martedì 4 dicembre 2012

LA FILOSOFIA DELLA VOLONTA' E DELL'ANGOSCIA

L’ Idealismo parte dal pensiero universale dal quale fa discendere la natura e l’uomo. Da questa concezione si dissocia tra la fine del XVIII Sec. e l’inizio del XIX Sec. Un movimento di reazione che volle fare un passo indietro riallacciandosi al rigore del sistema kantiano.

SCHOPENHAUER

La filosofia di Schopenhauer è molto articolata. Sostenitore di Kant, irride all’Idealismo definendolo “Filosofia delle Università”. Nella sua opera giovanile  Il mondo come volontà e rappresentazione - che contiene già gran parte del suo pensiero -Schopenhauer sostiene che il mondo è fondamentalmente ciò che ciascun uomo vede ("relativismo") tramite la sua volontà. La sua analisi pessimistica lo porta alla conclusione che i desideri emotivi, fisici e sessuali, che presto perdono ogni piacere dopo essere stati assecondati, ed infine divengono insufficienti per una piena felicità, non potranno mai essere pienamente soddisfatti e quindi andrebbero limitati, se si vuole vivere sereni. La condizione umana è completamente insoddisfacente, in ultima analisi, e quindi estremamente dolorosa. Di conseguenza, egli ritiene che uno stile di vita che nega i desideri, simile agli insegnamenti ascetici dei Vedanta e delle Upanishad dell'induismo, del Buddhismo delle origini, e dei Padri della Chiesa del primo Cristianesimo, nonché una morale della compassione, sia l'unico vero modo, anche se difficile per lo stesso filosofo, per raggiungere la liberazione definitiva, in questa vita o nelle successive.
Sull'esistenza di Dio, Schopenhauer è invece ateo, almeno per quanto riguarda la concezione occidentale moderna. La vita è un inferno in cui gli uomini sono al contempo anime dannate e diavoli. Questo a causa dell’egoismo che abita in ognuno di noi: i demoni si potrebbero identificare con i grandi cattivi della storia, ma si sa anche che i malvagi sono spesso i più insospettabili perché i più subdoli. Ciascuno di noi, in fondo, è segretamente malvagio quando, dentro di sè, augura ogni sciagura possibile al proprio prossimo o gioisce delle disgrazie altrui. Tutto è dunque mistificazione, impostura, non certo dono. Chi tematizza la vita come dono non sottolinea mai come, con la vita, si donino per forza di cose anche malattia e morte. Qui appare la dimensione gnostica di Schopenhauer, ovvero il concepire l’intero mondo come prigione, inferno, in modo analogo agli Esistenzialisti, che parlano di un “essere gettati nell’esistenza senza mai averlo chiesto ed esserne prigionieri”. Nel filosofo matura la convinzione che sarebbe meglio se uomo e mondo non ci fossero; l’errore fondamentale è il volere. «Il mondo ha creato Dio, e non viceversa». La religione è totale illusione, solo la filosofia è verità. I filosofi non devono adattare il loro pensiero alle dottrine religiose: solo i filosofastri lo fanno. Costoro propongono al pubblico intellettuale ciò che vuole sentire, ciò che fa comodo, è consolante, rassicurante. Un filosofastro è, chiaramente, Hegel, che presenta il mondo come progressivo processo verso l’assoluto, la salvezza.

KIERKEGAARD

Per Kierkegaard non vi può essere un metodo universale di conoscenza: unica e vera conoscenza è la conoscenza individuale, quella che ognuno ha vissuto e vive , per cui l’uomo deve costruirsi da solo la propria regola di vita, deve ottenere da solo la propria salvezza. Infatti, non c’è un sistema per risolvere le antitesi che si presentano nettamente fra i vari stadi o tipi di individualità. Le alternatività, ossia gli aut-aut, cioè le realtà inconciliabili che lo spirito vive drammaticamente sono quattro : la individualità e la totalità dell’esistenza: il tempo e l’eternità, il reale e l’ideale; la natura e Dio. Dalla loro inconciliabilità e dalla inutilità della scelta fra i due termini deriva la tesione e l’angoscia che domina la nostra esistenza ("Aut-Aut").
L'unico esito positivo che angoscia e disperazione possono avere è la fede. L'impossibilità dell'io, che porta alla disperazione, e la possibilità del nulla, che porta all'angoscia, hanno come unica soluzione l'aggrapparsi dell'uomo all'unica possibilità infinitamente positiva, cioè Dio ("Timore e tremore"). Così l'uomo pur rimanendo fedele al proprio compito di essere se stesso riconosce la sua insufficienza ma non la vive come un peso ma come l'effetto di dipendenza da Dio. Il credente viene rassicurato dal fatto che il possibile non è compito suo ma è nelle mani di Dio. Il passaggio alla fede non è un progresso graduale, ma un salto senza mediazioni nell'irrazionale - poiché la fede esula dalle spiegazioni razionali - che l'uomo nella sua esistenza decide di compiere abbandonandosi così in un rapporto in cui è solo con Dio. Accedendo alla fede il credente decide di abbandonare ogni comprensione razionale accettando anche l'"assurdo". Questo è il "paradosso della fede", la quale è vera proprio perché supera la comprensibilità umana. Quindi nemmeno la fede può assicurare certezza e riposo, poiché è assurdità. Per la ragione, infatti, è qualcosa di paradossale e scandaloso la fede in un Uomo che è insieme Dio, in un individuo storico che è insieme metastorico. Impensabile, razionalmente, è anche l'intimo rapporto fra Dio e l'uomo. Infatti Dio è trascendenza, «infinita differenza qualitativa», e ciò implica una distanza incolmabile fra Lui e l'uomo, distanza che sembra escludere qualsiasi familiarità. L'irruzione dell'uomo, essere finito e temporale, nell'elemento dell'eternità e dell'infinito è la fede, mentre l'irruzione dell'eternità nel tempo è l'"attimo" in cui Dio si rivela all'uomo, in cui l'infinito si manifesta al finito. Nel pensiero di Kierkegaard, che rappresenta la rivincita della religione contro la filosofia, della fede contro la ragione, sembra di riascoltare l’affermazione del teologo africano Tertulliano del II secolo d.C., al quale è attribuita la frase "credo quia absurdum" ("credo perché è assurdo"). Secondo questo paradosso, scaturito da un fideismo antintellettualistico, i dogmi della religione vanno difesi con convinzione tanto maggiore, quanto minore è la loro compatibilità con la ragione umana. Poiché la fede è irrazionale, Kierkegaard critica la concezione hegeliana o quella propria anche della chiesa luterana moderna, che cercano di conciliare ragione e fede. Secondo Kierkegaard, la teologia scientifica pretende infatti di spiegare l'inesplicabile. Inoltre, Kierkegaard criticò la chiesa danese che insisteva sull'osservanza delle regole esteriori. A suo giudizio, la vera religione è quella fondata sul rapporto diretto e interiore fra uomo e Dio. La paradossalità della fede, la rinuncia all'uso dell'analisi razionale, qualificano la filosofia di Kierkegaard come irrazionalista, e ad essa guarderanno con interesse diverse tendenze del pensiero del Novecento, come, per esempio, l’Esistenzialismo.

NIETZSCHE

L'uomo ha dovuto illudersi per dare un senso all'esistenza (si pensi anche a Freud), in quanto ha avuto paura della verità, non essendo stato capace di accettare l'idea che "la vita non ha alcun senso", che non c'è nessun "oltre" dopo di essa (nichilismo) e che va vissuta con desiderio e libero abbandono pieno di "fisicità" ("La nascita della tragedia"). Se il mondo avesse un senso e se fosse costruito secondo criteri di razionalità, di giustizia e di bellezza, l'uomo non avrebbe bisogno di autoilludersi per sopravvivere, costruendo metafisiche, religioni e morali. L'umanità occidentale, passata attraverso il cristianesimo, percepisce ora un senso di vuoto, trova che "Dio è morto", cioè che ogni costruzione metafisica vien meno davanti alla scoperta che il mondo è un caos irrazionale. Fino a che non sorgerà l'Oltreuomo, cioè un uomo in grado di sopportare l'idea secondo cui l'Universo non ha un senso, l'umanità continuerà a cercare dei valori assoluti che possano rimpiazzare il vecchio dio (inteso come qualsiasi tipo di realtà ultraterrena e non come semplice entità quale potrebbe essere il Dio cristiano); dei sostituti idolatrici quali, ad esempio, lo Stato, la scienza, il denaro, ecc. La mancanza, però, di un senso metafisico della vita e dell'universo fa rimanere l'uomo nel nichilismo passivo, o disperazione nichilista. È tuttavia possibile uscire dal nichilismo superando questa visione e riconoscendo che è l'uomo stesso la sorgente di tutti i valori e delle virtù della volontà di potenza (nichilismo attivo). L'uomo, ergendosi al di sopra del caos della vita, può generare propri significati e imporre la propria volontà. Chi riesce a compiere questa impresa è l'Oltreuomo, cioè l'uomo che ha compreso che è lui stesso a dare significato alla vita. Attraverso le tre metamorfosi dello spirito, di cui parla nel primo discorso del testo Così parlò Zarathustra, Nietzsche mostra come il motto "Tu devi" vada trasformato dapprima nell' "Io voglio", ed infine in un sacro "Dire di sì", espresso dalla figura del fanciullo giocondo. Ovviamente il nichilismo attivo non giustifica i modelli valoriali proposti nel corso dei secoli per dare senso alla realtà, poiché questi non sono altro che il frutto dello spirito apollineo e, pertanto, non corrispondono all'effettiva essenza dell'uomo, che è dionisiaco, ossia legato inscindibilmente a quei "valori" (vitalità, potenza) intrinseci alla sua natura terrena:







lunedì 3 dicembre 2012

L' ILLUMINISMO


Nella seconda metà del Settecento vari indirizzi filosofici trovarono un comune clima di indagine che prese il nome di Illuminismo. Non si trattò di una scuola, ma di un vasto movimento di pensiero che si proponeva la revisione della civiltà e delle istituzioni umane al lume di quella ragione che aveva trionfato nelle filosofie precedenti. L’ illuminismo assunse caratteri diversi nelle diverse nazioni in cui si sviluppò, a seconda del problema che si proponeva di risolvere. In Inghilterra prese un indirizzo etico-sociale-religioso; in Francia si connotò di motivi naturalistici, poiché cercò nella natura le leggi dell’uomo e della società; in Germania si risolse prevalentemente in un deismo razionale, volto alla continua ricerca della volontà divina; in Italia affrontò soprattutto i problemi sociali. In linea generale, l’illuminismo affermò, nel campo morale, l’autonomia dell’uomo, siccome dotato di leggi etiche naturali le quali gli permettono di dirigere la propria azione senza bisogno di verità dogmatiche impostegli dallo Stato o dalla Religione; nel campo politico, il diritto degli uomini a governarsi, con il rifiuto di ogni forma di governo che non sia voluto e riconosciuto dal popolo ed indipendentemente da ogni investitura divina; nel campo religioso, il diretto e naturale rapporto dell’uomo con la divinità, al di fuori di ogni tradizione, di ogni mito e di ogni rito; in tutti i campi, la legge naturale come legge fondamentale.

BENTHAM

In Inghilterra il problema morale divenne il problema per eccellenza, ma, anziché dar vita alla costruzione di complessi sistemi, fu mantenuto sul piano utilitaristico e delle soluzioni pratiche, quale la ricerca di norme di vita. Per Bentham tutto quello che l’uomo fa ha per scopo principale un utile, ma poiché il vero utile è l’utile universale, in definitiva l’uomo tende naturalmente verso l’utile universale, cioè verso il bene comune.
Bentham fu uno dei più importanti utilitaristi, in parte tramite le sue opere, ma in particolare tramite i suoi studenti sparsi per il mondo. Tra questi figurano il suo segretario e collaboratore James Mill e suo figlio John Stuart Mill, oltre a vari politici (Robert Owen, che divenne poi uno dei fondatori del socialismo).
Argomentò a favore della libertà personale ed economica, della separazione di stato e chiesa, della libertà di parola, della parità di diritti per le donne, dei diritti degli animali, della fine della schiavitù, dell'abolizione di punizioni fisiche, del diritto al divorzio, del libero commercio, della difesa dell'usura e della depenalizzazione della sodomia. Fu a favore delle tasse di successione, delle restrizioni sul monopolio, delle pensioni e assicurazioni sulla salute. Ideò e promosse un nuovo tipo di prigione, chiamò Panopticon ("Introduzione ai principi della morale e della legislazione").
Morendo nel 1832 non lasciò solo il retaggio della sua dottrina morale e politica, ma anche quello di un'istituzione nuova in Inghilterra, l'Università di Londra, distinta dalle tradizionali università inglesi di Oxford e Cambridge per il suo carattere rigorosamente laico e subito tacciata dagli avversari come «l'Università senza Dio».

ROUSSEAU

La corrente etico-sociale francese considerò la civiltà come produttrice di un sostanziale aumento dei bisogni materiali e, quindi, come causa di corruzione dello stato di natura innocente. Per Rousseau l’unico rimedio a questo processo involutivo consiste nel ritorno alla natura ed alle sue armoniche leggi, che rappresenta la vera perfezione che l’uomo può raggiungere. Naturalmente un tale ritorno non deve distruggere quel che di positivo si trova nella civiltà, ma piuttosto deve ricostituire nell’uomo civile l’uomo primitivo.
Secondo Rousseau l’insegnamento religioso può cominciare solo in età adolescenziale. Nell’ "Emilio" egli sviluppa l’idea religiosa fondata sulla coscienza, che chiama istinto divino, e sull’intima esperienza personale. Anche la ragione deve essere fondata sul sentimento del cuore, da cui prende corpo la critica alle autorità religiose e alle religioni positive. Per Rousseau, infatti, la religione naturale non implica verità rivelate.
Secondo il filosofo svizzero lo spirito religioso si sviluppa naturalmente e intimamente nell’uomo, svelandosi nella sua semplicità, libero da tutte le imposizioni culturali.
Tuttavia nel "Contratto sociale", Rousseau afferma che per il benessere e la coesione dello Stato e di tutto il corpo sociale, sia necessaria una religione che preveda la fede in un unico Dio, nella vita eterna e nella remissione dei peccati.
Egli ritiene che lo Stato abbia il diritto di punire, in alcuni casi addirittura con la morte, tutti coloro che non si adeguano alla confessione religiosa prevista, risultando in questo modo addirittura uno dei massimi teorici dell'intolleranza religiosa.
Dunque Rousseau recepisce la religione nella sua dimensione naturale e civile. Egli infatti propone una netta separazione tra il messaggio verace della religione cristiana e il suo totale appiattimento in sede vaticana. Oltre a Voltaire, anche il pensatore Ginevrino è stato capace di scardinare tutto l'apparato dottrinario impregnante l'edificio del dogma cristiano, spogliandolo di tutti i suoi cavilli. Egli scopre l'esigenza innata e insopprimibile di ciascun credente di sentire nel più profondo di sé certe vibrazioni superiori. In definitiva, la più grande scommessa vinta da Rousseau è senza dubbio quella di averci proposto una "religione laica". Insomma, in ambito religioso Rousseau è illuminista e, insieme, preromantico: a suo avviso, infatti, nella religione la ragione coopera col sentimento e con l’istinto senza escluderli, illuminando piuttosto ciò che essi manifestano. Si tratta di una luce interiore che non ha il compito di disfarsi astrattamente di sentimenti e di passioni, ma di indirizzarli a quell’equilibrio naturale che la civiltà ha compromesso. Secondo Rousseau, la natura dell’uomo è fondamentalmente buona e ha in sé l’amore verso se stessi e la pietà verso gli altri: tale natura originaria dev’essere riscoperta al di là delle sovrastrutture sociali, culturali, e politiche che l’uomo ha creato nel corso della storia. È questa l’idea (centrale in Rousseau) del ritorno alla natura e alla sua religione pura, che è stata poi occultata dai dogmi, dalle superstizioni, dalle astrattezze teologiche. Si tratta allora di eliminare i libri e di non ascoltare più gli uomini che pretendono di rappresentare Dio: l’unico libro che rappresenta “l’essere degli esseri” (così Rousseau definisce Dio) è il libro del sentimento scaturente dal contatto con la natura. Solo da questo libro si apprendono i veri e unici dogmi, quelli della religione naturale: tali dogmi sono due, a) l’esistenza di Dio, b) la libertà spirituale dell’anima e, dunque, la sua immortalità. Tutto ciò che la religione positiva ha costruito sopra questi due dogmi sono indebite aggiunte che coprono la verità con veli più o meno oscuri. Nel Contratto sociale, poi, questi due dogmi fondamentali della religione naturale vengono declinati come articoli di un “credo civile”.
Nella “Professione di fede del vicario savoiardo” il sentimento del sacro così viene vissuto nella coscienza di Rousseau: egli avverte che il mondo è retto da una volontà ordinatrice, potente, buona, intelligente, la quale però si sottrae ai sensi e all’intelletto dell’uomo; a tal punto che più si pensa a Dio e più ci si confonde. Da questa constatazione trae origine la preghiera che Rousseau rivolge alla divinità: “quanto meno la capisco, tanto più la adoro”. In questa prospettiva, l’uso più degno della ragione è di annichilirla dinanzi alla grandezza di Dio, col quale Rousseau intrattiene un rapporto intimo: ma sotto questa carica di sentimenti permane il filosofo, giacché si tratta di sfogo umano più che di certezza. In altri termini, si ha una religione depotenziata, nella quale il sentimento e la ragione si confondono e si mescolano.

LESSING

Il primo Illuminismo germanico, sotto la influenza di Leibniz, fu caratterizzato da concezioni deterministiche che si risolsero in un deismo inteso a chiarire la possibilità di una conoscenza stabilita dalla volontà di Dio.
Come rappresentante di spicco dell'Illuminismo tedesco Lessing viene considerato un precoce pensatore della presa di coscienza della classe borghese della sua identità e forza sociale. Tema ricorrente nel pensiero di Lessing è quello che la ricerca è superiore al possesso della verità: « Se Dio tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo tendere alla verità con la condizione di errare eternamente smarrito e mi dicesse "Scegli", io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: Padre, ho scelto; la pura verità è soltanto per te » ("Una replica"). È questa una tipica posizione illuministica antidogmatica, secondo la quale ogni conoscenza acquisita deve essere aperta alle correzioni e ai contributi che vengono dalle nuove esperienze, così che la conoscenza autentica non è quella di chi difende le posizioni raggiunte ma quella di chi si espone alla ricerca rischiosa di nuovi risultati:
« Da un giudice non si può pretendere altro che egli si schieri con quella parte che sembra avere il maggiore diritto. Se si comporta diversamente, allora è chiaro che egli stravolge la verità a proprio tornaconto e la vuole rinchiudere negli angusti limiti della propria pretesa infallibilità » ("Riabilitazione di G. Cardano").
Questa sua concezione della filosofia rende il pensiero di Lessing non sistematico, ma costituito da interventi diversificati, spesso polemici, su tutti i temi della cultura tedesca della sua epoca.
Per la concezione della religione, Lessing in un primo tempo sostenne una visione razionalistica per cui la religione rivelata deve confermare le verità della religione naturale. In un secondo momento Lessing sembra adeguarsi a una concezione più vicina all'ortodossia ma in realtà egli assume una posizione di negazione della religione. I deisti, afferma Lessing, criticano le religioni positive in nome di una religione naturale costituita essenzialmente da regole etiche, ma così facendo essi sostituiscono ai valori assoluti delle religioni rivelate quelli, altrettanto assoluti, della religione razionale. Egli invece vuole dare un fondamento storico alle religioni positive che si estende anche alla religione naturale. Nell' Educazione del genere umano Lessing ritiene che le varie religioni che si sono costituite nel corso della storia non siano nient'altro che le espressioni di un patrimonio di verità che l'uomo ha progressivamente per suo conto scoperto nella sua storia. Ogni religione quindi risente delle circostanze storiche in cui è nata e il suo valore è relativo alla situazione storica che l'ha determinata. La rivelazione delle religioni positive ha un compito pedagogico primario: educare l'uomo a quelle verità che poi sarà in grado di capire razionalmente da solo.

KANT

Ma l’ ”Età dei lumi” negli ultimi decenni del Settecento è dominata in Germania dalla figura di Emanuele Kant, tedesco di padre scozzese, la cui filosofia appare come la revisione conclusiva di un secolo e mezzo di pensiero moderno e la riduzione a grande sistema delle sue risultanti. Per il pensiero moderno Kant è stato quello che per il pensiero greco fu Aristotele e per la speculazione scolastica fu S.Tommaso. Per Kant due sono le fonti della conoscenza : l’intuizione, con la quale la sensibilità ci dà il contenuto, ed il concetto, con il quale questo contenuto viene coordinato dall’intelletto. Le intuizioni ed i concetti possono essere puri o aprioristici (cioè rappresentano pure forme della sensibilità o dell’intelletto) o empirici (cioè corrispondono ad un mero dato sperimentale). Intuizioni pure o aprioristiche sono lo spazio ed il tempo : ciò significa che ogni sensazione per giungere a noi deve assumere un forma spaziale o temporale; spaziale se si tratta di una sensazione esterna, temporale se si tratta di una sensazione interna; infatti, lo spazio è la forma del mondo esterno, il tempo quella del mondo interno (“Critica della ragion pura”).
Ma l’uomo, oltre a conoscere, agisce e deve dare alla sua azione un valore morale. La moralità, in Kant, è fondata sopra un elemento a priori, che è proprio della nostra ragione : l’imperativo categorico (imperativo perché si presenta sotto forma di legge, categorico perché è incondizionato), che così si formula : “Opera in modo che la massima della tua condotta possa valere come norma di una legislazione universale”. Il che significa che in ogni contingenza noi dobbiamo avvertire l’intimo comando di comportarci in modo da poter dire : “Chiunque in un caso come questo deve comportarsi in questo modo”. Emerge, allora, nel campo dell’agire un valore che non esiste nel campo del conoscere; questo valore è la necessità del dovere ( “Critica della ragion pratica”).
Infine, Kant osserva che l’uomo è portato a giudicare, in quanto soltanto attraverso il giudizio egli può stabilire un intimo rapporto con la natura. Quando noi giudichiamo non facciamo che subor-dinare un particolare ad un universale. Ora, se diciamo “La rosa è un fiore” noi subordiniamo il particolare sensibile “rosa” all’universale sensibile “fiore”. Ma se diciamo “La rosa è bella” al particolare sensibile “rosa” non corrisponde un altro universale sensibile perché l’idea della bellezza non la fa conoscere l’esperienza. Nel primo caso si ha allora un giudizio determinativo, il quale mi dà la conoscenza di qualche cosa, nel secondo caso si ha un giudizio riflessivo che non mi dà alcuna conoscenza perché l’universale in esso contenuto non è un dato dell’ esperienza. Il giudizio riflessivo mi porta invece ad una riflessione, cioè a stabilire un rapporto fra me e l’oggetto e questa riflessione può assumere due forme : quella teleologica, se il giudizio riconosce una finalità nell’oggetto considerato; quella estetica, se riconosce un finalità nel soggetto che giudica. Ma il giudizio teleologico è illusorio, perché esso vorrebbe avere valore oggettivo, mentre il valore del giudizio è di per sé soggettivo. Il vero giudizio riflessivo rimane dunque quello estetico, di cui è riconosciuta la natura soggettiva (“Critica del giudizio”).
La Critica della ragion pratica si concludeva stabilendo la necessità di porre come guida dell'azione morale tre postulati, tra cui quello dell'esistenza di Dio. Questa affermazione comportava la risoluzione dell'etica in una religione, sia pure fondata sulla ragione, lasciando tuttavia irrisolto il problema della salvezza: « Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si concentra nelle tre domande seguenti: "Che cosa posso sapere?", "Che cosa devo fare?", "Che cosa ho diritto di sperare? ». La terza domanda apre la via al problema religioso mentre la risposta viene data dalla ragion pratica che mi dice che: «se io faccio quello che debbo fare, posso a buon diritto sperare che Dio ricompensi la mia vita virtuosa con il premio della felicità".
Fra religione e morale vi è quindi un'intima compenetrazione tale che il comportamento morale assume un aspetto religioso, non perché l'uomo morale faccia riferimento a un sistema di regole, di comandamenti che provengano dall'esterno a lui e neppure perché spinto da motivi che motivino ulteriormente il suo agire morale per il timore di un castigo divino o la speranza di un premio, ma perché vi è coscienza che esiste un perfetto accordo tra imperativo categorico e volontà di Dio che non potrà, come giudice giusto, far altro che premiarmi per il mio comportamento buono.
Dunque, la religione secondo Kant non è altro che «la conoscenza di tutti i doveri come i comandamenti divini...con la speranza di partecipare un giorno alla felicità nella misura in cui avremo procurato di non esserne indegni". La religione coincidente con l'etica si presenta come assolutamente razionale: non vi sarà bisogno né di dogmi, né di sacerdoti che li custodiscano, né di culti, né di chiese dove praticarli. Tutti coloro che si sottopongono alla morale autonoma degli imperativi categorici saranno i membri di una società spirituale che dà vita alla chiesa invisibile degli uomini di buona volontà. « La religione in cui io devo, prima, sapere che qualche cosa è un comando divino, per riconoscerla poi come mio dovere, è la religione rivelata (o che esige una rivelazione): quella, invece, in cui io devo sapere che qualche cosa è un dovere prima che la possa riconoscere come un comando divino, è la religione naturale » ("La religione entro i limiti della semplice ragione").
Per Kant anche il cristianesimo è una vera e propria religione naturale come, ad esempio, dimostra il dogma del peccato originale che in realtà si rifa alla tendenza naturale, inspiegabile razionalmente, dell'uomo a mettere in atto comportamenti contrari alla legge morale. Vi è infatti, una inclinazione naturale umana, che Kant chiama male radicale, che spinge l'uomo, pur consapevole razionalmente del bene, a fare irrazionalmente il male. Così la figura di Cristo che nella religione rivelata è configurato come essere trascendente non è altro che la personificazione ideale dell'uomo morale. La fede che si ha in quest'essere superiore è in realtà la fede che ha l'uomo di poter realizzare la legge morale. Tutti i dogmi cristiani sono la trasfigurazione simbolica delle verità naturali morali.


















domenica 2 dicembre 2012

L'IDEALISMO

La parola "idealismo" presenta una varietà di significati. Nel linguaggio comune si denomina idealista colui che è attratto da determinati ideali o valori e che sacrifica per essi la propria vita. In filosofia si parla di "idealismo", in senso lato, a proposito di quelle visioni del mondo, come ad esempio il platonismo e il cristianesimo, che privilegiano la dimensione "ideale" su quella "materiale" e che affermano il carattere "spirituale" della realtà "vera". In questo senso il termine idealismo viene introdotto nel linguaggio filosofico verso la metà del '600.
Ma l'idealismo costituisce anche il nome della grande corrente filosofica post kantiana che si originò in Germania nel periodo romantico ( XVIII Sec.) e che ha avuto numerose ramificazioni nella filosofia moderna e contemporanea di tutti i paesi. Dai suoi stessi fondatori, Fichte e Shelling, questo idealismo fu chiamato "trascendentale" o "soggettivo" o "assoluto" o “romantico”. L' aggettivo "trascendentale" tende a collocarlo con il punto di vista kantiano, che aveva fatto dell'"io penso" il principio fondamentale della conoscenza. La qualifica di "soggettivo" tende a contrapporre questo idealismo al punto di vista di Spinoza, che aveva bensì ridotto la realtà ad un unico principio, la Sostanza, ma aveva inteso la Sostanza stessa in termini di oggetto o di natura. L' aggettivo "assoluto" mira a sottolineare la tesi che l'Io o lo Spirito è il principio unico di tutto e che fuori di esso non c'è nulla: il pensiero è l’unica realtà ed il mondo è la continua creazione dell’attività pensante. Infine l’aggettivo “romantico” sta ad indicare il trasferimento dell’attività infinita dell’Io dal piano morale al piano estetico.

FICHTE

Nell’ “Io Puro”, nell’ “Io infinito” (o “Autocoscienza assoluta e universale”), soggetto ed oggetto coincidono. L’Io pone se stesso come causa di sè (tesi), quindi pone un non-Io, cioè si rapprenta in un oggetto diverso (antitesi), infine riconosce il non-Io e si fonde in esso ristabilendo la unità (sintesi). Un’Attività infinita in cui la natura è solo teatro. Nella Dottrina della Scienza del 1804 Giovanni Amedeo Fichte sostiene così che l'Io puro o assoluto è il fondamento del nostro sapere (e del nostro agire), ma è un Assoluto in sé e non un semplice dover essere. L'assoluto è per noi inaccessibile, e la filosofia non muove dall'assoluto ma solo dal sapere assoluto: l'assoluto cioè costituisce la fonte del sapere e la sua unità più profonda, ma esso è anche il limite del sapere, il punto in cui questo si annichila. La ragione non può mai uscire da sé stessa per comprendere la sua origine, che rimane quindi non comprensibile. Dice Fichte: «Il fondamento della verità non risiede nella coscienza, ma assolutamente nella verità stessa. La coscienza è soltanto il fenomeno esterno della verità»; in altre parole, essa è solo emanazione della verità, un indicatore di questa, non la verità stessa. Nell'Introduzione alla Vita beata, Fichte interpreta il suo idealismo alla luce del Vangelo di Giovanni: il Logos di cui parla l'evangelista, cioè il Sapere, la Coscienza divina, è l'immediata e diretta espressione di Dio, che è l'assoluto. Il Logos è intermediario tra Dio e il mondo, e l'uomo non può unirsi a Dio Padre direttamente, ma solo tramite il Logos, il mediatore. Per giungere a questa unione la ragione deve riconoscersi per quello che è, cioè semplice esteriorizzazione dell'assoluto, fenomeno espressione non di sè, e deve quindi cancellarsi negando se stessa. Grazie a questo processo di auto-umiliazione è possibile elevarsi e giungere alla visione estatica dell'Uno. È evidente l'influsso neoplatonico della teologia negativa di Plotino su quest'ultima fase dell'idealismo di Fichte, che voleva comunque essere per lui solo un approfondimento e non una revisione. Tuttavia, in precedenza nel“Profilo delle particolarità delle dottrine della scienza” Fichte aveva affermato che Dio non va inteso come persona metafisica ma come ordine del mondo e venne accusato di ateismo.

SHELLING

Federico Guglielmo Schelling si occupò inizialmente soprattutto di Emanuele Kant e Giovanni Amedeo  Fichte. La sua prima dissertazione L'io come principio della Filosofia (1795) era molto vicina alle idee di Fichte. Schelling mantiene infatti il motivo fichtiano del primato della filosofia pratica, come attività articolata in tre momenti: espansione creativa e infinita dell’Io, produzione inconscia di un limite che vi si contrappone, presa di coscienza e superamento di una tale auto-limitazione tramite l’agire etico; Schelling le dà però una diversa connotazione, nella quale anche il momento del non-Io viene valorizzato. Non più solo l'idealismo, ma anche il realismo viene dunque giustificato, nel tentativo di dare organicità e coerenza al kantismo su un piano ontologico. Influenzato da Spinoza, finisce così per conciliare il criticismo con il dogmatismo: questi due sistemi filosofici, che a prima vista sembrano inconciliabili, sono in realtà convergenti, perché l'uno parte dal soggetto, l'altro dall'oggetto, mirando entrambi al loro punto di unione. Ma partendo ciascuno da un punto di vista unilaterale, rischiano di smarrire il principio ad esso complementare: soggetto e oggetto infatti sono una realtà sola, visibile ora in un verso, ora nell’altro, ma comunque non scomponibile. Dialetticamente infatti un soggetto è tale solo in rapporto a un oggetto, e viceversa. Compito della filosofia è allora raggiungere l'Assoluto, inteso, alla maniera di Plotino e Cusano, come l'Uno nel quale gli opposti coincidono, e situato al di là del processo conoscitivo, cioè di quella conoscenza puramente teoretica che in quanto tale comporta opposizione con l'oggetto reale della propria indagine ed è perciò limitata e finita. L'Assoluto è inconoscibile perché conoscere significa collegare, relazionare qualcosa con altro da sé; ma poiché l'Assoluto ha già tutto dentro, non ha un termine di riferimento esterno con cui possa relazionarsi; tuttavia va ammesso, con un'autocoscienza immediata che è la fichtiana intuizione intellettuale, perché altrimenti si rimane nella contrapposizione di soggetto e oggetto, che è una contraddizione logica. La reciproca complementarietà di questi due termini opposti, però, si realizza come piena identità solo nell’azione pratica, mentre sul piano teorico si resta nel dualismo tra criticismo e dogmatismo, e il finito può accedere all’infinito solo negando se stesso. Il motivo di questa antitesi tra identità e dualismo, teoria e pratica, finito e infinito, costituisce secondo Schelling il problema centrale di ogni filosofia. Per superarlo, come spiega nel Panorama della più recente letteratura filosofica, occorre postulare che l’assoluto non sia né infinito, né finito, bensì l'originaria unione dell'infinità e della finitezza: il soggetto infatti, cioè lo Spirito infinito, è pura attività soggettiva, ma un’attività è tale solo in quanto produce un’azione, cioè si fa oggetto. E a sua volta l’oggetto, che è spinozianamente la natura, ha bisogno di un soggetto o una ragione che lo ponga. Così da un lato lo Spirito, conoscendo se stesso, risulta condizionato da se stesso, e perciò si auto-limita, diventando finito; d'altra parte, nella sua attività è al tempo stesso incondizionato, non avendo nulla fuori di sé. Lo Spirito si riflette nella Natura che è dunque spirito pietrificato. La loro unione immediata è il vero Assoluto, in quanto ha in sé la soggettività e l’oggettività, l’essere e il pensiero, il finito e l’infinito, spirito e materia, attività e passività; esso è l’Indifferenza di Natura e Ragione. Per l’importanza attribuita all'arte come punto di fusione di questi due estremi, l'Idealismo di Schelling sarà detto estetico. Ma come si spiega che dall'unità assoluta dello Spirito si passa alla frantumazione totale della realtà? La filosofia di Schelling, da questo momento in poi, è interamente orientata a rispondere a questa domanda: nei primi anni dell'Ottocento, Schelling ritiene di poter fornire una risposta riprendendo la filosofia panteista di Giordano Bruno, la quale aveva insistito in modo particolare su come l'uno si potesse articolare nella molteplicità. Ed è in Bruno che Schelling trova una prima soluzione al problema: si tratta della soluzione della caduta . Il passaggio dall'uno alla molteplicità viene cioè spiegato come una sorta di decadenza (caduta) dai livelli più alti della realtà ai più bassi.
In chiave religiosa, Schelling intende la caduta come una specie di peccato originale che ha portato l'uno a spaccarsi in una miriade di frantumi; oltre alla tradizione religiosa, riprende anche elementi di remota ascendenza anassimandrea, insistendo sul fatto che vi sia stata una disarticolazione causata dall'aver commesso colpe. Da questo momento, il pensiero schellinghiano si avvita su speculazioni sempre più complesse di ordine mistico-religioso, con il recupero delle riflessioni di Böhme (pensatore seicentesco che mescolava alchimia e filosofia nel tentativo di giustificare il passaggio dall'uno al molteplice). Ed è con queste riflessioni che si entra nella fase della Filosofia della libertà , caratterizzata dalla rinuncia al panteismo e dalla netta accettazione del teismo: alla natura divina si sostituisce cioè il Dio-persona. Resta però il problema della caduta, strettamente connesso a quello del male. E' un problema a prima vista insormontabile, poichè, se vi è un unico principio da cui tutto deriva, allora il male deve per forza derivare da esso. La soluzione adottata in questo periodo da Schelling, sulle orme di Böhme e dello stesso Platone, consiste nell'ammettere un dualismo nel principio (Dio) . Il male che pullula nel mondo, deve per forza derivare, come ogni altra cosa, dal decadimento del principio e di conseguenza Schelling riconosce due aspetti distinti in Dio: fondamento ed esistenza. Sullo sfondo di queste riflessioni vi è la convinzione, tipicamente romantica, che il principio supremo sia dinamico, un qualcosa in fieri , la cui natura stessa è il divenire, poichè esso è vitale. L'esistenza di Dio, spiega Schelling, è essa stessa una sorta di prodotto, in quanto Dio esiste venendo fuori da un fondo oscuro (fondamento), una sorta di origine presente in Dio ma da cui Dio stesso viene fuori. In questo senso Dio è un' esistenza (dal latino exsisto , 'vengo fuori'), ovvero un venir fuori dal suo stesso fondamento oscuro: la luce emerge dalle tenebre , dice metaforicamente Schelling, che in questo modo trova in Dio stesso (nel suo fondo oscuro) il fondamento del male. Molte volte Schelling parla del fondamento di Dio come egoismo di Dio , alludendo al rimanere dentro di sè di Dio in modo egoistico, senza venir fuori (ovvero senza esistenza). A livello di Dio, però, la distinzione tra fondamento (tenebre) ed esistenza (luce) non si connota ancora esplicitamente come distinzione tra bene e male, poichè sarebbe ridicolo ammettere la presenza del male in Dio. Dunque Schelling, ammettendo il dualismo in Dio e distinguendo tra esistenza e fondamento, non dice che in Dio c'è il male, bensì che in Dio c'è il principio del male, del decadere, del frantumarsi della realtà e, in ultima istanza, della possibilità di scelta tra bene e male: e proprio per questo la filosofia di questo periodo è designata col nome di Filosofia della Libertà. Di sfuggita, si può notare che nella storia secondo Schelling (e anche secondo Hegel) si manifesta Dio stesso. Con la Filosofia Positiva si resta su un terreno ancora più religioso: Schelling ripensa alla filosofia dell'ormai defunto Hegel e alle altre fiorite in quegli anni e le definisce filosofie negative , contrapponendo ad esse la nuova filosofia da lui stesso elaborata in quegli anni: la Filosofia Positiva. Si tratta di filosofie negative nel senso che sono limitate dall'aver chiarito l'essenza ma non l'esistenza: hanno cioè spiegato il quid est (che cosa è) ma non il quod est (il fatto che una cosa esista), per dirla con un'espressione scolastica. Sì, perchè una cosa è dire che cosa è il libro, un'altra cosa è dire che il libro esiste: le filosofie di quegli anni, nella prospettiva schellinghiana, si son limitate a spiegare che cosa fosse il libro, dando per scontato che esistesse. E' come se tali filosofie avessero chiarito che cosa sono le cose con l'uso della ragione, dando per scontato che esse esistessero. Pur potendo chiarire l'essenza delle cose, nota Schelling, la ragione non potrà mai motivarne l'esistenza, poichè essa dipende da un atto di volontà creatore da parte di Dio: le cose esistono poichè Dio ha deciso che esistessero, in base ad un atto libero, il quale (proprio perchè libero) sfugge ai dettami della ragione. Con la pretesa di spiegare ogni cosa con la sola ragione, le filosofie negative han potuto render conto esclusivamente delle essenze, ossia di ciò che è necessariamente. Ma se l'essenza dell'uomo consiste necessariamente nell'avere due gambe, due occhi e una testa e può essere colta dalla ragione, la sua esistenza , viceversa, dipende da un atto assolutamente libero da parte di Dio. Un atto libero non sarà mai razionalmente spiegabile, sicchè l'esistenza delle cose non la si è mai spiegata tramite la ragione: e Schelling scocca i suoi dardi velenosi soprattutto contro Hegel, il cui errore più grande consiste non nell'aver spiegato razionalmente l'essenza della realtà, ma nell'aver preteso di dedurre l'esistenza delle cose dalla loro essenza. Hegel era cioè convinto che, partendo dall'essenza delle cose, da essa potesse derivare l'esistenza del mondo. Ma Schelling critica aspramente questa posizione, contrapponendo ad essa quella secondo cui dall'essenza dell'uomo non non deriva mai l'esistenza, la quale, al contrario, nasce da un atto libero di creazione da parte di Dio, atto che, proprio in quanto libero, sfugge alla ragione . Ecco dunque che Schelling si propone di integrare le filosofie negative con l'elaborazione di una filosofia positiva che non si limiti ad indagare sulle condizioni negative della realtà (l'essenza), ma anche su quelle positive (dal latino positum , 'posto' dall'atto libero di Dio), ovvero sull'esistenza. La soluzione che dà Schelling è che la filosofia positiva parta non dall'impiego della ragione, ma dall'accettazione del dato di rivelazione: se una persona è libera, del resto, la ragione non può dirmi nulla su ciò che egli farà o non farà, con la conseguenza che l'unica maniera per conoscere ciò che farà o non farà è che ce lo dica lui (rivelazione). Questa è la filosofia positiva di Schelling, divisa in filosofia della mitologia e filosofia della rivelazione . Pur essendo profondamente cristiano, Schelling non ritiene che il cristianesimo sia la sola religione 'vera' rivelata da Dio, bensì sostiene che pure le altre sono state rivelazioni divine, seppur indirette, quasi come se Dio fosse stato colto con la capacità metapoietica, come cioè se si fosse rivelato all'uomo con la mitologia pagana (Filosofia della mitologia). Ed è però ai Cristiani che si è rivelato direttamente (filosofia della rivelazione). Sull'onda di queste speculazioni, Schelling elabora una filosofia della storia triadica, di impostazione religiosa. Come Fichte, anche Schelling ha un esito extra-filosofico: egli esce piuttosto in fretta dal tracciato filosofico per rifugiarsi prima nell'arte e poi nella religione. Si può notare come Schelling, pur non essendo un esistenzialista, abbia aperto spiragli in quella direzione : non a caso Kierkegaard, precursore dell'esistenzialismo, resterà colpito dai suoi insegnamenti, anche se riterrà Schelling troppo oscuro e nebuloso. In effetti, comincia ad affacciarsi timidamente sulla scena filosofica l'idea (che sarà tipica dell'esistenzialismo) dell'irriducibilità dell'esistenza all'essenza, nella convinzione che esista una dimensione della realtà non riconducibile all'essenza e alla ragione.

HEGEL

Per Federico Hegel la realtà non è “sostanza”, ma Soggetto e Spirito ed è perciò attività, processo, movimento. Già Fiche aveva concepito l’Io come attività, ma per Hegel si trattava di un processo irrisolto, in quanto l’Io fischiano non riusciva mai a superare interamente il Non-Io, ossia il proprio limite. Rimaneva, allora, in Fiche, la scissione e l’opposizione tra Io e Non-Io, soggetto e oggetto, infinito e finito. Schelling aveva cercato di superare queste scissioni con la sua filosofia dell’identità, ma per Hegel la concezione dell’Assoluto come Identità originaria di Io e Non-Io,soggetto e oggetto, finito e infinito era vuota e artificiosa. Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel afferma che l’Assoluto schellinghiano è come “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. La posizione di Hegel è chiara: lo Spirito si autogenera, generando contemporaneamente la propria determinazione, e superandola pienamente. Lo Spirito è infinito nel senso che è una continua posizione del finito e superamento del finito stesso. Lo Spirito in quanto movimento produce via via i contenuti determinati e quindi negativi (omnis determinatio est negatio: la determinazione si definisce per quello che non è; il fenomeno determinato esclude da sé altri fenomeni, altre proprietà diverse dalle proprie); l’infinito è il positivo che si realizza mediante la negazione di quella negazione che è propria di ogni finito, è il superamento del finito. Allora lo Spirito infinito hegeliano è come un circolo, in cui il finito è sempre posto ed è sempre dinamicamente superato. Ogni momento del reale è indispensabile per l’Assoluto, perché Esso si realizza in ciascuno e in tutti questi momenti (es. bocciolo-fiore-frutto: in questo processo ogni momento è essenziale all’altro e la vita della pianta è questo stesso processo che pone via via i vari momenti, e via via li supera). Hegel sottolinea che il movimento proprio dello Spirito è il “riflettersi in se stesso”. E in questa riflessione circolare si distinguono tre momenti: 1) ESSERE IN SE’ ; 2) ESSERE FUORI DI SE’; 3) ESSERE IN SE’ E PER SE’ (il seme è in sé la pianta, ma deve morire come sè, quindi uscire fuori di sé, per diventare la pianta). Questi tre momenti sono denominati: IDEA, NATURA, SPIRITO. L’IDEA, che è il Logos, ha in sé il principio del proprio svolgimento e, prima esce fuori di sé divenendo NATURA, poi supera questa alienazione e ritorna a sé medesima come SPIRITO. Si comprende allora la triplice distinzione della filosofia hegeliana: 1) LOGICA : studia l’ IDEA IN  SE'  (LOGOS); 2) FILOSOFIA DELLA NATURA : studia l’ IDEA FUORI DI SE' (NATURA); 3) FILOSOFIA DELLO SPIRITO : studia l’IDEA che ritorna a sé o l' IN SE’ E PER SE’ (SPIRITO).
Nella Filosofia del diritto è presente un’altra tesi hegeliana assai celebre: “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”. Questo significa che la realtà è lo stesso svilupparsi dell’Idea, che tutto è razionale, che ogni cosa è momento dello sviluppo dell’Idea.
Per Hegel la dialettica è la legge suprema del pensiero e del reale. Egli polemizza contro la pretesa romantica di cogliere immediatamente l’Assoluto. Questo non si coglie col sentimento, con l’intuizione o con la fede, ma con un metodo “scientifico”, quello della dialettica. Il nome di Hegel nel pensiero contemporaneo è strettamente legato al concetto di dialettica; eppure alla dialettica il filosofo tedesco non ha dedicato nessuno scritto specifico. La dialettica non è certo una scoperta di Hegel, ma occupa un posto cospicuo nella storia della filosofia, dove però è stata generalmente intesa solo come uno strumento molto efficace del pensiero e via via diversamente valutata a seconda che fosse considerata la forma più alta di sapere (Platone), oppure identificata con un tipo di sillogismo fondato su premesse non necessarie, ma soltanto verosimili(Aristotele). Con Kant, poi, la dialettica era stata collegata alla natura stessa della ragione, considerata come facoltà delle idee caratterizzata dal perenne contrasto tra la tensione verso l’oggetto delle idee e l’impossibilità di coglierlo, essendo la conoscenza umana limitata al fenomeno. La novità del pensiero hegeliano sta nel concepire la dialettica non come un procedimento del pensiero esterno alla realtà, ma come una legge interna e necessaria, tanto del pensiero quanto della realtà. Il cuore della dialettica è il movimento, giacchè il movimento è la natura stessa dello Spirito. La dialettica non è altro che uno sviluppo che tende al concreto mediante il superamento dell’astrattezza insita in ogni opposizione. Concreto, per Hegel, è ciò che rappresenta il compimento di un processo, l’unità di opposti, l’uno bisognoso dell’altro per realizzarsi. Perciò la logica hegeliana si contrappone alla logica tradizionale fondata sul principio di identità e non contraddizione, accusandola di considerare astrattamente gli opposti, e perciò di non poter giungere alla mediazione, ossia a cogliere l’unità degli opposti nella loro sintesi. Il movimento dialettico si configura come processo triadico di: TESI, ANTITESI e SINTESI. Il 1° momento (TESI) è detto il lato astratto e intellettivo; il 2° (ANTITESI) è detto il lato dialettico in senso stretto o negativamente razionale; il 3° (SINTESI) è detto il lato speculativo o positivamente razionale. Il 1° momento è quello della determinazione come entità statica e irrelata. Il fenomeno determinato esclude da sé altri fenomeni e si presenta come un’entità statica. L’intelletto è, infatti, la facoltà che astrae concetti determinati, che distingue, separa e definisce. L’intelletto vede solo una pluralità di determinazioni rigide, differenti l’una dall’altra, perciò resta chiuso nell’astratto irrigidito e rimane vittima delle opposizioni che esso stesso crea, distinguendo e separando. Il pensiero filosofico deve, quindi, andare oltre i limiti dell’intelletto. Il 2° momento è quello del rovesciamento della determinazione nel suo opposto. E’ il momento “negativo” della ragione, che consiste nello smuovere la rigidità dell’intelletto e dei suoi prodotti. Il pensiero razionale, superando quello intellettuale, vede che la negazione, oltre a dare alla determinazione stessa la sua qualità, ne mette in crisi la staticità e la chiusura, immettendola in un processo che oltrepassa il suo carattere isolato e irrelato. Hegel indica in questo processo l’aspetto specifico della dialettica: è la fase in cui la determinazione, scoprendosi unilaterale e limitata, tende a negarsi, a rovesciarsi nella determinazione opposta. Il 3° momento è quello dell’unificazione degli opposti. E’ questa la funzione positiva della ragione: concepire non l’opposizione, ma l’unità delle determinazioni che si contraddicono, ossia cogliere il positivo che emerge dalla sintesi degli opposti. La dialettica, come la realtà in generale, è questo movimento circolare che non ha mai posa. Hegel, da romantico, panteizza la eretica “teologia del processo”, o “teologia del riassorbimento” (Plotino), secondo la quale prima della creazione l’uomo (collettivisticamente, come specie, non come singoli individui) viveva in uno stato di felice unione cosmica con Dio e con la Natura; la creazione ha determinato separatezza (alienazione), ma una legge necessaria della storia condurrà ad una riunificazione dell’uomo con Dio ad un più alto e perfezionato livello. Per Hegel Dio è in realtà l’Uomo. L’Uomo - meglio, l’Uomo-Dio, chiamato da Hegel anche “Spirito del mondo” o “Sé del mondo” – creò il mondo (ecco in che senso Hegel è panteista, l’Uomo-Dio è anche il mondo). Fece ciò non per benevolenza, ma per il bisogno fortemente sentito di diventare conscio di se stesso come un sé del mondo. Questa esternalizzazione di se stesso avviene attraverso la creazione della natura, e, successivamente, attraverso la storia umana. L’imperfezione dell’Uomo consiste nella sua incapacità di capire che egli è Dio. Egli è alienato, separato dalla fondamentale consapevolezza che egli e Dio sono un’unica cosa. “Alienazione” dunque significa separazione dell’Uomo da Dio, finitezza; l’Uomo (lo Spirito) percepisce il mondo come ostile perché (ancora) non si rende conto che il mondo è egli stesso. La storia allora è l’inevitabile processo attraverso il quale l’Uomo-Dio sviluppa le sue facoltà, consegue le sue potenzialità e migliora il suo sapere; fa ciò attraverso la civilizzazione; fino al giorno finale in cui acquisirà la Conoscenza Assoluta, cioè la piena conoscenza e consapevolezza che egli è Dio. A quel punto, l’Uomo-Dio raggiunge la sua potenzialità, diventa un essere infinito e senza limiti; quindi pone fine alla storia. La dialettica della storia si svolge in tre fasi fondamentali: la fase della pre-Creazione; la fase della post-Creazione, caratterizzata dallo sviluppo con alienazione; e la fase finale del riassorbimento nello stato di infinitezza e auto-consapevolezza assoluta, che pone fine al processo storico. L’elemento metodologico della filosofia politica di H. è la dialettica, che egli ritiene in grado di raggiungere negli studi sociali conclusioni nuove e altrimenti indimostrabili. La storia offre un metodo specifico che può essere applicato allo studio di argomenti sociali quali il diritto, la politica, l’economia, la religione, la filosofia, la morale. Tale metodo non è un miglioramento della ricerca empirica; è un modo di derivare dall’evoluzione storica delle norme di valore (scientifiche o etiche), per mezzo delle quali poteva essere determinato il significato dei singoli stadi di tale evoluzione. Il metodo storico voleva dire una filosofia della storia, cioè la scoperta di una legge generale dello sviluppo della cultura, applicabile a qualsiasi aspetto di una società; per mezzo di essa si poteva ad esempio tracciare una linea fra popoli progrediti e popoli arretrati. Tale criterio fu molto utilizzato nell’‘800. Bisogna portare alla luce questo ordine, nascosto in un ammasso di fatti, riuscendo così a distinguere la corrente principale dal transeunte, il necessario dal non necessario, il “reale” dall’ “apparente”. Nella storia gli individui e i loro fini consapevoli contano poco; l’individuo è solo una variante accidentale della cultura che lo crea, una materializzazione parziale e imperfetta di forze sociali, una mera cellula dell’organismo umanità. La realtà e le cause efficienti della storia sono forze generali e impersonali, non eventi o singoli individui. La storia della civiltà è la realizzazione continua e progressiva nel tempo dello spirito universale.

SCHLEGEL

Di grande rilievo risulta l'opera filosofica di Federico Schlegel, il fondatore dell’dealismo romantico. Nel saggio giovanile Sullo studio della poesia greca egli introduce un'importante distinzione tra poesia oggettiva e poesia interessante che riprende sostanzialmente quella, fatta da Schiller, tra poesia ingenua e sentimentale. Anche Schlegel é convinto che la poesia moderna (interessante) non si debba semplicemente contrapporre a quella classica (oggettiva), ma possa recuperare i valori dell'oggettività tramite un processo di riflessione su se stessa. Schlegel elabora pertanto, ispirandosi anche a Kant, l'idea di una poesia trascendentale, o "poesia della poesia" in cui si ricompone la frattura tra la spontanea unità della poesia oggettiva classica e le consapevoli divisioni di quella moderna. Un altro importante aspetto del pensiero di Schlegel é la teorizzazione del concetto di ironia, concetto tipèicamente romantico. In ambito estetico, in cui trova la prima formulazione romantica, l'ironia indica il rapporto di inadeguatezza tra l'infinità dell'artista creatore, concepito come soggetto assoluto, e la finitezza dell'opera d'arte e del mondo fenomenico in cui essa si pone. Ma il concetto viene a indicare, più in generale, l'atteggiamento di chi, comprendendo il carattere relativo degli aspetti finiti dell'esistenza, coglie l'incomparabile superiorità dell'infinito che é in sè. Così Schlegel definisce ironia il modo di sentire di "chi sovrasta ogni cosa, di chi si eleva infinitamente al di sopra di ogni cosa finita, anche sopra la propria arte, virtù e genialità". Segno dell'incidenza della cultura romantica sul costume dell'epoca sono due opere di Schlegel filosoficamente minori, ma molto famose: il saggio su Diotima (1795) e il romanzo Lucinde (1799). In questi scritti, Schlegel elabora una dottrina dell'eros in cui si riconosce il diritto della donna a cercare la propria realizzazione nella passione. Soprattutto Lucinde, che destò un grande scandalo, contribuì particolarmente a quiell'emancipazione della donna che nella cultura romantica era non solo teorizzata, ma anche praticata e che Nietzsche detesterà e avverserà con tutte le sue forze. Il modello autobiografico di Lucinde é, infatti, Dorothea Mendelssohn, figlia del filosofo illuminista Moses Mendelssohn, la quale si era separata dal proprio marito per sposare lo stesso Schlegel.
Con la morte di Novalis (1801), il circolo di Jena si disperse. Schlegel tenne corsi privati a Parigi e a Colonia e nel 1808, dopo la conversione personale al cattolicesimo, si trasferì a Vienna mettendosi al servizio del principe di Metternich, uno dei maggiori esponenti della Restaurazione. Qui Schlegel diede vita ad un nuovo circolo, espressione ormai del tardo romanticismo tedesco, fondando la rivista Concordia (1820-1823). Quest'ultima fase dell'attività del pensatore é contrassegnato politicamente dalla difesa della politica restauratrice e reazionaria condotta dal governo austro-ungarico a partire dal Congresso di Vienna e, sul piano filosofico, da un'evoluzione del suo pensiero in senso religioso e teistico. Il problema fondamentale di Schlegel diventa allora quello di elaborare una filosofia che sostituisca l'idealismo tedesco, da lui ricondotto ai quattro sistemi di Fichte e di Schelling da un lato (espressioni dell'aspetto teoretico dell'idealismo), e di Kant e Jacobi dall'altro (che rappresentano il versante pratico, il tentativo di passare dalla filosofia alla fede con un "salto nel buio"). Ma nè il metodo razionale-speculativo, nè il ricorso all'atteggiamento fideistico possono, secondo Schlegel, cogliere l'assoluto nella sua pienezza. Per fare ciò bisogna attingere l'elemento della personalità come principio della vita stessa: l'ultima parola di Schlegel é quindi la rivalutazione di un atteggiamento religioso che fa leva sul teismo, ossia su una concezione di Dio come persona e come vita. Quest'ultimo periodo del pensiero di Schlegel é espresso in cicli di lezioni dedicate alla Filosofia della vita (1827), alla Filosofia della storia (1828) e alla Filosofia del linguaggio e della parola (1830).

NOVALIS (FEDERIC VON HARDENBERG)

L'idea romanticista di Federico Novalis ha una buona parte delle sue radici nella rilettura di Plotino e del pensiero neoplatonico in generale. Di contro al trionfo del pensiero sistematico, vince in lui un pensiero fortemente orientato al frammentismo, poetico e saggistico. Da questo punto di vista è un atteggiamento simile a quello di Leopardi. Sua idea centrale è il concetto di «immaginazione creatrice», ossia la capacità che ha l'immaginazione di forza plastica. Novalis contrappone alla logica dell'intelletto, arida e razionalistica, la logica dell'immaginazione che egli chiama "fantastica". La poesia, quando è veramente tale, ossia opera del genio ispirato, ci fa comprendere la realtà dal punto di vista del tutto, secondo un modello organicistico che affonda le sue radici nella Critica del Giudizio di Immanuel Kant. Passato e immaginazione sono due strumenti messi al servizio di una revisione dell'idea di progresso e di storia, che si concentra attorno alla nuova idea di Europa che Novalis presenta: un' Europa fortemente eurocentrica, unitarista, forte e germanica, una visione che non sarà senza conseguenze nella successiva assunzione dell'irrazionalismo romanticista da parte della mitografia reazionaria. Per capire meglio Novalis non si può prescindere dalla formazione rigidamente pietistica ch'egli ricevette in famiglia. Il padre, il barone Erasmus, si sentì attratto da quella forma di religiosità protestante sorta in polemica con il luteranesimo istituzionale chiamata pietismo, che ebbe il suo centro di diffusione a Herrnhut (Dresda). Questa fu la via che imboccò il padre di Novalis, dopo essere rimasto scosso per la perdita della prima moglie. Quel lutto segnò così in modo decisivo non solo la sua vita, ma anche quella della famiglia che si costruì più tardi; il barone infatti, profondamente convinto della ragionevolezza di quella dottrina, per punizione, si costrinse, e costrinse i famigliari, a vivere una vita rigorosa, severa che sfociò nel progressivo isolamento. Nonostante ciò l'esperienza religiosa di Novalis non sfociò nel rifiuto per essa: si fece esperienza poetica; ma quest'ultima porta ancora evidenti tracce della concezione pietistica e, più in generale, mistica della conversione, che è frutto di un'illuminazione e inizio di una strada che porta all'assoluto. La struttura mentale di Novalis è quella di un mistico: certe immagini che egli adopera, certe metafore linguistiche, fanno parte della letteratura mistica. Prima di abbandonare questo discorso sul pietismo, è opportuno accennare ad uno sviluppo importante che esso ebbe nella storia dello spirito e della letteratura. La pratica pietistica dell'esame di coscienza, che aveva portato alla stesura di tante "Confessioni" aveva dato vita ad un idealismo romanzesco che sembra essere a giusto titolo una delle forme germaniche e protestanti del bell'ingegno e del preziosismo: v'era un tipo intellettuale e sentimentale nella società tedesca, che tentava di amalgamare le esigenze del cuore con il pensiero filosofico. Era un tipo presentato da Jacobi nel romanzo Woldemar, appartenente a una classe sociale tale per cui risultava esonerato o quasi dalle necessità dell'esistenza e poteva dedicarsi con agio all'analisi interiore e ai godimenti intellettuali. Nel romanzo il protagonista e la partner godono del proprio cuore più che della passione realmente provata, adorano se stessi nell'oggetto amato e nell'amore cercano soprattutto il loro proprio metodo per amare, vale a dire un'idea raffinata ed esaltata di se stessi. Si può quindi dire che sul piano mondano il pietismo si trasformi in un'educazione mistica del sentimento. In uno dei suoi Frammenti Novalis scrisse: "Bisogna nobilitare la passione utilizzandola come un mezzo, conservandola a forza di volontà per farne il veicolo di un'idea bella. Per esempio di un'alleanza stretta con un "io" amato". È stretta la linea di confine che separa l'intenzione di coltivare la propria sensibilità per poter provare sentimenti più elevati, dall'intenzione di abbandonarsi ai più raffinati piaceri sensuali dell'immaginazione. E la passione di Novalis verso Sophie, la fidanzata bambina, rientra perfettamente in questo discorso: non è tanto rivolta al suo naturale oggetto (Sophie) quanto è prodotta piuttosto dal gioco d'immaginazione che nasce dall'esaminare, scrutare, indagare continuamente se stessi. Quest'amore quindi sarebbe "un voluttuoso dell'immaginazione più ancora che dei sensi". In effetti dagli Inni e dai Canti spirituali, come dagli Aforismi, traspare una sottile malia erotica: "Cos'è la fiamma? Uno stretto amplesso il cui frutto si espande in una voluta voluttuosa". V'è una mistica erotica anche nella morte. Tutto, in definitiva, può trasformarsi in voluttà; tale è la morale segreta del sensuale mistico. È indubbio quindi che in Novalis debba esser considerata anche questa faccia del misticismo sensuale, diretta ma non necessaria derivazione di quello religioso-pietistico. La contaminazione tra sacro e profano si mantenne però quasi sempre in Novalis entro limiti accettabili e non raggiunse mai quegli estremi morbosi cui arrivarono altri scrittori romantici

SCHLEIERMARCHER

E’ il fondatore del Romanticismo religioso. “La religione non è altro che il sentimento dell’infinito”. così scrive nei Discorsi sulla religione. Schleiermacher riscuote ancora oggi molto interesse, in particolar modo per i suoi scritti di ermeneutica, che furono ripresi da Dilthey (Schleiermarcher: "Etica ed ermeneutica).
Federico Daniele Schleiermacher intende l'ermeneutica come dottrina dell'arte o tecnica del capire, la quale analizza le condizioni grazie a cui è possibile comprendere le manifestazioni dell'esistenza. Dato che ogni testo è, da una parte, prodotto particolare di un determinato autore, e, dall'altra, fa parte di un sistema linguistico comune, si delineano in primo luogo due modi di interpretazione: il metodo oggettivo (grammatico) comprende un testo attraverso la totalità della lingua; il soggettivo tramite l'individualità che l'autore stesso immette nel suo processo creativo. A ciò fa seguito una seconda distinzione fra un procedimento comparativo, che rivela il significato attraverso il confronto delle proposizioni nel loro contesto storico e linguistico, e uno divinatorio, che coglie il significato intuitivamente tramite l'immedesimazione. E' necessario che tali forme cooperino e si integrino in modo progressivo nel processo di comprensione.
L'etica di Schleiermacher è volta a conciliare i princìpi universali con la varietà dell'esistenza concreta, le esigenze individuali con quelle generali. Questi suddivide l'etica in tre ambiti: la dottrina della virtù, che considera la morale come una forza che ha sede in ogni individuo; la dottrina dei doveri, che ha per oggetto l'azione stessa, il cui principio universale è che ogni individuo deve produrre quanto più gli è possibile nella comunità per adempiere al suo compito morale complessivo; la dottrina dei beni, che indica i beni che, da un lato, risultano dal compito di conciliare intenti individuali con intenti universali (comuni), e, dall'altro, dal modo di agire della ragione nei confronti della natura.
La ragione è ciò che conferisce una forma alla natura (organizzazione) e che modella la natura a proprio simbolo (simbolizzazione), attraverso il quale questa diviene oggetto di conoscenza. Il bene si consegue se la natura diventa completamente organo e simbolo della ragione, e se individuale e universale si equilibrano. Il combinarsi degli ambiti d'azione dà origine a quattro istituzioni morali: lo Stato, la libera aggregazione, la scienza e la Chiesa. La religione non si fonda sulla razionalità o sulla moralità, ma sul sentimento di assoluta dipendenza (Schleiermarcher: La fede cristiana).





L'EMPIRISMO E LO STORICISMO

L' Empirismo (dal greco εμπειρια - esperienza) è la corrente filosofica, nata nella seconda metà del Seicento in Inghilterra, secondo cui la conoscenza umana deriva esclusivamente dai sensi o dall'esperienza. Questo indirizzo filosofico si pose sul piano sensistico e materialistico come vera antitesi cartesiana. I maggiori esponenti dell'empirismo anglo-sassone furono John Locke, George Berkeley, e David Hume: costoro negavano che gli esseri umani avessero idee innate, o che qualcosa fosse conoscibile a prescindere dall'esperienza. L'empirismo si sviluppò in contrapposizione al razionalismo, corrente filosofica il cui esponente principale è stato Cartesio. Secondo i razionalisti, la filosofia dovrebbe essere condotta tramite l'introspezione e il ragionamento deduttivo a priori. Secondo gli empiristi, invece, si considera alla base del metodo scientifico l'idea che le nostre teorie dovrebbero essere fondate sull'osservazione del mondo piuttosto che sull'intuito o sulla fede. L'origine di ogni conoscenza è l'esperienza. Nessuna conoscenza è innata : alla base di ogni conoscenza c'è la sensazione che è il contatto del soggetto con l'oggetto.

Secondo HOBBES  il Dio immortale è l’autore della natura e della sua legge ("la guerra di tutti contro tutti”, imposta dalla difesa della corporeità di ciascuno contro la prevaricazione dell’altro), ma il vero Dio è il Dio mortale, cioè lo Stato (il Sovrano), il solo capace di garantire il rispetto del patto che gli uomini stringono fra loro per evitare l’ homo homini lupus ("Leviatano").

Secondo LOCKE  non si può concepire la realtà come prodotta dal nulla; non si può pensare al tempo senza l’eternità. Neppure è concepibile che ciò che non pensa, cioè la materia, produca da sé il pensiero. Dio non ci ha dato idee innate di sé, non ha stampato caratteri originali nel nostro spirito, nei quali possiamo leggere la sua esistenza; tuttavia, avendoci forniti delle facoltà di cui il nostro spirito è dotato, non ci ha lasciato senza una testimonianza di se stesso: dal momento che abbiamo senso, percezione e ragione, non possiamo mancare di una chiara prova della sua esistenza, fino a quando portiamo noi stessi con noi. Non c’è verità piú evidente che questa, che qualcosa deve esistere dall’eternità. Non ho mai sentito parlare di nessuno cosí irragionevole o che potesse supporre una contraddizione cosí manifesta come un tempo nel quale non ci fosse assolutamente nulla. Perché questa è la piú grande di tutte le assurdità, immaginare che il puro nulla, la perfetta negazione e assenza di tutte le cose producano mai qualche esistenza reale. Se, allora, ci deve essere qualcosa di eterno, vediamo quale specie di essere deve essere. E a questo riguardo è assolutamente ovvio ragionare che debba necessariamente essere un essere pensante. Infatti pensare che una semplice materia non pensante produca un essere pensante intelligente è altrettanto impossibile quanto pensare che il nulla produca da se stesso materia ("Saggio sull'intelletto umano").

Secondo BERKELEY «Esse est percipi», ossia "l'essere è essere-percepito", ossia: tutto l'essere di un oggetto consiste nel suo venir percepito e nient'altro. La teoria immaterialistica così enunciata sentenzia che la realtà si risolve in una serie di idee che, per essere considerate esistenti, hanno bisogno di essere percepite da uno spirito umano. È Dio, spirito infinito, che ci fa percepire sotto forma di cose e fatti le sue idee calate nel mondo. Per Berkeley l'unico scopo autentico della filosofia è quello di confermare e avvalorare la visione della religione: è Dio, infatti, l'unica causa della realtà naturale. Scrive nei "Commentari filosofici", che se l'estensione esistesse al di fuori della mente, o si avrebbe a che fare con un Dio esteso, oppure si dovrebbe riconoscere un essere eterno infinito accanto a Dio. Berkeley aderisce quindi all'immaterialismo ovvero alla dottrina per cui nulla esiste al di fuori della mente. La materia quindi non esiste ed esistono solo Dio e gli spiriti umani. Berkeley era contro l'esistenza delle idee astratte e fautore di un nominalismo radicale. Secondo l'irlandese infatti non esistono idee generiche o universali, ma semplici idee particolari usate come segni, appartenenti ad un gruppo di altre idee particolari tra loro affini. Per Berkeley non esistono sostanze, non esiste l'uomo od il cane, ma solo quell'uomo, questo cane... Gli oggetti che noi crediamo esistere sono in realtà delle astrazioni ingiustificate; non esistono oggetti corporei, ma soltanto collezioni di idee che ci danno una falsa impressione di materialità e sussistenza complessiva. Infatti noi conosciamo soltanto le idee che coincidono con le impressioni dei sensi. Proprio come in un sogno, noi abbiamo percezioni spazio-temporali relative ad oggetti materiali senza che questi esistano.
La dottrina di Berkeley esclude in virtù di questo principio l'esistenza assoluta dei corpi. Secondo il teologo irlandese tutto ciò che esiste è idea o spirito, quindi la realtà oggettiva non è che un'impressione data dalle idee. Berkeley nega la distinzione fra qualità primarie e secondarie, propria di John Locke, sostenendo che tutte le qualità sono secondarie, cioè soggettive, e rigetta anche l'idea di substrato, ovvero di materia. Se esistesse una materia, essa sarebbe soltanto un limite alla perfezione divina. In questo senso anche la scienza di Newton non ha altro valore che quello di una mera ipotesi, che ci aiuta a fare previsioni per il futuro, ma non ha alcun riferimento con la realtà materiale, che non solo non è conoscibile, ma non esiste affatto. Le idee, secondo Berkeley, vengono impresse nell'uomo da uno spirito infinito, cioè Dio. Lo stesso Dio si configura come la Mente infinita grazie a cui le idee esistono anche quando non vengono percepite.
Berkeley porta quindi alle estreme conseguenze l'empirismo di Locke, giungendo a negare l'esistenza di una sostanza materiale perché non ricavabile dall'esperienza, e recidendo così ogni possibile legame tra le nostre idee e una realtà esterna. Egli anticipa lo scetticismo di David Hume, ma se ne mette al riparo ammettendo una presenza spirituale che spieghi l'insorgere di simili idee dentro di noi, rendendocele vive e attuali, sebbene prive ormai di un fondamento oggettivo ("Dialoghi fra Hylas e Philoneus").

Secondo HUME  l’origine della fede nella divinità deve ricondursi al sentimento derivante dalla precarietà dell’esistenza, ed esprime insieme il timore e la speranza, e in ogni caso l’esigenza di controllare, sia pure indirettamente, i diversi ambiti dell’esistenza stessa. Per questo la prima religione è il politeismo, che riferisce a divinità diverse tutte le singole attività, i vari ambiti della vita. La religione è dunque, fondamentalmente, un sistema di sicurezza contro la precarietà della vita. Ha un carattere essenzialmente pratico e non teoretico. L’esistenza di Dio non può essere fondata su spiegazioni razionali, ma essa non deriva, secondo Hume, neppure dal bisogno di spiegare fatti naturali altrimenti incomprensibili, bensì da quello di dare una motivazione e un fondamento ai diversi ambiti di attività, ponendo ciascuno di essi sotto la tutela di un qualche potere intelligente. Egli spiega il passaggio dal politeismo al monoteismo come un rafforzamento di questa esigenza. Un Dio onnipotente costituisce una garanzia maggiore, ma perché possa essere considerato tale non può coesistere con altre divinità: di qui l’affermazione dell’unicità di Dio, connessa all’infinità degli attributi riferiti alla sua natura (infinita potenza, infinita bontà ecc.) ("Il tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali").

Lo Storicismo dal punto di vista filosofico nasce nella cultura romantica tedesca (il primo autore ad aver impiegato il termine è Novalis), per sottolineare la natura storica e progressiva della manifestazione della verità, frutto di una lenta maturazione che procede secondo una precisa logica di sviluppo. Il primo autore che presenti un simile modello teorico è Johann Gottfried HERDER nel mondo tedesco. Questo modello, non perdendo di vista la realtà, consolida la speculazione astratta in precisi fattori di vita.
Lo storicismo si sviluppò in Italia nella prima metà del Settecento come isolato indirizzo filosofico fondato su una nuova scenza dell'uomo ad opera di Giambattista VICO. Per il filosofo italiano la conoscenza del mondo fisico e del mondo metafisico è preclusa all'uomo il quale può conoscere solo il mondo umano, cioè la Storia
che è sua fattura e sua creazione. La tesi è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che tale cosa produce; il principio del verum-factum, proponendo la dimensione fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano che Vico inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha sempre un margine di imprevedibilità. Vico però si serve di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana trionfante in quel periodo. Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto ("Scienza nuova"). Ma se l'uomo crea la Storia, l'uomo non si è creato da sè. La causa prima della Storia è dunque in colui che è anche causa dell'uomo, cioè Dio ("De antiquissima italorum sapientia").