandese infatti non esistono idee generiche o universali, ma semplici idee particolari usate come segni, appartenenti ad un gruppo di altre idee particolari tra loro affini. Per Berkeley non esistono sostanze, non esiste l'uomo od il cane, ma solo quell'uomo, questo cane... Gli oggetti che noi crediamo esistere sono in realtà delle astrazioni ingiustificate; non esistono oggetti corporei, ma soltanto collezioni di idee che ci danno una falsa impressione di materialità e sussistenza complessiva. Infatti noi conosciamo soltanto le idee che coincidono con le impressioni dei sensi. Proprio come in un sogno, noi abbiamo percezioni spazio-temporali relative ad oggetti materiali senza che questi esistano.
La dottrina di Berkeley esclude in virtù di questo principio l'esistenza assoluta dei corpi. Secondo il teologo irlandese tutto ciò che esiste è idea o spirito, quindi la realtà oggettiva non è che un'impressione data dalle idee. Berkeley nega la distinzione fra qualità primarie e secondarie, propria di John Locke, sostenendo che tutte le qualità sono secondarie, cioè soggettive, e rigetta anche l'idea di substrato, ovvero di materia. Se esistesse una materia, essa sarebbe soltanto un limite alla perfezione divina. In questo senso anche la scienza di Newton non ha altro valore che quello di una mera ipotesi, che ci aiuta a fare previsioni per il futuro, ma non ha alcun riferimento con la realtà materiale, che non solo non è conoscibile, ma non esiste affatto. Le idee, secondo Berkeley, vengono impresse nell'uomo da uno spirito infinito, cioè Dio. Lo stesso Dio si configura come la Mente infinita grazie a cui le idee esistono anche quando non vengono percepite.
Berkeley porta quindi alle estreme conseguenze l'empirismo di Locke, giungendo a negare l'esistenza di una sostanza materiale perché non ricavabile dall'esperienza, e recidendo così ogni possibile legame tra le nostre idee e una realtà esterna. Egli anticipa lo scetticismo di David Hume, ma se ne mette al riparo ammettendo una presenza spirituale che spieghi l'insorgere di simili idee dentro di noi, rendendocele vive e attuali, sebbene prive ormai di un fondamento oggettivo ("Dialoghi fra Hylas e Philoneus").

Secondo HUME  l’origine della fede nella divinità deve ricondursi al sentimento derivante dalla precarietà dell’esistenza, ed esprime insieme il timore e la speranza, e in ogni caso l’esigenza di controllare, sia pure indirettamente, i diversi ambiti dell’esistenza stessa. Per questo la prima religione è il politeismo, che riferisce a divinità diverse tutte le singole attività, i vari ambiti della vita. La religione è dunque, fondamentalmente, un sistema di sicurezza contro la precarietà della vita. Ha un carattere essenzialmente pratico e non teoretico. L’esistenza di Dio non può essere fondata su spiegazioni razionali, ma essa non deriva, secondo Hume, neppure dal bisogno di spiegare fatti naturali altrimenti incomprensibili, bensì da quello di dare una motivazione e un fondamento ai diversi ambiti di attività, ponendo ciascuno di essi sotto la tutela di un qualche potere intelligente. Egli spiega il passaggio dal politeismo al monoteismo come un rafforzamento di questa esigenza. Un Dio onnipotente costituisce una garanzia maggiore, ma perché possa essere considerato tale non può coesistere con altre divinità: di qui l’affermazione dell’unicità di Dio, connessa all’infinità degli attributi riferiti alla sua natura (infinita potenza, infinita bontà ecc.) ("Il tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali").

Lo Storicismo dal punto di vista filosofico nasce nella cultura romantica tedesca (il primo autore ad aver impiegato il termine è Novalis), per sottolineare la natura storica e progressiva della manifestazione della verità, frutto di una lenta maturazione che procede secondo una precisa logica di sviluppo. Il primo autore che presenti un simile modello teorico è Johann Gottfried HERDER nel mondo tedesco. Questo modello, non perdendo di vista la realtà, consolida la speculazione astratta in precisi fattori di vita.
Lo storicismo si sviluppò in Italia nella prima metà del Settecento come isolato indirizzo filosofico fondato su una nuova scenza dell'uomo ad opera di Giambattista VICO. Per il filosofo italiano la conoscenza del mondo fisico e del mondo metafisico è preclusa all'uomo il quale può conoscere solo il mondo umano, cioè la Storia
che è sua fattura e sua creazione. La tesi è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che tale cosa produce; il principio del verum-factum, proponendo la dimensione fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano che Vico inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha sempre un margine di imprevedibilità. Vico però si serve di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana trionfante in quel periodo. Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto ("Scienza nuova"). Ma se l'uomo crea la Storia, l'uomo non si è creato da sè. La causa prima della Storia è dunque in colui che è anche causa dell'uomo, cioè Dio ("De antiquissima italorum sapientia").





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