martedì 11 giugno 2013

STORIE DI DONNE NEL CORANO E NELLA TRADIZIONE ISLAMICA




"LA VERGINE MARIA E GESU'"
Miniatura persiana del XVII secolo


INTRODUZIONE
Nella società araba preislamica, la donna era disprezzata e vittima costante dell'oppressione; i suoi diritti erano calpestati ed i suoi beni negati. Era considerata un oggetto e non ereditava, dato che l'eredità spettava ai cavalieri, coloro che combattevano e tornavano col bottino. Peggio ancora: la si ereditava alla morte del marito, come si ereditava un semplice bene. Se il marito aveva avuto figli da un'altra donna, è il figlio maggiore che aveva diritto alla maggior parte dell'eredità, compresa lei: quindi non poteva uscire di casa che in compenso di un riscatto. L'uomo poteva sposare tante donne, quante voleva, ma la donna non aveva nessuna libertà per scegliere il marito, nè aveva diritti presso di lui. Questi aveva poteri quasi illimitati sulla donna. In quel periodo gli arabi addirittura non vedevano di buon occhio la nascita di una femmina; anzi la consideravano un malanno. Se gli si annunciava una femminuccia, il padre era preso da una grande tristezza come se una catastrofe gli fosse vnuta addosso. Gli arabi detestavano le femminucce al punto che le seppellivano vive. Era questa una pratica corrente in alcune tribù e le motivazioni di tale atrocità variavano dal timore del disonore, alla paura di una malformazione fisica. Il Corano stesso attesta una siffatta disumana consuetudine: “Quando s’annuncia ad uno di loro una figlia se ne sta corrucciato nel volto. Rabbioso. E s’apparta dalla sua gente vergognoso della disgrazia annunciata e rimugina fra sé  ignominiosamente se tenersela o seppellirla viva nella terra. Quant’è orribile il loro modo di giudicare” (Sura XVI : 58-59). La donna non godeva nemmeno dei suoi diritti naturali dato che perfino certi alimenti le erano vietati e riservati esclusivamente agli uomini: "Quel che nel ventre di questo bestiame è lecito per i nostri maschi è illecito per le nostre mogli” (Sura VI : 139). L'unico motivo di fierezza per la donna era la protezione che l'uomo poteva garantirle, l'esercizio della vendetta nel caso in cui fosse disonorata e la salvaguardia della sua nobiltà (cfr. Bernard Lewis: “Gli arabi nella storia”)
Indubbiamente nel mondo arabo l’avvento dell’Islam conferisce un tantino di dignità in più alla donna. In talune prescrizioni il Corano mostra di volerla onorare e rispettare. Innanzitutto, come si è visto, deplorando il costume di considerare una grande disgrazia la nascita di una figlia (v. Sura XVI citata), quindi riconoscendo il diritto della moglie alla dote, stabilendo il divieto per il marito di ereditare senza la di lei volontà, a meno che non abbia commesso una “turpitudine”; inoltre consentendole di rimaritarsi per riprendersi la dote (Sura IV:19); infine, limitando la facoltà di ripudio del marito a due sole volte (Sura II: 229). Tuttavia la sua condizione generale non migliorerà gran che. Nella Sunna di Sahih El-Bukhari (raccolta delle “consuetudini” e dei “detti” di Maometto) è scritto che il profeta Maometto afferma: “Ho visto che la maggior parte di coloro che sono nel fuoco dell’inferno sono donne… [poiché] esse sono ingrate verso i loro mariti e deficienti in intelligenza e religione. Esse sono pericolose e impure nei loro corpi e nei loro pensieri. Io non tocco la mano delle donne e bisogna impedire loro d’imparare a scrivere” (hadit 2541).
L’Islam resta riguardo alla donna una religione patriarcale, come dimostrano il Corano e la Sunna che affidano all’uomo il potere di governare la società e la famiglia e di prendere le decisioni. Esplicitamente il Corano sancisce il principio d’inferiorità sociale della donna: “Gli uomini sono superiori alle donne per le qualità per cui Dio li ha posti al di sopra di esse, e perché gli uomini impiegano i loro beni per dare la dote alle femmine. Le donne virtuose sono obbedienti e sottomesse; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nel loro letto” (Sura IV: 34). Questa inferiorità è sottolineata dalla circostanza che Allah nel dettare le sue prescrizioni si ri-volge direttamente agli uomini o impersonalmente ai “credenti”, anche quando detta le regole dirette a disciplinare i comportamenti delle donne. Le donne devono restare a casa ad educare i bambini ed a fare i lavori domestici, mentre gli uomini sono destinati al mondo esterno. Per di più esse hanno bisogno della protezione dell’uomo poiché da sole non hanno vita sociale. Dai versi 229-233 della II Sura e 128 della IV Sura si ricava che l’uomo può ripudiare la moglie in qualsiasi momento, mentre la moglie può farlo solo in caso di maltrattamenti o di indifferenza da parte del marito. Lo scopo del matrimonio è di rendere lecita la sessualità, sempre se esercitate nei periodi in cui la moglie si è “purificata dalle immonde mestruazioni” (Sura II: 222-223). Riguardo all’adulterio, sussiste la distinzione a seconda che esso sia commesso da un uomo o dalla sua compagna: la donna è confinata in casa fino a quando la morte non la chiami o che Allah decida diversamente, l’uomo invece sarà perdonato se avrà dato prova di pentimento (Sura IV: 15-16). Il valore della testimonianza di un uomo vale quella di due donne (Sura II: 282). I figli femmine ereditano la metà delle quote spettanti ai figli maschi (Sura IV: 11).
Altre conferme circa la inferiorità della donna rispetto all’uomo emergono: 1) dall’istituto della poligamia secondo cui l’uomo può sposare fino a quattro donne a meno che non tema di non essere giusto con loro, nel qual caso ne può sposare una sola o le ancelle in suo possesso (Sura IV: 3);  2) dalla pena di morte comminabile alla donna che abbia commesso “atti indecenti”, mentre all’uomo che si pente è riservato il perdono (Sura IV: 15-16);  3) dall’obbligo di modestia e riservatezza imposto alle donne, affinchè esse “abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne, non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d’un velo, e non mostrino le loro parti belle altro che ai mariti, ai fratelli… e non battano i piedi sì da mostrare le loro parti nascoste” (Sura XXIV : 31).
Nell'Islam, la Sharî'a (lett. "la Grande Via" o "la Via diritta") dettata da Allah nel Corano come un insieme di regole di buona azione nella vita di un musulmano, si integra con la tradizione profetica della Sunna, sviluppata nei secoli grazie all’attività interpretativa dei dottori della legge. Tale integrazione ha fatto sì che le norme della sharî'a quasi mai siano state applicate nella loro assolutezza, nemmeno durante l'era califfale. Ciò non ha sempre giovato allo status sociale della donna che talvolta ne è risultato migliorato rispetto alle prescrizioni coraniche (come, ad esempio, con riguardo alla disciplina del matrimonio), ma altre volte inasprito (come, ad esempio, con riguardo all’uso della copertura del volto, della escissione e delle mutilazioni sessuali al momento della nascita e della frequentazione delle moschee per l’esercizio della preghiera).

RASSEGNA DI PERSONAGGI FEMMINILI NEL CORANO
Al contrario della Bibbia, il Corano è poverissimo di riferimenti a figure femminili con un ruolo significativo nel sistema storico-religioso dell’Islam. Esse sono, per la mag-gior parte, tratte dalla tradizione ebraica ed indicate senza nome con intenti esclusivamente funzionali alla narrazione dei fatti, quali Elisabetta, moglie Zaccaria (Sura III: 40; XIX: 5-7); Maryam, sorella di Mosè (Sura XX: 40); Hawwa, moglie di Adamo (Sura II: 35; IV: 1; VII:12), Umm, madre di Mosè (Sura XX: 38; XXVIII: 7), Hanna, madre di Maria (Sura III: 35). Vi sono però poche altre figure ben descritte su cui vale la pena soffermarci.
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MARYAM, la madre di Gesù.
Essa occupa un posto unico e particolare nel Corano: è l'unica donna che viene chiamata per nome ed è detta: "eletta e purificata, eletta tra tutte le donne dell'universo" (Sura III: 42). È citata nel Corano più che nei singoli vangeli e, inoltre, Gesù viene sempre chiamato "'Isa, figlio di Maryam". I musulmani, conformemente ai versetti coranici, credono in tutti i profeti, da Abramo a Mosè, a Gesù, ed ai libri rivelati, quali l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Corano, in numerosi sure e versetti, parla diffusamente di Maria e di Gesù Cristo. Esiste addirittura una sura intitolata a Maria (Sura XIX), nella quale sono descritte le sue virtù e le sue qualità. Secondo la Sura III (35-37), la moglie di ‘Imran (Anna) chiese a Dio un figlio da dedicare al servizio del tempio di Gerusalemme. Poco dopo rimase incinta e fece voto di rinunciare alla tutela del figlio atteso e di dedicarlo appunto al servizio del tempio. Trascorso il tempo, partorì, contrariamente alle attese, una figlia femmina, che venne chiamata Maryam, la "dedita al culto e al tempio". Questo avvenne quando il suo consorte Imran, prima della nascita della figlia, aveva raggiunto la pace eterna. La madre consegnò quindi la neonata al tempio, dove il profeta Zaccaria se ne assunse la cura e dove Maria trascorse parte della vita nell’adorazione di Dio. Ogni qualvolta Zaccaria entrava da lei vi trovava pronta frutta fresca e le chiedeva: «Da dove proviene tutto questo?». Maria rispondeva: «Mi viene da Dio».
La Sura XIX  ("Sura di Maria"), dal versetto 16 al 33 narra appunto la storia di Maria, di come ella, lontano dalla famiglia, mentre era nel tempio, protetta da un velo, intenta al culto divino, vide apparire l’angelo di Dio, Gabriele, in forma umana. Maria avanti a lui si rifugiò in Dio, ma l’angelo le disse: «Io sono stato inviato dal tuo Creatore affinché ti doni un puro figlio». Maria con stupore disse: “Com’è possibile se mai ho avuto rapporti con un uomo e mai sono stata donna corrotta?”. L’angelo rispose: “È volontà certa di Dio, ché per Lui è facile far nascere senza il concorso di un padre tale figlio che sia segno divino e fonte di clemenza per l’umanità”. Maria concepì Gesù Cristo e al momento del parto si recò in luogo lontano. Le doglie del parto la spinsero ai piedi di un albero secco e disse: «Oh, fossi già morta e dimenticata». In quel mentre sentì una voce che diceva: «Non essere triste», e un rivo d’acqua scorse davanti a lei e un dattero fresco cadde dall’albero ai suoi piedi. La voce disse: “Bevi l’acqua, mangia il dattero e rallegrati del nuovo nato e quando incontrerai la gente di’: “Ho fatto voto di stare in silenzio”. Quelli della sua gente la vide mentre teneva in braccio il neonato e con stupore le si rivolsero contro dicendo che suo padre non era un uomo malvagio né la madre una peccatrice. Allora ella indicò il neonato ed essi dissero: “Come può mai parlare un neonato?”. Il neonato (Gesù) parlò e disse: “Io sono il Servo di Dio, che mi ha dato il Libro e fatto Profeta e reso fonte di benedizione ovunque io sia e mi ha prescritto la Preghiera nel rapporto con Dio e l’Elemosina al servizio del popolo di Dio e amorevolezza verso mia madre. Sia pace su di me il giorno in cui nacqui, il giorno in cui muoio e il giorno in cui verrò risuscitato a vita”. Così, Gesù dimostrò l’innocenza e la purezza della propria madre e presentò sé stesso, che era stato concepito senza padre, come Segno di Dio.
Confrontando il racconto coranico della nascita di Gesù con il racconto biblico, va sottolineato quanto segue: Imran e Anna desideravano un figlio, ma Dio diede loro una figlia a indicare che dal punto di vista dell’essenza umana non esiste differenza tra uomo e donna e tra figlio e figlia e che come esseri umani hanno la stessa identità. E questa figlia concepì vergine il profeta Gesù , ma lo partorì umanamente, con le “doglie del parto”, tanto da farle urlare””Oh fossi morta prima, oh fossi ora una cosa dimenticata ed obliata” (Sura XIX: 23). Su questo punto i vangeli sono sibillini: ivi si parla anche dei fratelli di Gesù, ma sicuramente l’esegesi ed il magistero cattolici la vogliono “sempre vergine”, cioè vergine in perpetuo (cfr. Catechismo, 501); quelli delle chiese protestanti un po’ meno.

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La REGINA DI SABA, una donna di potere abbagliata dalla magnificenza del re Salomone. 
Il Corano nella Sura XXVII ("Sura della formica") ci parla, dal verso 22 al verso 44, della regina di Saba. Chi era realmente la regina di Saba? Forse era solo una figura mitica. Come la Bibbia ebraica, anche il Corano non ne menziona il nome, malgrado alcune fonti arabe la chiamino BILQIS. La storia è simile a quella raccontata da 1Re 10:1-13 e da 2Cronache 9:1-12, ma cambia il punto di partenza: è Salomone che viene a conoscenza del regno di Saba perché quel popolo venera il Sole e lei stessa, la regina, è un’idolatra. Dopo aver mi-nacciato una guerra, il re d'Israele riceve la regina di Saba e la converte alla religione ebraica. Ciò che però sorprende è che una donna così saggia e prudente da scartare la soluzione delle armi in favore delle vie diplomatiche (“Quando i re entrano in una città la devastano ed i nobili suoi riducono a miserabili: così faranno quelli con noi. Ma io invierò loro un dono e staro a vedere che cosa mi riporteranno i miei messi” (XXVII: 34-35)) si lasci poi convincere che il Dio vero è quello di Salomone solo perché questi la sorprende con il suo palazzo pavimentato di cristalli, che ella scambia ingenuamente per una “grande distesa d’acqua”, al punto da “scoprirsi le gambe” pensando di bagnarsele nell’entrare. Insomma, è l’ammirazione per la “scienza” della gente di Salomone che la fa escamare : “Signore! Io ho fatto torto a me stessa , ma ora, come Salomone, mi do a Dio, il Signore del Creato”. In altre parole, una conversione promossa dallo splendore meraviglioso del palazzo di Salomone. Tuttavia, la ingenuità di Bilqis si spiega: la regina proveniva dalle povere lande etiope, dove era chiamata Machedà: essa non poteva non restare abbagliata dalla magnificenza del re Salomone.
In nessuna parte del mondo la leggenda della regina di Saba è più viva che in Etiopia. La leggenda locale conferma che ella rimase affascinata dalle capacità tanto decantate del potente re. Dalla loro unione sarebbe stato concepito Menelik, il cui significato intrinseco è "Figlio dell'uomo saggio". Questi avrebbe portato nel sangue le tracce di una ascendenza divina e sarebbe stato il capostipite di una stirpe salomonica; da qui nasce il fatto che gli Etiopi siano una un popolo eletto. Menelik, cresciuto e divenuto re, fece proprio il simbolo del leone di Giuda che innalzò ad emblema del proprio regno. Divenuto adulto, volle far visita al presunto padre Salomone e quando fece ritorno ad Axum, trafugò o gli fu affidata, l'Arca dell'Alleanza.
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Oltre alla Madre del profeta Gesù, i musulmani venerano altre donne eccellenti, come KHADIJA, la prima moglie di Maometto; AISHA, la sposa bambina del profeta; FATIMA, l’unica figlia sopravvissuta. Ma le storie di questi personaggi, che ebbero grande importanza nella vita di Maometto, non sono narrate dal Corano, ma appartengono alla tradizione orale medioevale (hadith), raccolta nei libri dei “dottori” dell’Islam. Qui ricorderemo soltanto che senza i finanziamenti della matura ma ricchissima vedova Khadija, di quattordici ani più vecchia del marito (ne aveva 49 quando Maometto la sposò), il movimento religioso del Profeta non sarebbe mai decollato. Inoltre che Aisha (Maometto la sposò a sei anni, ma attese l’età pubera per consumare il matrimonio)) fu sospettata di aver avuto una storia adulterina con un giovane cammelliere e che, ritenuta innocente per volere di Allah, ebbe poi molta importanza nella stesura dei testi sacri dell’Islam e fu chiamata "Madre dei credenti" (Umm al-Muminīn). Infine, che Fatima fu l'unica figlia di Maometto ad assicurargli una discendenza, grazie alla nascita di due figli avuti dal matrimonio col cugino del profeta, Alī b. Abī Ṭālib, il promotore dello sciismo.
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LA DONNA NELLA SOCIETÀ ISLAMICA MODERNA E CONTEMPORANEA.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la condizione della donna presenta oggi grandi e profonde differenze nei diversi paesi islamici. L’argomento è di grande attualità, perchè, mentre tutte le grandi religioni sono in netto declino, l’Islam è l’unica fede che è in forte espansione, sia a causa di numerose conversioni, sia per l’alto tasso di natalità tra i fedeli di questa religione. Purtroppo, un forte ritorno dell’integralismo islamico rischia di peggiorare la condizione delle donne anche in quei paesi dove la situazione della donna era diventata migliore. Intanto occorre premettere che non è facile definire la posizione che la donna islamica ha assunto nel corso dei secoli nella società. Per farlo occorrerebbe analizzare a fondo come tale posizione è stata determinata all'interno delle varie correnti religiose islamiche. Infatti il Corano viene interpretato in molti suoi passi in modo differente dai modernisti, dai tradizionalisti e dai fondamentalisti. Le più importanti correnti religiose nel mondo islamico sono quella sciita e quella sunnita. La differenza fondamentale fra questi due gruppi è che i sunniti ritengono errore ogni tipo di innovazione non presente nella Sharia, mentre gli sciiti sono aperti a determinate bid'a (innovazioni). Non tutti i paesi islamici sono conformi alla stessa corrente di pensiero, quindi la condizione della donna varia da paese a paese; inoltre varia anche in ragione della situazione sociale ed ambientale in cui la vive. Bisogna anche considerare che spesso nelle popolazioni prevalgono le tradizioni popolari che in molti casi sono più antiche della formazione dell'Islam. L'Islam ha influito sulla posizione femminile, ma non è stato l'unica causa di una società androcratica. Per quanto riguarda le differenze fra i modernisti e i tradizionalisti ci limiteremo a darne una visione di massima. I tradizionalisti, come afferma il loro nome, tendono ad affidarsi agli hadith (tradizioni) stabiliti anche dai fuquaha (giureconsulti medioevali). I modernisti molto spesso ignorano totalmente le tradizioni e cercano di analizzare il Corano nel suo "spirito". I tradizionalisti invece, come i fondamentalisti, lo interpretano alla lettera
L’avvenimento più rilevante che ha influito sulla condizione della donna nel mondo islamico è sicuramente stato l’avvento al potere in Turchia di Kemal Ataturk che depose l’ultimo sultano e proclamò la repubblica nel 1923. Da quell’anno fu riconosciuta la parità dei sessi e fu abolita la poligamia, l’età minima alla quale le ragazze potevano contrarre matrimonio fu innalzata a 15 anni, il divorzio divenne un diritto anche per le donne e le donne ottennero il diritto al voto prima di molti paesi europei. Inoltre fu riconosciuto alle donne il diritto all’istruzione e fu reso facoltativo l’uso del velo. In effetti la società turca diventò una società molto avanzata e moderna, anche se questo vale sopratutto per le grandi città: nelle campagne sopravvissero le antiche tradizioni islamiche e la Turchia continuò ad essere teatro di raccapriccianti esempi di violenza e maltrattamenti sulle donne. Oggi le donne turche sono medici, avvocati, giudici, giornalsti, etc… Tuttavia, grazie al voto delle campagne ed ai massicci finanziamenti provenienti dall’Iran, il potere in Turchia è andato sovente in mano a partiti che non nascondono la loro mal celata intenzione di islamizzare nuova-mente il paese. Per ora, la società civile ha reagito bene. forte sopratutto del fatto che la Costituzione del 1923 è garantita dalle Forze Armate.
In Iran è avvenuto invece esattamente il contrario: nel 1979: con l’ascesa al potere degli Ayatollah, un paese moderno, civile e laico cadde da un giorno all’altro nelle mani di una sorta di preti sessuofobi che trasformarono una società avanzata e progredita in un paese represso, triste e cupo. Il simbolo di questa tragica improvvisa trasformazione è quello delle ragazze che prima indossavano i bluejeans ed ora sono costrette in neri vestiti, quando possono uscire di casa. In Iran però vi sono forti resistenze a questo stato di cose: per esempio il regime non è mai riuscito ad impedire che le donne frequentassero scuole ed università.
L’Iran è una Repubblica Islamica, cioè adotta come legge dello stato la Sharja che prevede la lapidazione per lo adulterio e la prostituzione e la pubblica flagellazione per reati quali non portare il velo o non avere un abbigliamento “tradizionale”, come, per esempio, indossare pantaloni. Per i rapporti sessuali prematrimoniali, talvolta viene praticata la fustigazione e talvolta la lapidazione. Diffuse sono poi anche le mutilazioni inferte alle donne come il taglio del naso o delle orecchie.
La Sharja è in vigore ufficialmente anche in altri paesi come l’Arabia Saudita, ma è praticamente applicata in tutto il mondo islamico, sopratutto in Mauritania, Sudan, Somalia, Somaliland, Yemen, Ciad, regioni dell’Afghanistan e del Pakistan controllate dai Talebani, Nigeria settentrionale, nelle campagne della Malaysia, dell’Indonesia e del Bangladesh.
Un’altro aspetto raccapricciante che riguarda la condizione della donna nell’Islam è il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, assolutamente non prescritte nemmeno dalla Sharja. Il fenomeno riguarda circa 150 milioni di donne ed ogni anno 2 milioni di bambine. Non entriamo nel dettaglio e nelle tipologie di queste pratiche, informazioni comunque facilmente reperibili.
Decisamente migliore è invece la situazione della donna in paesi islamici come la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, l’Egitto, la Giordania, la Siria ed in parte anche la Libia. In particolare in Tunisia ed in Egitto la situazione è paragonabile a quella della Turchia. Confortante, almeno per ora, è la situazione in Tunisia: le donne costituiscono un terzo dei docenti universitari tunisini, il 58% degli studenti universitari, più di un quarto dei giudici, il 23% dei membri del Parlamento ed hanno forte rappresentanza in polizia e nelle forze armate. Il tasso di analfabetismo delle donne è crollato a picco dall’82% del 1966 al 31% del 2004.
Singolare è il caso della Siria: questo paese che, in politica estera è decisamente schierato con i paesi islamici più intransigenti, al suo interno concede larghe libertà alle donne. Si stima che il 40% delle donne siriane non porta il velo e molte di esse esercitano le professioni di avvocato, medico, ecc. Ma l’attuale situazione conflittuale interna tra tradizionalisti e modernisti potrebbe portare ad un’avanzata dell’integralismo.
Per quanto riguarda l’Iraq, dobbiamo ammettere che, sotto la dittatura di Saddam Hussein, la condizione della donna era paragonabile a quella dei paesi occidentali, ma ora sta decisamente peggiorando, in quanto la maggioranza sciita della popolazione mostra oggi una forte tendenza ad applicare la Sharja.
Ma forse, come sostengono molti osservatori occidentali, il problema principale della donna nei paesi islamici e nelle comunità islamiche in Europa ed America non sta nella legislazione ufficiale, ma all’interno della famiglia: l’Islam riconosce al marito il diritto di picchiare la moglie e sono molte diffuse le violenze sessuali su vittime anche mino-renni nell’ambito della famiglia. Il fatto è che, nella cultura islamica, una bambina è considerata “donna” dal momento in cui raggiunge la pubertà: si calcolano in 60 milioni le spose con un’età inferiore a 13 anni. D’altra parte Maometto sposò Aisha all’età di 6 anni ed è espressamente detto negli hadith che il matrimonio fu consumato quando Aisha aveva 9 anni.
Un’altra piaga per le donne nel mondo islamico è quella dei matrimoni combinati: uomini, anche anziani, sposano bambine a causa di accordi interfamiliari.
Chiudiamo ricordando che i mussulmani nel mondo sono ormai un miliardo e quattrocento milioni, più della metà dei quali sono donne….

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domenica 26 maggio 2013

STORIE DI DONNE NEL NUOVO TESTAMENTO


"NOLI  ME TANGERE" - Tiziano, 1511

INTRODUZIONE
In "Storie di donne nell'Antico testamento" abbiamo dimostrato che all’origine della misoginia religiosa c’è la Bibbia vetero-testamentaria. Essa attribuisce alla donna il primo peccato, rende sospette tutte le figlie di Eva e le vota, sin dalla nascita, ad un marchio d’infamia. Eva ha introdotto il peccato nel mondo, la maledizione e la morte: «È causa della donna che è iniziato il peccato ed è a causa sua che noi moriamo tutti» (Sir. 25:24). Non a caso quando nella Bibbia dell’Antico Testamento si vuole umiliare qualcuno lo si definisce “figlio della donna” (Giobbe, 15:14).
In tutto l'Antico Testamento la funzione della donna rimane limitata ed, in generale, è subalterna al maschio. In casa i suoi diritti sembrano uguali a quelli del marito, per lo meno nei confronti dei figli che essa educa; ma la legge la mantiene sempre al secondo posto. La donna non ha partecipazione ufficiale al culto; se anch'essa può gioire pubblicamente durante le feste (Es. 15:20-21; Dt. 12:12; Gdt. 21:21; 2Sam. 6), però non può esercitare alcuna funzione sacerdotale. Solo gli uomini sono tenuti ai pellegrinaggi d'obbligo (Es. 23:17). Tra quelli che sono rigorosamente obbligati a osservare il sabato (Es. 20:10), la sposa non è nominata. D’altra parte, questo era stato appunto l’anatema pronunciato dal Signore contro la donna all’epoca della sua cacciata dall’Eden : “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gn. 3:16). Il Signore stesso, quando Miriam e Aronne pongono sotto accusa il fratello Mosè per avere egli sposato una donna etiope, punisce, con la lebbra ed un isolamento di sette giorni fuori dell’accampamento, solo la donna che aveva osato “parlare contro il suo servo di fiducia” (Nm. 12).
L’evoluzione sociale ebraica attenua la legge di Mosè: il Nuovo Testamento mostra costumi addolciti e giudizi più benigni nei confronti delle donne, segnando un progresso rispetto al passato. Si vede Gesù intrattenersi pubblicamente con la Samaritana in una lunga discussione sul Padre, meravigliando non poco i suoi discepoli per il fatto di averlo visto discorrere con una donna (Gv. 4:5-42); e lo si vede ancora assolvere l’adultera, evitandole la lapidazione, come invece avrebbe voluto la legge di Mosè. Certo, il perdono gli è stato più facile che al marito e, in precedenza, alle nozze di Cana, quando la madre gli fa notare che i commensali non hanno più vino, le si era rivolto stizzito: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”, insomma, come se avesse detto: «Che c’è in comune fra te e me?» (Gv. 2: 4). Ma è ben significativo che accetti di lasciarsi seguire nelle sue predicazioni da donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità (Lc. 8:1-3), di prendere come esempio del regno dei cieli il discernimento delle vergini savie (Mt. 25:1-13) e di affidare a Maria di Magdala la missione di annunciare la sua Risurrezione (Gv. 20:17).
Gesù non poteva non conferire una maggiore dignità alla donna, perché egli nasce da donna. La consacrazione della dignità della donna ha luogo nel giorno dell'annunciazione: Maria, vergine e madre, realizza in sé l'ideale femminile della fecondità: nello stesso tempo rivela e consacra il desiderio della verginità, fino allora soffocato poiché assimilata ad una vergognosa sterilità. In Maria si incarna l'ideale della donna, perché essa dà i natali al principe della vita, con una maternità esclusivamente spirituale (Mt. 1:18-24). Alla donna che alzando la voce disse: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte ”, volendo celebrare gli aspetti naturali della maternità di Maria, Gesù rispose: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc. 11:27-28).
Il Cristianesimo e la Chiesa si appropriano di questa nuova dimensione della donna, la verginità, e la esaltano. Paolo elabora così una teologia della donna, mostrando in quale senso la divisione dei sessi è superata: “Non c’è più né uomo né donna: voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal. 3:28). La distinzione dei sessi è superata, al pari delle divisioni di ordine razziale o sociale. Saggiamente Paolo continua a dire che "è meglio sposarsi che ardere" (1Cor. 7:9), tuttavia esalta il carisma della verginità; osa persino contraddire il Genesi che affermava: "Non è bene che l'uomo sia solo" (Gn. 2:18; 1Cor. 7:26): tutti, ragazzi e ragazze, possono, se chiamati, rimanere vergini. Così alla distinzione tra uomo e donna si aggiunge una nuova distinzione, quella tra donne vergini e non vergini. La fede e la vita celeste trovano nella verginità vissuta un tipo concreto di esistenza, in cui l'anima si unisce con decisione e completezza al suo Signore (1Cor. 7:35). Per rispondere alla sua vocazione la donna non deve necessariamente diventare sposa e madre, ma può restare vergine di cuore e di corpo.
Ma la donna senza vocazione di verginità? No, il culto della verginità propugnato dal Cristianesimo non emancipa la donna. La Chiesa romana delle origini si ispira al Vecchio Testamento e continua a conferire alla donna un ruolo inferiore ed a inibire la sua liberazione, sperando di ritrovare lo spirito dei profeti. La sua dottrina è semplice: l’uomo e la donna sono uguali nell’ordine sovrannaturale, ma l’uomo è superiore alla donna su un piano naturale. L’uguaglianza davanti a Dio non provoca l’uguaglianza naturale: essa non sopprime né le classi sociali, né le “classi di sepoltura”. Non avendo percepito la sfumatura, alcuni cristiani della prima ora pensarono di emanciparsi, ma S. Paolo li ricondusse alla gerarchia divina: «La testa del Cristo è Dio, la testa dell’uomo è il Cristo, la testa della donna è l’uomo» (1Cor. 11:3). E l’apostolo fissa regole pittoresche e futili, ordinando alla donna di coprirsi la testa in chiesa. «L’uomo non deve coprirsi il capo», dice S. Paolo, «perché egli è l’immagine della gloria di Dio, ma la donna non è che la gloria dell’uomo» (1Cor. 11:7).
Paolo riconosce al padre il diritto di disporre della figlia a suo gradimento: fin dalla nascita può votarla alla verginità o maritarla «come vada ma sempre a modo suo: egli non pecca mai. Colui che fa maritare la figlia fa bene, ma colui che non la fa sposare fa meglio» (1Cor. 7:36 seg.). La ragazza passerà dalla tutela del padre a quella dello sposo. Per Paolo, «la sposa deve obbedire in tutto al marito» (Efes. 5:24). Anche la prima epistola di Pietro ricorderà che “Sara obbediva ad Abramo e lo chiamava mio signore” (3:6).
Quindi risale soprattutto alle norme dettate da Paolo di Tarso la sottomissione delle donne nelle comunità cristiane, anche se, nella Lettera ai Romani, cap.16, egli raccomanda la diacona Febe e saluta Giunia in quanto “segnalata tra gli apostoli ed è stata in Cristo prima di me”. Ma, non appena può, ribadisce: “Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso di parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (1Cor. 14:34-35) e “La donna impari il silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna d’insegnare né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva, e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che ingannata si rese colpevole di trasgressione” (1Tim. 2:11-15). E le donne vedove, se sono giovani, “si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all’avversario alcun motivo di biasimo, sviandosi dietro satana” (1Tm. 4:14-15), perché altrimenti “trovandosi senza far niente, imparano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene“ (1Tm. 4:13).
Come unica eredità dell’Impero romano la Chiesa ne ha custodito il senso autoritario e giuridico. Ai nostri giorni ancora, la gerarchia ecclesiastica è un modello di minu-ziosità, è un interminabile decrescendo di gradi e di onori dal Sovrano Pontefice fino al basso clero della Svizzera primitiva o della bassa Limousin. Le poche donne ammesse al Concilio Vaticano II dovevano tacere e ascoltare: il loro attributo ufficiale di uditrici definiva perfettamente il loro ruolo. L’assoggettamento della donna è dedotta dalla sua origine: nata dalla costola d’Adamo, Eva non esiste che per lui; ella non è onorata da una creazione personale. Disillusa dalla scienza, la Chiesa ammette infine che questa costola è simbolica, ma il fedele è tenuto a credere che «la prima donna fu formata dal primo uomo». L’inferiorità della donna è dunque naturale. Tommaso d'Aquino osserva che secondo Genesi 2:22-23 la donna fu l'ultimo essere creato da Dio e non fu creata dal nulla, come tutte le altre creature, ma fu creata da una costola di Adamo. Infatti, in “Summa Theologiae” scrive: “La donna non doveva essere creata nella prima creazione delle cose. Dice infatti Aristotele ("De Generatione Animalium", 2,3) che la femmina è un maschio mancato (“femina est mas occasionatus”). Ma niente di mancato e di difettoso vi doveva essere nella prima istituzione delle cose. Dunque, in quella prima istituzione delle cose la donna non doveva essere prodotta”.

RASSEGNA DI DONNE NEI VANGELI
1
MARIA DI NAZARET, madre di Gesù, forse “sempre vergine”, ma assente ingiustificata alla resurrezione del figlio.
     Maria (in ebraico: Myrhiàm; aramaico: Maryām; greco: Mariam, Μαρία María; arabo: Maryam) è venerata come "Santissima Madre di Dio" dai cattolici e dagli ortodossi (che la onorano del titolo di Θεοτόκος, Theotókos); la sua santità è comunque riconosciuta dalla Comunione anglicana e anche da confessioni protestanti come quella luterana. Le è usato anche il titolo di Madonna. Nel Corano le è dedicata una sura ed anche per l’Islam la sua maternità è misteriosa.
Dei tre vangeli sinottici quello che parla più diffusamente di Maria è il Vangelo di Luca. Vi si racconta che Maria viveva a Nazaret, in Galilea e che, promessa sposa di Giuseppe, ricevette dall'arcangelo Gabriele l'annuncio che avrebbe concepito il Figlio di Dio, senza avere rapporti intimi (Lc. 1:26-38). Ella accettò e, per la sua completa accettazione e fedeltà alla missione affidatale da Dio, è considerata dai cristiani il modello per tutti i credenti. Lo stesso Vangelo secondo Luca racconta la sua pronta partenza per una città della regione montuosa di Giuda, per aiutare una parente di nome Elisabetta, incinta di sei mesi sebbene molto anziana. Da Elisabetta è chiamata "la madre del mio Signore". Maria risponde proclamando il Magnificat (Lc. 1:46). Trovandosi a Betlemme, in Giudea, con suo marito Giuseppe per il censimento indetto, tramite il console Quirino, dall'imperatore Augusto (Lc. 2:1-2), partorì (in un riparo che era forse una stalla) suo figlio, al quale impose il nome di Gesù come le aveva prescritto l'arcangelo Gabriele. Il vangelo secondo Luca racconta il canto degli angeli e la visita dei pastori (Lc. 2:1-20), e quello secondo Matteo, che fa risiedere la famiglia fin da principio a Betlemme, la visita dei sapienti orientali, detti i Magi (Mt. 2:1-11). Seguono la persecuzione di Erode, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti e il ritorno a Nazaret. Quando Gesù compì 12 anni, Maria e Giuseppe lo condussero a celebrare la Pasqua nel Tempio di Gerusalemme. Tornando a Nazaret, i genitori non trovarono più Gesù nella carovana e, preoc-cupati, tornarono indietro a cercarlo. Lo ritrovarono al terzo giorno nel Tempio, dove Gesù stava insegnando fra i dottori della Legge. Maria è testimone, anche senza capirne in fondo il significato, della prima volta che Gesù manifesta la coscienza di essere figlio del Padre (Lc. 2:41-50). I Vangeli ce la presentano in vari momenti vicino a Gesù nel periodo del suo ministero pubblico.
Nel Vangelo secondo Giovanni Maria è chiamata sempre «la Madre di Gesù». I biblisti cattolici ritengono che in tale vangelo Maria sia il simbolo dell'Israele fedele, che aspetta da Gesù il dono del vino dell'alleanza nuova (Nozze di Cana). Inoltre, essa è colei che ha fatto compiere al Figlio il primo miracolo della sua vita pubblica, ed è perciò presentata come la mediatrice di tutte le grazie presso Gesù Cristo. Sul Calvario, durante l'agonia in croce, Gesù l'affida all'apostolo Giovanni e a Maria affida lo stesso apostolo: «Donna ecco tuo figlio!», poi disse al discepolo: «Ecco tua Madre!». E da quel momento il discepolo l’accolse nella sua casa (Gv. 19:26-27). Secondo la dottrina cattolica questo sarebbe l'atto che la costituisce Madre dei credenti.
Negli Atti degli Apostoli è presentata in preghiera insieme con gli apostoli e i discepoli in attesa della venuta dello Spirito Santo (At. 1:14). Secondo la visione cattolica Maria fu quindi il centro attorno a cui gli stessi apostoli e discepoli si riunirono per la discesa dello Spirito, momento che sancisce la nascita della Chiesa.
Nei Vangeli Apocrifi la figura della Madre di Gesù ha avuto ampio risalto in quanto i cristiani delle prime generazioni hanno molto presto avvertito il pio desiderio di conoscere più a fondo l'eccellenza e la grandezza della sua personalità e l'importanza unica della funzione da lei svolta nell'economia della salvezza. Un esempio celebre è quello del cosiddetto Protovangelo di Giacomo, ritenuto l'apocrifo più antico tra quelli a noi noti. Esso concentra prevalentemente la sua attenzione sulla figura e sulla storia della Vergine santa, con una impressionante dovizia di informazioni e con la palese intenzione di difendere la sua verginità perpetua. Ma quanti altri di questi scritti si occupano di lei! Va precisato che l'interesse degli Apocrifi si rivolge soprattutto a due periodi dell'esistenza di Maria: il periodo “pre-evangelico”, che abbraccia gli anni della sua infanzia e giovinezza, e precisamente quelli precedenti al mistero dell'Annunciazione, e il periodo “post-evangelico”, ossia gli anni che vanno dalla Pentecoste alla sua Assunzione in anima e corpo alla gloria dei cieli. Probabilmente si riteneva che il tempo compreso tra questi due periodi fosse già stato rischiarato a sufficienza dalla luce sobria ma penetrante della divina rivelazione. L'immagine che questo tipo di letteratura ci offre della Madre del Signore coniuga tratti genuinamente umani con istantanee di predestinazione divina. Per questo gli Apocrifi sono testi alquanto problematici, a proposito dei quali già Origene ammoniva: «Non dobbiamo rigettare in blocco ciò che potrebbe essere utile per far luce sulla Scrittura. È segno di apertura di mente ascoltare e applicare le parole della Scrittura: “esaminate ogni cosa e ritenete ciò che è buono”» (1Ts 5,21).
La verginità di Maria ha una parte importante nei Vangeli apocrifi (dal greco apokryphos, “sottratto alla vista”, cioè scritti non appartenenti al canone delle Scrit-ture). I Vangeli dell'Infanzia hanno manifestato un segnato interesse per questo aspetto del mistero mariano. Il Protovangelo di Giacomo entra perfino in dettagli fisici che, se da una parte accentuano la dimensione taumaturgica del concepimento e del parto verginale di Cristo, dall'altra rischiano d'introdurre un elemento di dissacrazione nel velo di mistero che avvolge l'evento stesso. Il racconto lascia trapelare una certa tendenza alla ricerca curiosa che sembra rasentare la morbosità. Ma al di là di qualche intemperanza narrativa, Maria è tratteggiata come la Vergine per eccellenza che, con la sua integrità totale, vuole essere una prova incontestabile circa l'origine trascendente e la natura divina del bambino da lei nato. La sua immagine verginale, stagliata nello sfondo del mistero del Verbo Incarnato, vanta indubbiamente delle radici neotestamentarie; dagli Apocrifi però acquista una tenue colorazione terrena, fatta di semplicità e di una certa quale fragilità, che mettono in risalto l'intervento della divina onnipotenza là dove si esauriscono le possibilità della natura.
In conclusione, sia nei Vangeli canonici sia in quelli apocrifi Maria di Nazaret, la madre di Gesù, fu una donna “grandemente favorita” da Dio (Lc. 1:28). L’espressione “grandemente favorita” deriva da una singola parola greca che, in buona sostanza, significa “molta grazia”. Maria ricevette la grazia di Dio. La grazia è “favore immeritato”, ossia qualcosa che riceviamo nonostante non lo meritiamo. Ciò vuol dire che Maria aveva bisogno della grazia di Dio, proprio come tutti noi. La stessa Maria comprese questo fatto, in quanto dichiara in Luca 1:47: “…e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore…”. Maria riconobbe il bisogno di essere salvata, di aver bisogno di Dio come suo Salvatore. La Bibbia non dice mai che Maria fu qualcosa di diverso da una comune donna che Dio scelse per usarla in modo straordinario. Certo, Maria era una donna giusta e favorita (graziata) da Dio (Lc. 1:27-28). Allo stesso tempo, Maria era anche un essere umano peccatore proprio come chiunque altro, che aveva bisogno di Gesù Cristo come suo Salvatore, proprio come chiunque altro (Ecclesiaste 7:20; Romani 3:23; 6:23). Per cui, se Maria ebbe una “immacolata concezione”, non esiste alcun motivo biblico per non credere che la nascita di Gesù sia stata nient’altro che una normale nascita umana. Quando concepì Gesù, Maria, secondo i Vangeli canonici, era vergine (Lc. 1:34-38), ma il concetto della “verginità perpetua” di Maria è, per molti studiosi, “antiscritturale”. La versione ufficiale della CEI di Matteo 1:24-25 ci dice che Giuseppe “…prese con sé la sua sposa , la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio che chiamò Gesù”, ma si sostiene che la traduzione corretta del testo greco è che Giuseppe “…non la conobbe finchè ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, e gli dette nome Gesù”. Cioè, Giuseppe non ebbe con Maria rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito il primo figlio. Ma dopo? La questione dei fratelli di Gesù è ben nota. I cattolici ne negano l’esistenza: essi sostengono che quando i Vangeli parlano dei fratelli di Gesù si riferiscono ai sui fratellastri o cugini, posto che nella lingua aramaica c’era un solo termine che indicava fratelli, fratellastri e cugini; essi però omettono di rilevare che il testo originale dei Vangeli non è aramaico, ma greco e che in greco “adelfos” significa inequivocabilmente fratello e non fratellastro o cugino. E, poi, perché anche Luca, raccontando della nascita di Gesù a Betlemme, lo avrebbe esplicitamente definito “primogenito”? D’altra parte, negli stessi Vangeli ci sono numerose altre testimonianze dell’esistenza dei fratelli e delle sorelle di Gesù (Mc. 3:31-32; Mt. 7:46-47; Lc. 8:19-20; Mc. 6:3; Gv. 2:12; 7:2). Dunque, è possibile che Giuseppe e Maria abbiano avuto parecchi figli dopo che nacque Gesù e che Gesù ebbe quattro fratelli: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda, ed anche delle sorelle, di cui non conosciamo però il nome e il numero (Mt. 13:55-56). Insomma, Dio avrebbe benedetto e graziato Maria dandole parecchi figli, il che, in quella cultura, era il segno più chiaro della benedizione e della grazia di Dio su una donna. Una volta, mentre Gesù stava parlando, una donna tra la folla proclamò: “Beato il grembo che ti portò e le mammelle che tu poppasti!” (Lc. 11:27). Non ci fu mai più un’opportunità migliore di quella in cui Gesù potesse dichiarare che Maria era ancora vergine. Quale fu la risposta di Gesù? “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!” (Lc. 11:28). Per Gesù, l’ubbidienza alla Parola di Dio era più importante dell’essere stata la donna che lo aveva messo al mondo “sempre vergine”.
Mai, nella Scrittura, Gesù, o qualcun altro, rivolge qualche lode, gloria o adorazione a Maria. Solo Elisabetta, parente di Maria, lodò Maria in Luca 1:42-44, ma la sua lode era basata sul fatto che Maria avrebbe dato alla luce Gesù, non su qualche gloria intrinseca in Maria. Quando Gesù morì, Maria era alla croce (Gv. 19:25). Nel giorno di Pentecoste, Maria era con gli apostoli (At. 1:14). Tuttavia, Maria non è mai più menzionata dopo Atti 1. Ciò vuol dire che gli apostoli non danno mai a Maria un ruolo di primo piano. Nemmeno quando narrano della resurrezione del Cristo. L'assenza di Maria dal gruppo delle donne che all'alba si reca al sepolcro è significativo (Mc. 16:1; Mt 28:1). I primi testimoni della resurrezione sono state le donne che erano rimaste fedeli ai piedi della Croce, tranne la madre. Infatti, il Risorto affida il messaggio da trasmettere agli apostoli a Maria di Magdala (Gv. 20,17-18).
La morte di Maria non è registrata nella Bibbia. Non si dice niente di Maria che ascese al cielo o che ebbe una qualche forma di ruolo eccelso in cielo. Maria va rispettata in quanto la madre terrena di Gesù, tuttavia non si può ignorare che la Bibbia non indica mai che ella possa ascoltare le nostre preghiere o che possa fare da mediatrice fra noi e Dio. Per il Nuovo Testamento, Gesù è l’ unico avvocato e mediatore in cielo (1Tm. 2:5). La stessa Maria, si ridimensiona rivolgendo il suo culto, la sua adorazione e la sua lode soltanto a Dio: “L’anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore, perché egli ha guardato l’umiltà della sua serva. Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente. Santo è il suo nome” (Lc. 1:46-49).
2
MARIA MADDALENA o MARIA di MAGDALA, la discepola prediletta o la compagna di Gesù?
     Secondo il Nuovo Testamento è stata una discepola di Gesù; è venerata come santa dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua festa il 22 luglio. La sua figura viene descritta sia nei Vangeli canonici che in quelli apocrifi, e non è citata in altre fonti. Il nome Maddalena deriva da "Magdala", una piccola cittadina sulla sponda occidentale del Lago di Tiberiade, detto anche di Genezaret.
Le narrazioni evangeliche canoniche ne delineano la figura attraverso pochi versi, facendoci constatare quanto ella fosse una delle più importanti e devote discepole di Gesù. Fu tra le poche a poter assistere alla crocifissione e, secondo alcuni vangeli, divenne la prima testimone oculare dell'avvenuta resurrezione.
Maria Maddalena è menzionata nel Vangelo secondo Luca come una delle donne che «assistevano Gesù con i loro beni». Secondo tale vangelo, esse erano spinte dalla gratitudine: proprio da Maria di Magdala «erano usciti sette demòni» (8:2-3). Secondo la tradizione, era una della tre Marie che accompagnarono Gesù anche nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (Mt. 27:55; Mc. 15:40-41; Lc. 23: 55-56; Gv. 19:25), dove furono testimoni della crocifissione. La Maddalena rimase presente anche alla morte e alla deposizione di Gesù nella tomba ad opera di Giuseppe di Arimatea (Mt. 27:61). Fu ancora lei, di primo mattino, nel primo giorno della settimana, assieme a Salome e Maria la madre di Giacomo il minore (Mt. 28:1 e Mc. 16:1-2, oltre che nel cap. 12 dell'apocrifo Vangelo di Pietro ) ad andare al sepolcro, portando unguenti per ungere il corpo di Gesù. Qui esse trovarono il sepolcro vuoto ed ebbero una "visione di angeli" che annunciavano la risurrezione di Gesù (Mt. 28:5). Maria Maddalena, divenuta così prima testimone della resurrezione, corse a raccontare quanto accaduto a Pietro e agli altri apostoli, (Gv. 20:1-2), guadagnandosi l'appellativo di "apostolo degli apostoli". Ritornata immediatamente al sepolcro, si soffermò piangendo davanti alla porta della tomba. Qui il Signore, risorto, le apparve, ma in un primo momento non lo riconobbe. Solo quando venne chiamata per nome fu consapevole di trovarsi davanti a lui, e la sua risposta fu nel grido di gioia e devozione, "Rabbunì", cioè "maestro buono". Avrebbe voluto trattenerlo, ma lui glielo proibì: Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre mio: ma va dai miei fratelli e dì loro: sto ascendendo al Padre mio ed al Padre vostro, al mio Dio ed al vostro Dio” (Gv. 20:17).
La figura di Maria di Magdala è stata identificata per lungo tempo con altre figure di donna presenti nei vangeli. Alcune tradizioni accostano la figura di Maria Maddalena a Maria di Betania, la sorella di Marta e del risorto Lazzaro (Lc. 10:38-42 e Gv. 11:1-45) o alla peccatrice che unge i piedi a Gesù a casa di Simone il Fariseo, probabilmente a Nain, in Galilea. Maria viene inoltre scambiata per l'adultera salvata da Gesù dalla lapidazione (come raccontato nella Pericope Adulterae) in Gv. 8:1-11. Ma tali identificazioni sono state esplicitamente rigettate dall’esegesi cattolica, mentre l’esegesi laica non ha mai trovato elementi sufficienti per convalidarne la fondatezza.
Merita invece una più approfondita indagine la figura di Maria Maddalena quale supposta sposa o compagna di Gesù. I vangeli canonici non parlano esplicitamente né del celibato né di un matrimonio di Gesù e tale silenzio viene interpretato in modi opposti. Da un lato infatti se Gesù fosse stato sposato gli evangelisti non avrebbero avuto nessun motivo per tacere la presenza di una moglie e appare dunque strana l'assenza di ogni riferimento. D'altro canto il suo celibato, trattandosi di una situazione non comune, avrebbe dovuto essere menzionato e spiegato. Da notare che tuttavia questa spiegazione manca anche nel caso di san Giovanni Battista o di san Paolo. Il celibato di Gesù, come spiegato dalle chiese cristiane, è connaturato alla sua stessa figura di "Parola fatta carne", il cui impegno è compiere la volontà del Padre e svolgere la sua missione sulla terra senza distrazioni; soprattutto viene fondato sulla mancanza di una tradizione contraria. Ciò nonostante, deve osservarsi che i sacerdoti ebraici non avevano obblighi di celibato: si sposavano esattamente come gli altri ebrei. Gesù, tuttavia, non era della stirpe sacerdotale e neppure levita. Diversi autori cristiani sostengono che la vera sposa di Cristo è la Chiesa. Tale immagine è stata sviluppata in primo luogo da san Paolo negli scritti che entrarono a far parte del Nuovo Testamento e venne poi espansa dai Padri della Chiesa, tra cui Sant'Ireneo di Lione ed altri. In senso mistico, Gesù viene anche considerato il secondo Adamo: dal fianco del primo Adamo venne generata la sposa Eva mentre egli dormiva, così come da Cristo morto sulla Croce (addormentato) venne generata la Chiesa, sua sposa. Nell'esegesi anagogica medioevale cristiana, infatti, il sangue e l'acqua che sgorgarono dal costato di Cristo quando fu trafitto sulla croce, rappresentano la Chiesa con i simboli dell'acqua del battesimo e del vino della nuova alleanza. Naturalmente tale interpretazione mistica perderebbe di valore qualora Gesù fosse stato normalmente sposato.
Intanto, un gruppo di studiosi, pur dando per scontato le realtà storiche di Maria, Pietro e gli altri, hanno suggerito che Maria Maddalena fosse al vertice di una delle prime comunità cristiane e fosse anche l' "amato discepolo" al quale è stato attribuito il Vangelo secondo Giovanni. Il più noto degli studiosi è Ramon Jusino, il quale presenta questo punto di vista nel libro “Maria Maddalena, autrice del Quarto Vangelo?”, traendo spunto dalle ricerche di Elaine Pagels sulle primitive comunità gnostiche e dalle ricerche sulla comunità giovannea effettuate da Raymond Brown, un erudito biblico cattolico tradizionale. Conferme che Maria Maddalena sarebbe stata l'"amato discepolo" si trovano nei vangeli gnostici, per esempio in quelli di Nag Hammadi.
Nel capitolo 32 e nel capitolo 55 dello gnostico Vangelo secondo Filippo, ritrovato fra i codici di Nag Hammadi e databile al più presto alla seconda metà del II secolo, è accennato l'amore tra Gesù e Maria Maddalena. Entrambi sono descritti come l'incarnazione di eoni divini (Soter e Sofia) dalla cui unione sono derivati gli angeli. Ma si sostiene che il “bacio sulla bocca” citato al cap. 55 (“La Sofia, chiamata " sterile ", è la madre degli angeli; la compagna del Figlio è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli, e spesso la baciava sulla bocca. Gli altri discepoli, vedendolo con Maria, gli domandarono: «Perché l'ami più di noi tutti?». II Salvatore rispose e disse loro: « Com'è ch'io non vi amo quanto lei?» ’"), essendo un segno rituale comune anche ad altri personaggi, sia da intendersi all'interno dell'elaborata teologia gnostica. Infatti, secondo le scuole gnostiche il bacio rituale non aveva un significato erotico, ma era espressione della comunione, della fratellanza e della certezza della redenzione degli eletti (la stessa espressione si ritrova nel Nuovo Testamento, nelle epistole di Paolo e di Pietro: "salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio" (Rm 16:16, 1P 5:14). Tuttavia, stante anche l’indubbia importanza che nei Vangeli canonici Maria Maddalena assume attraverso la sua presenza alla Crocifissione e nella successiva visita alla tomba, questo bacio e la espressione “compagna del figlio” hanno fatto pensare che ella abbia avuto un ruolo particolare nel contesto successivo alla crocifissione, cioè il ruolo della vedova di Gesù.
L’ipotesi viene suffragata dal contenuto del Codex Askewianus (maggiormente noto come "Pistis Sophia" o "Libro del Salvatore"), un vangelo gnostico scritto in lingua copta probabilmente nella seconda metà del III secolo. Esso, come altri vangeli gnostici, contiene una rivelazione segreta di Gesù risorto ai discepoli in assemblea. Perduto per secoli, è studiato dal 1772 grazie al codice Askew. Ne sono state ritrovate varianti tra i Codici di Nag Hammâdi nel 1945. Non va confuso con altri testi gnostici: la "Sapienza di Gesù Cristo" o "Sofia di Gesù Cristo"; il "Dialogo del Salvatore"; il "Vangelo del Salvatore". Nel Pistis Sophia si racconta che dopo la resurrezione, Cristo, allo scopo di istruire gli apostoli sui misteri, si trattenne sulla terra per undici anni. Come altri vangeli gnostici dunque, esso contiene una supposta "rivelazione segreta" di Gesù risorto ai discepoli riuniti in assemblea (incluse quattro donne: Maria Maddalena, Salome, la Madonna e Marta). Durante questi undici anni, indicati nel primo capitolo dell'opera, Gesù avrebbe portato i suoi discepoli solo fino ad un certo livello di conoscenza, per poi portarli, in seguito, a gradi di conoscenza superiori: la trasmissione di una conoscenza (gnosi) superiore richiese a Gesù l'ascesa al cielo con la relativa trasfigurazione, così come viene descritta nei capitoli successivi. A tal riguardo, appare significativo un passo del capitolo 17 : “Detto questo ai suoi discepoli, soggiunse: «Chi ha orecchie da intendere, intenda!». Udite queste parole del Salvatore, Maria rimase un’ora (con gli occhi) fissi nell’aria; poi disse: «Signore, comandami di parlare apertamente». Gesù, misericordioso, rispose a Maria: «Tu beata, Maria. Ti renderò perfetta in tutti i misteri di quelli dell’alto. Parla apertamente tu il cui cuore è rivolto al regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli»” Qui, Maria Maddalena si erge indubbiamente a protagonista all'interno del Pistis Sophia. Del resto, in tutta l’opera, fra i discepoli che interloquiscono con Cristo, la Madre di Gesù interviene tre volte (capitoli 59, 61, 62), Salome altre tre volte (capitoli 54, 58 e 145), Marta quattro volte (capitoli 38, 57, 73 e 80), Maria Maddalena interviene, e sempre in contesti sempre molto importanti, sessantasette volte. Gesù arriva a lodarla varie volte e lei arriva persino ad intercedere presso di lui quando i discepoli non capiscono qualche passaggio (capitolo 94). Insomma, ben può sostenersi che all'interno del Pistis Sophia, Maria Maddalena simboleggia la conoscenza (gnosi), e rappresenta dunque l’incarnazione umana di Sophia e, come tale, la sacerdotessa e la Sposa di Cristo..
Il culto della santa Maria Maddalena, particolarmente diffuso in Francia, sarebbe un resto tangibile dell'importanza che le venne attribuita come progenitrice di una dinastia reale. Vi sono chiese in suo onore a Rennes-le-Château, a Saint Maximin la Sainte Baume, con la sua cripta; e le è dedicata la cattedrale dì Vezelay. Secondo alcuni autori di libri esoterici, i Merovingi sarebbero i discendenti della "stirpe regale" di Gesù, che sarebbe stato sposato con Maria Maddalena. La Maddalena, assieme al figlio avuto da Gesù e ad altre donne citate nei vangeli (Maria e Marta di Betania, Maria Salomè e Maria Jacobè) dopo la crocifissione sarebbe fuggita dalla Palestina su una barca per approdare in Provenza. Avrebbe poi risalito il Rodano raggiungendo la tribù dei Franchi, che non sarebbero stati altro che la tribù ebraica di Beniamino nella diaspora. I Merovingi, i primi re dei Franchi, proprio a causa di questa origine avrebbero avuto l'appellativo di re taumaturghi, ovvero guaritori, per la loro facoltà di guarire gli infermi con il solo tocco delle mani, come il Gesù dei vangeli (anche gli apostoli mostrarono la stessa facoltà, considerata un dono dello Spirito Santo). Il Santo Graal non sarebbe altro che il "sang real", ovvero il sangue regale di questa stirpe. Questa tesi si trova esposta nel libro "Il Santo Graal" di Baigent, Leigh e Lincoln (1982) che ha dato lo spunto a moltissimi altri testi sulla "linea di sangue del Graal”, ma non è suffragata da alcuna fonte storica a parte l'ovvia citazione della leggenda medievale dello sbarco della Maddalena in Francia, resa popolare da Jacopo da Varazze nella “Legenda Aurea”. Le uniche fonti citate dai tre autori per sostenere che i Merovingi discenderebbero da Gesù e dalla tribù ebraica di Beniamino sono infatti “Les dossiers secrets” del Priorato di Sion, una serie di documenti dattiloscritti depositati presso la Bibliothèque nationale di Parigi negli anni '60. Questi testi contengono complicate linee di discendenza ed elenchi di presunti Gran Maestri del Priorato (descritti come i custodi del vero segreto del Graal).
3
L’ “ALTRA MARIA”, chi era costei?
     “Giuseppe (di Arimatea) prese il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba vuota , che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Magdala e l’altra Maria” (Mt. 27:59-61)…“Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro” (Mt. 28:1). Stando al racconto di Matteo, due donne assistono alla sepoltura di Gesù e, due giorni dopo, le stesse ritornano alla tomba per visitarla. Conosciamo Maria di Magdala, ma non la sua compagna, l’« altra Maria ». E la sua identificazione è difficile, perchè gli evangelisti introducono una serie di diverse donne come testimoni ora della sepoltura di Gesù ora della sua risurrezione, ma queste serie sono differenti e non coincidono tra loro; hanno, perciò, dato il via a complesse discussioni e ricostruzioni degli studiosi della Bibbia.
Intanto va segnalato che « l’altra Maria » fa capolino sempre con Maria di Magdala. Inoltre, se stiamo agli altri evangelisti, Marco davanti alla croce di Cristo e durante la sepoltura fa avanzare una « Maria madre di Giacomo il minore e di loses » (15:40 e 15:47) ed una certa Salome. Anche Luca nell’alba pasquale introduce una « Maria di Giacomo » (24 :10) che certamente è sempre la stessa di Marco. Lo stesso Matteo la chiama così quando essa è ai piedi della croce, sia pure con una lieve variazione:  "Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe" (27:56). Se, poi, si risale ai giorni in cui Gesù operava e predicava in Galilea, ci imbattiamo in una sua visita nel villaggio della sua infanzia e giovinezza, Nazaret. Là i suoi concittadini non l’avevano accolto bene, anzi, avevano ironizzato sulla sua parentela: « Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di loses, di Giuda e di Simone? » (Mc. 6 :3). Tra i  "fratelli " sono elencati proprio Giacomo e loses, la cui madre portava lo stesso nome della madre di Gesù.
Sono, dunque, tre le Marie che saranno presenti, secondo i Vangeli, negli eventi finali della vita terrena di Cristo: Maria, la madre di Gesù, Maria di Magdala e " l’altra Maria" ossia Maria di Giacomo e di loses. Quest’ultima era, dunque, una sorta di zia di Gesù, comunque una parente. Ma attenzione : l’interpretazione protestante e quella di alcuni studiosi cattolici ritiene che Giovanni (19:25) introduca una quarta Maria, « Maria di Cleofa », e molti ritengono che sia la stessa donna, ossia « l’altra Maria », della quale ora è ricordato anche il nome del marito. Infatti, l'esame sinottico di Vangelo secondo Matteo 27:56 e di Vangelo secondo Marco 15:40 porta a identificare, come in Giovanni 19:25, Maria di Clèofa con la madre di Giacomo il Minore e Giuseppe-Ioses.
Maria di Cleofa viene nominata numerose volte anche nella letteratura apocrifa, ma a seconda dei testi cambia la sua parentela con Cleofa. Insomma, non abbiamo la pos-sibilità di avere un ritratto anagrafico abbastanza compiuto di quest ‘ altra Maria  che a sorpresa, con le altre donne, diventa la prima testimone della risurrezione. Il volto di questa donna resta misterioso, ma, come argutamente rileva Gian Franco Ravasi, difficilmente si sarebbe « inventata » una simile presenza femminile proprio in quell’evento capitale della storia cristiana: allora, infatti, le donne non erano abilitate a testimoniare in sede giuridica e quindi la loro dev’essere stata una presenza storica reale, segnata dai fatti stessi e conservata nella memoria dei primi cristiani e degli evangelisti.
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SALOME o MARIA SALOMÈ (secondo la tradizione), moglie di Zebedeo, una madre velleitaria.
     Chi era Salome? Secondo i Vangeli canonici, Salome era una delle pie donne che ha assistito alla crocifissione, morte e risurrezione di Cristo. Viene menzionata due volte nel Vangelo di Marco (15:40-41 e 16:1), ma grazie ad un confronto parallelo con il Vangelo di Matteo (27:55-56) la si può identificare come “la madre dei figli di Zebedeo”. La tradizione la chiamerà, in seguito, “Maria Salomè” (con l’accento). Salome era dunque moglie di Zebedeo e madre di due figli: Giacomo il maggiore (da secoli venerato in Spagna nella Basilica di “Santiago di Compostela”) e Giovanni l’evangelista (il più giovane e il più longevo degli Apostoli, autore del quarto Vangelo e dell’Apocalisse, unico libro profetico del Nuovo Testamento). Per tale ragione il Cozzoli, nell’iconografia, l’ha configurata come una donna anziana della Galilea, con lo sguardo accorato, il volto contratto in un pianto sommesso, che sorregge tra le mani un'anfora di oli profumati da servire all’imbalsamazione del corpo di nostro Signore. Infatti, secondo l’usanza ebraica, ai tempi di Gesù, il morto veniva bendato con fasce dopo essere stato cosparso di aromi e avvolto in un lenzuolo per mitigare l’odore della putrefazione a beneficio delle persone che andavano ad effettuare i riti del lutto. I Vangeli narrano l’episodio con qualche variante. Secondo Marco: “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù” (16:1); lo stesso in Luca (24:1): “Le donne prepararono aromi e oli profumati…il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba portando con sé gli aromi che avevano preparato…”. Matteo, invece, la cita tra le donne ai piedi della croce al momento della morte di Gesù, nominandola “la madre dei figli di Zebedeo” ((27:55-56), ma non tra quelle che assistettero alla deposizione di Gesù nella tomba ed alla sua risurrezione (28:1-8).
In base all’esame sinottico di Matteo 4:18, Marco 1:20, Luca 5:10 e Giovanni 1:44 può dedursi che la famiglia di Zebedeo viveva a Batsàida, sulle rive del lago di Tiberiade o Genezaret, detto anche mare di Galilea. Avevano una piccola industria di pesca; loro soci erano anche Simone (che sarà poi chiamato Pietro) ed Andrea suo fratello, en-trambi apostoli. Data l’abbondanza dei pesci nel lago, si presume che la loro attività fosse redditizia; inoltre, avevano anche tempo per assentarsi dal loro lavoro per lunghi pe-riodi di tempo. Infatti si sa che Giovanni l’evangelista andò al fiume Giordano per ascoltare la predicazione del Battista e per vivere con lui come suo discepolo. Sembrerebbe quindi che non fossero una famiglia di modesti pescatori, bensì di piccoli proprietari di un’azienda peschereccia. A partire dal giorno in cui, dietro comando di Gesù, realizzarono la pesca miracolosa, alle parole del Maestro “farò di voi pescatori di uomini”, essi abbandonarono definitivamente la pesca e seguirono Gesù nelle sue peregrinazioni apostoliche, insieme alla loro madre Salome.
Curiosamente, secondo i Vangeli apocrifi, Salome era una levatrice ebrea che, accorsa per assistere Maria partoriente, non credeva nel suo parto verginale, per cui volle verificare di persona la condizione imeniale. “Se non pongo il mio dito - è scritto nel Protovangelo di Giacomo (XIX: 1-3) - e non scruto la sua natura non crederò che una vergine abbia dato alla luce”. Ma non appena inserite le dita, la sua mano si staccò e cadde a terra tra atroci dolori. Soltanto pentendosi e toccando il Santo Bambino, l’incredula ebbe di nuovo la sua mano risanata.
Tuttavia di Salome ci sorprende un episodio raccontato da Matteo (20:17-23) : “Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici e lungo la via disse loro: «Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà». Allora si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli disse «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli soggiunse: «Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio»”. Dal passo si evince che come tutte le madri, Salome era una donna ambiziosa di onori per i propri figli al punto da chiedere al Maestro la promessa di riservare per loro i primi posti nel regno messianico. Ma questa madre esagera. Nientemeno, si raccomanda a Gesù non solo per garantire ai figli il Regno dei Cieli, ma, incontentabile, pretende anche che il Maestro si impegni ad assicurare loro un posto privilegiatissmo. Naturalmente, Gesù non promette alcun posto, bensì predice che in seguito sarebbe stato necessario soffrire e lottare per il suo regno. Troppo buono, l’ardire di Salome avrebbe strappato un paio di scappellotti a chiunque altro. Salome, nella circostanza, non aveva capito niente. La missione di Cristo sulla terra non era quella di distribuire ricompense agli uomini, ma di soffrire per salvarli. Quel «bere il calice» è una metafora biblica che sta per la passione imminente.
Esiste anche una tradizione secondo la quale, per via delle persecuzioni contro i Cristiani seguite alla morte di Gesù, le tre Marie, far cui Maria Salomè, furono arrestate ed imbarcate su una nave senza remi e senza vele, la quale, guidata dalla Provvidenza, raggiunse le rive della Provenza, in Francia. Il luogo dello sbarco è ancora oggi ricordato nel paesino di Saintes-Maries-de-la-Mer, dove sor-ge una chiesa a loro dedicata. Il rinvenimento delle pre-sunte reliquie delle tre sante ebbe luogo nel paesino citato, verso la fine della prima metà del XV secolo, alla presenza del legato pontificio cardinale Pietro di Foix, del re di Napoli Renato I e della sua consorte regina Isabella.
Un’altra tradizione racconta che Maria Salomè fuggì via mare con i santi Biagio e Demetrio dopo la decapitazione del figlio Giovanni, avvenuta nel 44 d.C. ad opera di Erode Agrippa I. Ad evitare possibili equivoci mentali, è opportuno spendere qualche parola sulla dinastia erodiana: Erode il Grande è quello citato nei Vangeli per la “strage degli innocenti” e che nell’immaginario collettivo ha assunto la figura della malvagità più efferata. Erode Antipa era figlio di Erode il Grande. A lui si riferiscono due episodi evangelici: la morte di Giovanni Battista (la cui testa fu voluta dalla omonima principessa giudaica Salomè, istigata dalla madre Erodiade, quale compenso per la sua esibizione erotica e passionale di danzatrice): il suo rifiuto di giudicare Gesù inviatogli da Pilato, donde il detto popolare: “Vè da Ròet’ à Pelate” (va da Erode a Pilato), nel significato di scaricare su altri una decisione difficile. Erode Agrippa I era figlio di Aristobulus e Berenice e nipote di Erode il Grande. A lui si deve la decapitazione di Giacomo il maggiore e la prigionia di Pietro. Erode Agrippa II fu l’ultimo rappresentante della dinastia erodiana, nonché giudice di Paolo di Tarso (cfr. Atti degli Apostoli 25,26).
Ma torniamo al racconto della tradizione. Maria Salomè giunse nel Lazio. La santa, stanca del viaggio, chiese alloggio nella casa di un pagano (poi battezzato con il nome di Mauro), a poca distanza dalla città di Veroli (Frosinone), mentre i suoi compagni di viaggio (Biagio e Demetrio) entrarono in città e furono martirizzati. Salomè rimase nella casa di Mauro dedicandosi alla conversione dei pagani alla fede cristiana, e dopo sei mesi morì. Con riverenza Mauro raccolse le spoglie per la sepoltura, le racchiuse in un’urna di pietra, sulla quale incise le parole: “Haec sunt reliquiae Beatae Mariae matris apostolorum Jacobi et Joannis” e la nascose in una grotta. Qualche tempo dopo alcuni pagani trovarono l’urna di pietra e vedendo che conteneva vecchie ossa, gettarono le stesse nella piazza del paese. Un uomo greco, che era riuscito a leggere l’iscrizione sulla cassa, comprendendone l’importanza, decise di salvare il prezioso tesoro e durante la notte si recò in piazza per recuperare le ossa che avvolse in un panno e racchiuse in una nuova urna, nascondendola fuori città presso una rupe. Succes-sivamente un contadino verolano di nome Tommaso, avendo ricevuto in sogno precise indicazioni dalla stessa Maria Salomè circa il luogo ove erano nascoste le sue reliquie, si mise alla ricerca delle stesse e il ritrovamento avvenne il 25 maggio del 1209. Si racconta che mentre il Vescovo del luogo sollevava in aria le ossa per mostrarle alla folla, dalla tibia si vide sgorgare del sangue vivo e tutti gridarono al miracolo. L’urna contenente le reliquie si trova oggi sotto l’altare dell’attuale basilica dedicata alla Santa che fu quindi proclamata patrona di Veroli e viene festeggiata il 25 maggio di ogni anno.
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ERORIADE e SALOMÈ: due "malefemmine doc”.
     Sono forse le uniche due donne presentate nel Nuovo Testamento in modo drasticamente negativo: sono le “due signore", l’alta aristocrazia di corte, Erodiade e Salomè. Ne parlano gli evangelisti Matteo (14:3-11) e Marco ( 6:17-28), perché hanno avuto a che fare con la morte di Giovanni Battista.
Soprattutto Erodiade è una figura ben conosciuta dalla storiografia: si tratta di una persona autorevole e potente, di una donna corrotta ed è un esempio, molto raro nel Nuovo Testamento di figura di persona rovinata, dedita cioè ad una vita sbagliata senza accenno al cambiamento. In genere, si parla di questo tipo di persone solo per ricordare un loro cambiamento, una conversione; invece, nel caso di Erodiade viene accennato il problema nella sua fredda crudeltà e i dati che il Nuovo Testamento scarnamente riporta coincidono con le notizie che abbiamo da Giuseppe Flavio (“Antichità giudaiche", XVIII, 118-119) e dagli storici latino/greci del tempo. Erodiade era stata la moglie di Erode Filippo, di cui era parente (a quei tempi i parenti si sposavano abitualmente all’interno della stessa famiglia per motivi dinastici e anche di potere e di patrimonio). Poi, aveva abbandonato Erode Filippo per andare a convivere con il cognato, Erode Antìpa. Di fronte a questa situazione, Giovanni Battista aveva avuto parole di rimprovero: uomo coraggioso, capace di dire la verità anche ai potenti, aveva rimproverato pubblicamente questa situazione di adulterio e per questo Erodiade istigò Erode affinché arrestasse il Battista. Questa donna, senza scrupolo alcuno, avrebbe voluto subito eliminare Giovanni; invece Erode ne aveva paura perché era superstizioso e temeva che portasse male uccidere un profeta, per cui lo tenne semplicemente in prigione a Macheronte.
“Venne infine il giorno propizio”. Racconta Marco (6:21-29) che il giorno del compleanno di Erode, durante un festino tenuto alla corte di Macheronte, la figlia di Erodiade, Salomè, danzò in modo affascinante e piacque molto al re ed ai commensali. Il re, forse mezzo ubriaco, si lasciò andare ad una promessa sconsiderata, confermata da giuramento: "Chiedimi quello che vuoi e te lo darò, fosse anche la metà del mio regno", promessa che sembra quasi il ritornello di una favola. La ragazza non sa cosa chiedere e si rivolge alla madre; Erodiade le dà il consiglio tremendo: vuole la testa di Giovanni Battista. La ragazza è della stessa indole della madre e, senza battere ciglio, si presenta al re e come ricompensa non chiede "metà del regno", ma chiede, sopra un vassoio, la testa di Giovanni Battista.
Erode è un pagliaccio, un uomo senza sostanza, un burattino nelle mani di queste donne che lo usano in modo perverso. Erodiade è una figura tremendamente negativa, che ha usato prima Filippo e adesso sta usando Antìpa, sta cercando il potere per sé usando questi uomini della famiglia, per cui la persona forte è lei ed è una donna legata al male, che vive per il male: ella non aveva accettato il rimprovero che il Battista aveva mosso ad Erode, perchè l'aveva messa in cattiva luce (“Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello” (Mc. 6:18)) e si era nutrita di un profondo rancore nei suoi confronti. La sua vendetta arriva alla morte, in modo deciso e violento. Erode se ne dispiace, non vorrebbe giungere a questo, ma non osa venire meno al giuramento, all’impegno che ha preso di fronte ai commensali, per cui preferisce commettere questo atroce delitto e mantenere la promessa che superficialmente aveva fatto: la testa di Giovanni Battista viene portata alla ragazza che a sua volta la consegna alla madre, finalmente contenta perché ha fatto tacere per sempre il .Battista.
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LA PECCATRICE SENZA NOME che lava i piedi a Gesù con le lacrime.
     Troviamo un caso molto importante, raccontato da Luca al capitolo 7. È un episodio che Luca delinea con grande finezza mettendo in scena una donna peccatrice, senza specificare quale ambito di peccato fosse quello che la caratterizzava e senza dirne né il nome né la condizione, al punto di farla diventare una figura simbolica dell’umanità penitente; questa donna è messa in contrasto con la figura maschile di Simone il fariseo, un uomo integro, osservante della legge, che ha invitato a pranzo Gesù (7:36) e che si trova seriamente imbarazzato di fronte all’intrusione di questa donna. Dobbiamo immaginare una scena di pranzo all’interno di una casa - probabilmente nel cortile con accessi sulla strada per cui è facile anche per un estraneo entrare nella sala del banchetto - : mentre Gesù è ivi a mensa con molti altri, improvvisamente compare la donna che si butta sotto il tavolo. Colui che ha invitato Gesù resta bloccato, si vergogna; del resto, basta mettersi nei suoi panni e provare come si sentirebbe chiunque di noi se, avendo un invitato di riguardo in casa, si vedesse entrare un estraneo, persona di malaffare, che si butta sotto il tavolo; rimarremmo come minimo imbarazzati, immaginando la figura che faremmo e cosa penserebbe l’ospite.
Certamente, la prima idea passata per la testa di Simone fu che con tale donna in casa avrebbe fatto brutta figura di fronte a Gesù. Ma subito dopo si chiese come potesse Gesù lasciarsi toccare da una donna simile ed arrivò a dubitare che il suo ospite fosse realmente un profeta, in grado di capire e di valutare le persone: "A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice»" (Lc. 7:39). Insomma, secondo il fariseo, Gesù non solo non avrebbe dovuto permettere a quella donna di toccargli i piedi, ma avrebbe anche dovuto energicamente allontanarla da sé.
Luca dimostra quindi conosce anche i pensieri di Simone il fariseo: egli sa scrivere bene, per cui presenta al suo lettore anche il pensiero del personaggio. Tuttavia, si può dubitare che si tratti di un fatto realistico, perché quando chiunque di noi assiste ad una scena, difficilmente riesce a capire cosa stia pensando un altro. Questo, perciò, è il classico racconto in cui si dice che il narratore è onnisciente, che sa tutto di tutti, anche i pensieri dei singoli personaggi. Un autore che permette così al lettore di entrare dentro ai cuori e, in questo modo, di svelarne le intenzioni per mettere in evidenza il senso di ciò che sta avvenendo.
Non appena Simone ha pensato "questi non è un profeta, altrimenti non si lascerebbe toccare", Gesù interviene ad alta voce dicendo: "«Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, di’ pure» (7:40). In questo contesto viene collocata una parabola (sappiamo che la parabola è un argomento dialogico, cioè un modo per fare ragionare l’interlocutore affinché prenda posizione e formuli un giudizio) con cui Gesù cerca di farsi comprendere da Simone e gli racconta il caso di due debitori a ciascuno dei quali un tale condonò i debiti: uno ebbe un condono piccolo, mentre l’altro ebbe un cospicuo condono. La domanda finale, quella che coinvolge Simone, è: "«Chi dunque di loro lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, guardando la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi, lei invece mi ha lavato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco ama poco». Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati »" (7:44-50).
Nel discorso di Gesù, facendo un confronto, vince la donna sul fariseo Simone; mentre questi in cuor suo la disprezza e si vergogna della sua presenza, Gesù la elogia, la paragona al padrone di casa e le fa i complimenti: Simone non gli ha dato l’acqua per i piedi, lei con le lacrime glieli ha lavati; lui non l’ha accolto con amicizia, ha mantenuto le distanze, lei non ha smesso di baciargli i piedi.
Il racconto ci lascia perplessi. È una scena strana, decisamente strana: pensiamo a come uno dovrebbe atteggiarsi per bagnare ad un'altra persona i piedi con le lacrime. Per prima cosa bisogna averle le lacrime, bisogna avere veramente da piangere e da piangere abbondantemente, non è così scontato piangere i propri peccati a dirotto. Poi, asciugare i piedi con i capelli porta ad un comportamento umiliante: stare in ginocchio ed in modo decisamente scomposto non è un gesto molto elegante bensì un atto di massima sottomissione in cui si perde la dignità. Il fatto stesso di mettersi sotto il tavolo fa sentire di essere un cane, un animale. Stare in ginocchio, rattrappiti, ai piedi di una persona; mettere gli occhi, il naso, la bocca vicino ai piedi di uno che cammina abitualmente scalzo, non sono gesti gradevoli e fini. Ma possono essere gesti che nascono da un atteggiamento dirompente di chi ha la percezione di avere sbagliato: essi manifestano il dolore dello sbaglio. Questa donna non sa niente di Gesù, lo ha solo sentito parlare e viene da domandarsi che cosa abbia detto Gesù per averle colpito il cuore in questo modo; l’evangelista non lo dice e possiamo solo immaginarlo. È evidente che questa donna ha ascoltato Gesù e qualche sua parola l’ha colpita, l’ha fatta piangere, le ha sconvolto il cuore, l’ha umiliata, ma nello stesso tempo le ha fatto nascere dentro una speranza di perdono; in quei gesti di umiliazione scorgiamo proprio il desiderio del perdono.
Gesù dice: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (7:47). Ci si domanda: allora è meglio peccare tanto? Di certo Gesù rimprovera al fariseo la superficialità, cioè la convinzione superficiale di assenza di colpe, perché gli manca la consapevolezza di una natura corrotta: se fa il bene è convinto che sia merito suo e invece non si rende conto che ha ricevuto tutto in dono; ama poco perché è convinto di avere ricevuto poco: il problema sta tutto qui. Ma facciamo conto che il povero Simone, a cui nessuna colpa si contesta apertamente, sia veramente un’anima pura? La peccatrice sa di non meritarsi niente, quindi può mortificare il suo io e buttarsi sotto la tavola, bagnare i piedi con le lacrime, asciugarli con i capelli. Ella è una "malafemmina" con la piena consapevolezza di un male e il desiderio di un cambiamento. Simone, invece, è un fariseo probabilmente innocente, che ha pensato di avere assolto con l’ invito a pranzo i suoi doveri di ospitalità. Perché lo vogliamo criticare?
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L’EMORROISSA e la leggenda di VERONICA.
     Nei Vangeli sinottici è presente il racconto di una donna anonima che viene miracolosamente guarita da un flusso di sangue toccando Gesù (Mt. 9:20-22; Mc. 5:25-34; Lc. 8:43-48). A parte questo accenno l'emorroissa non viene citata altrove nel Nuovo Testamento.
Oggi l’emofilia può essere una malattia come un’altra, mentre in quel contesto culturale era una malattia infamante che rendeva impura la donna che ne soffriva; era quasi co-me una lebbra che la metteva permanentemente in uno stato di impurità rituale. La donna dei vangeli si vergogna della propria condizione e Marco, con finezza un po’ ironica, dice che aveva girato molti medici, aveva tentato di tutto, aveva speso tutto quello che aveva, ma non era servito a niente, anzi, era peggiorata. Luca, che è della categoria medica, ricorda lo stesso fatto, ma senza dire che la donna aveva speso tanto e che non era servito a niente: i medici non erano riusciti a guarirla, è cosa che può succedere ed è comprensibile. Marco invece, che non è della categoria medica, può permettersi di fare dell’ironia. Il problema però non è questo; è che i medici non sono riusciti a guarirla e lei non chiede la guarigione a Gesù, si vergogna e si accontenta di toccargli il mantello. Sembrerebbe un gesto di venerazione, invece viene giudicato un gesto indegno: una donna nelle sue condizioni non deve permettersi di toccare il mantello di un maestro. Lei sa di essere impura e toccargli il mantello vuol dire contaminarlo; per di più, farlo di nascosto, dal punto di vista della mentalità legale giudaica, è un atto delinquenziale.
Questa donna tocca Gesù in mezzo alla folla e Gesù, dice Marco, sente una forza uscire da sé e domanda: "Chi mi ha toccato?". Gli apostoli reagiscono dicendo che in mezzo a tanta gente tutti lo stanno toccando, decine o centinaia di persone si accalcano intorno a lui perché vogliono toccarlo per avere un miracolo, quindi non comprendono la domanda. Ma è evidente che Gesù ha sentito un tocco diverso, che non è stato un tocco al corpo bensì al mantello. Gesù ha percepito la singolarità di quel tocco. Il cardinale Martini, anni fa, dedicò una lettera pastorale a questo episodio intitolandola proprio "Il lembo del mantello". È sufficiente toccare il lembo del mantello di Gesù per essere guariti e quella donna sente immediatamente di essere stata guarita; a quel punto, rendendosi conto di essere colpevole, si fa avanti e dice a Gesù tutta la verità, si confessa. Lei temeva fortemente di essere rimproverata, invece Gesù non la rimprovera ma la elogia come persona di fede : “Figlia: la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male” (Mc. 5:34). Un fine gioco di rapporto fra colpevolezza e malattia : si può vedere come anche le figure femminili negative, rientrano nel discorso evangelico come esempi di fede: il loro è l’atteggiamento delle persone che si rendono conto del proprio male e riconoscono che il Cristo le può guarire, le può perdonare, può dargli la capacità di superare il male. Ma se è di tale importanza il simbolismo dell’episodio perché lasciare la protagonista nell’anonimato?
Nell'apocrifo "Vangelo di Nicodemo", scritto originariamente in greco nel II secolo, e pervenutoci in diverse redazioni o recensioni, l'emorroissa ricompare durante il proces-so di Gesù testimoniando inutilmente a suo favore. Nella recensione greca (cap. 7, tr. it.) l'emorroissa è ancora anonima, mentre nel papiro copto di Torino (cap. 5, tr. it.) e nella recensione latina (cap. 7, tr. it.) la donna è chiamata Veronica. Il nome è l'adattamento del greco "Berenice" (Βερενίκη), forma macedone corrispondente al greco classico "Ferenice" (Φερενίκη), significante "portatrice di vittoria" (φέρω = portare + νίκη = vittoria). È probabile che nel passaggio dal greco al latino l'assonanza del nome "Veronica" con “Vera Icon” (= “vera icona-immagine”) abbia progressivamente generato nella fantasia popolare la leggenda della "Vera icona", cioè della "Veronica". In passato si riteneva al contrario che il nome della donna fosse de-rivato dall'immagine.
La leggenda fa la sua prima comparsa in alcuni scritti apocrifi tardi appartenenti al “Ciclo di Pilato” (talvolta erroneamente citato come “Atti di Pilato”): “Guarigione di Tiberio”, “Vendetta del Salvatore” e “Morte di Pilato”. I tre scritti ci sono pervenuti in autonome redazioni latine medievali (rispettivamente del VIII, IX e XIV secolo) che derivano da una versione precedente andata perduta, probabilmente del VI secolo. La trama dei tre apocrifi è sostanzialmente la stessa: l'imperatore Tiberio gravemente ammalato invia a Gerusalemme Volusiano che punisce i responsabili della morte di Gesù, trova una sua immagine in possesso della Veronica, coincidente con l'anonima emorroissa sanata da Gesù (vedi Marco e paralleli), la conduce a Roma e grazie ad essa l'imperatore è guarito. Nel testo più antico della Guarigione di Tiberio (tr. it.), l'immagine di Gesù era usata dalla Veronica come cuscino e questo le procurava una buona salute. Aveva fatto dipingere l'immagine "per amor suo". Dopo la guarigione Tiberio adora l'immagine di Gesù e ordina che "fosse circondata di oro e di pietre preziose". Nella Vendetta del Salvatore (tr. it.) non è specificato se l'origine dell'immagine sul panno di lino sia miracolosa o dipinta. Il panno è conservato avvolto in un tessuto d'oro riposto in uno scrigno, è oggetto di venerazione ed è causa di miracoli. Nella Morte di Pilato (tr. it), il testo più recente, viene specificato invece l'origine miracolosa dell'immagine in possesso della Veronica: "Quando il mio Signore girava predicando, io con molto dispiacere ero privata della sua presenza; volli perciò dipingermi un'immagine affinché, privata della sua presenza, avessi un sollievo almeno con la rappresentazione della sua immagine. Mentre stavo portando un panno da dipingere al pittore, mi venne incontro il mio Signore e mi domandò dove andavo. Avendogli manifestato il motivo del mio viaggio, egli mi richiese il panno e me lo restituì insignito della sua venerabile faccia".
Va aggiunto che nel rito popolare della Via Crucis, sviluppato e consolidato nel basso medioevo, è presente una diversa versione della leggenda: la Veronica incontra Gesù durante la sua salita al Calvario e gli asciuga il volto con un panno di lino. In esso sarebbe rimasta impressa la immagine del Cristo. Questo panno di lino, noto come il "Velo di Veronica", è diventato una preziosa reliquia della cristianità. Considerato per secoli da milioni di cristiani come la vera immagine del viso di Cristo, a partire dal XII secolo (già nel 1300 Dante ne parla nel Canto XXXI del Paradiso, versi 103-111) e fino al 1608 il Velo di Veronica fu conservato ed esposto nella Basilica di San Pietro, in Vaticano. Nel 1608, anno in cui Papa Paolo V ordino' la demolizione della cappella dove era conservata la reliquia, che fu data agli archivi vaticani. Da allora non e' stata piu' vista e il Vaticano non ha mai spiegato la sua scomparsa. La preziosa reliquia e' stata poi ritrovata in un monastero dei frati Cappuccini a Manoppello, sull' Appennino, in provincia di Chieti. Nel 1999 il padre gesuita Heinrich Pfeiffer, docente di Iconologia e di Storia dell' arte cristiana all' universita' Gregoriana di Roma, dopo 13 anni di studi si dichiarò convinto dell’autenticità del Velo della Veronica ed a questo proposito face notare che sul margine inferiore del Velo di Manoppello si può ancora vedere un frammento di cristallo. Secondo altre fonti, la reliquia, di origine ignota, sarebbe giunta a Manoppello nel 1506, portata da uno sconosciuto pellegrino, scomparso senza lasciare traccia subito dopo aver consegnato il Velo al fisico Giacomo Antonio Leonelli, da questi poi donata al Monastero dei Cappuccini. La reliquia è tuttora conservata nel paese abruzzese, nell'omonimo Santuario. Il 1º settembre 2006, papa Benedetto XVI si è recato in visita privata a Manoppello, accolto dal vescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte e dai vescovi della Regione ecclesiastica Abruzzo-Molise, dai sacerdoti della diocesi teatina e da 7000 fedeli; ha fatto visita al santuario per venerare l'immagine, senza peraltro pronunciarsi sul fatto che il Volto possa essere o meno un'immagine acheropita e che possa essere rapportata alla tradizione Veronica. Però, dopo tale visita papa Benedetto XVI ha elevato il santuario a Basilica minore.
Così fatti meramente leggendari, oggetto di credenza popolare, rischiano di diventare fatti storici.
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MARTA e MARIA DI BETANIA e la diversa indole delle sorelle di Lazzaro.
     Sono citate in tre occasioni: 1) In Luca 10:38-42: “Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta»”. 2) In Giovanni 11:1-46 : le due sorelle mandano a chiamare Gesù perché venga a guarire Lazzaro che si è ammalato, ma Gesù si attarda e quando giunge Lazzaro è già morto. Gesù dialoga con Marta e ottiene da lei una professione di fede: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo». Quindi Gesù si reca al sepolcro e risuscita Lazzaro. 3) In Giovanni 12:1-8 : Lazzaro e le sue sorelle ospitano Gesù a cena; Marta serve a tavola. Durante la cena Maria cosparge i piedi di Gesù con un unguento molto prezioso e li asciuga con i propri capelli. Il fatto è riportato anche da Matteo (Mt. 26:6-13) e da Marco (Mc. 14:3-9), che però non nominano le due sorelle e situano la cena in casa di Simone il lebbroso.
La prima pagina in cui si incontra la famiglia di Betania è quella di Luca, al capitolo 10. Ed è quella che ci permette di delineare subito la contrapposizione caratteriale delle due sorelle La prima attrice ad entrare in scena è Marta. Da come si comporta ella sembra essere la sorella maggiore, dato che si presenta come la padrona di casa. A lei il primo grande merito: quello di accogliere un viandante, un uomo in cammino, Gesù. La sua disponibilità ad offrire il calore e la quiete di una mensa ad uno sconosciuto, fanno di lei un autentico modello di sensibilità e prossimità al bisognoso: il paradigma incarnato del perfetto ospite. L’ospitalità consiste, infatti, non solo nella Bibbia, ma in tutto il Vicino Oriente Antico, principalmente nell’accoglienza, nell’apertura verso lo straniero. Donna di pietà, di compassione, di misericordia, pronta ad accogliere, Marta si mostra capace di assolvere al sacro dovere dell’ospitalità ed a tutti i servizi che essa richiedeva. “Marta si dava da fare, in molto servizio” (10:40). Ella ha solo il suo lavoro nella testa. Crede che solo quello sia necessario. Non pensa che il suo servizio. Perciò esige che sua sorella l’ aiuti. Cos’altro avrebbe da fare? È una donna come lei e alle donne sono riservati i lavori domestici, in special modo quando c’è un ospite. Marta conosce le regole e pretende che sua sorella le rispetti. Non solo pretende che le rispetti Maria, ma persino Gesù. “Fattasi avanti disse: «Signore non ti curi che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?»” (10:40). In quel suo deciso movimento e in quelle sue asciutte parole c’è, innanzitutto, un latente rimprovero per Gesù. Come mai non si accorge delle omissioni della sorella? Perché ci si mette anche Lui a farle perdere tempo? “Dille dunque che mi aiuti” (10:40). Marta non richiama direttamente sua sorella, ma esige che sia un uomo a farlo, qualcuno che può vantare autorità su una donna. E veniamo a Maria. Essa viene ritratta ai piedi di Gesù (10:38). La immaginiamo accovacciata, con le braccia che gli abbracciano le ginocchia. E subito emerge la differenza con Marta: quella in piedi che non si ferma un minuto; questa seduta e assolutamente assorta, che solleva lo sguardo verso gli occhi di Lui: proprio come Abramo quando ricevette la visita dei tre uomini a Mamre: “alzò gli occhi guardò e vide tre uomini che stavano in piedi presso di lui” (Gn. 18:2). Dunque, quella un simbolo di vita attiva, questa un simbolo di vita contemplativa. Si dice che Maria non compia un gesto di sottomissione, piuttosto si ponga nella posizione di chi ascolta e di chi, ascoltando, arde ed apre il desiderio della sua anima.
In Giovanni, al capitolo 11, la differenza dei comportamenti trova una chiara conferma. Ritroviamo una Marta addolorata per la morte del fratello Lazzaro. Ormai conosce Gesù e lo aspetta con ardore, ora che Lazzaro, suo fratello è morto. Saputo che Gesù, stava arrivando ella, infatti: “andò incontro a Gesù”(11:20). E sarà lei ad avvisare Maria della venuta di Gesù dicendole “Il Maestro è qui e ti chiama” (11:28). Ma quale gesto di ospitalità presta invece Maria, ora che suo fratello Lazzaro è morto? Mentre Marta esce incontro a Gesù lei “se ne stava seduta in casa” (11:20) e soltanto quando Marta le disse che Gesù era arrivato e la chiamava ella “si alzò in fretta ed andò da lui” (11:29). Seguiamo il racconto: “Maria visto dov’era Gesù si gettò ai suoi piedi dicendo «Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto»” (11:32). Su quei piedi ella versò una liturgia di lacrime, finché non piansero anche i Giudei che erano venuti e Gesù. Quelle lacrime sull’orrore della morte, quel pianto di Maria, di Gesù e di tutti i Giudei (11:33-38), quel segno inconfondibile di amore, presero forma nel grido di Gesù davanti al sepolcro scoperto: “Lazzaro vieni fuori” (11:43). E Maria si prende il merito della resurrezione di suo fratello ed è chiamata ad essere testimone ed apostolo del miracolo: “Molti dei Giudei, infatti, che erano venuti da Maria, alla vista di quel che Egli aveva compiuto, credettero in Lui” (11:45).
Ma vi è di più. In Giovanni, capitolo 12, assistiamo alla cena che Gesù ed i suoi apostoli consumano, proprio a Betania, sei giorni prima della Pasqua, a casa dei tre amici: Marta, Maria e Lazzaro risorto (12:1). Vediamo come si svolse : “Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo “(12:2-3). Marco e Matteo, nel testo parallelo, parlano di unzione “del capo di Gesù”, dato che sul capo venivano unti i re. Giovanni invece parla di unzione dei piedi. Era una pratica di ospitalità quella di ungere i polsi ed i piedi dell’ospite, dopo averli confortati di una lavanda calda. Ancora i piedi. Quegli stessi piedi ai quali ella, in Luca, capitolo 10, sedeva ascoltando la sua parola. Ma sempre di piedi si tratta, tant’ è che Giuda Iscariota, uno dei discepoli, non può trattenersi dall’osservare: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?” Ora, lasciando stare che Giovanni esclude che l’intervento di Giuda sia provocato da un amore sincero verso i poveri, perché, da ladro e da cassiere del gruppo, quale egli era, soleva impossessarsi di tutto ciò che entrava in cassa, non mi sembra che la risposta di Gesù manifesti un’appro-vazione incondizionata della condotta di Maria. Egli infatti dice: “Lasciala fare, che questo unguento conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avrete sempre con voi, ma non sempre avrete me” (12:4-8).
A questo punto v’è da tirare le somme. Marta e Maria sono state entrambe santificate dalla Chiesa, ma la nostra simpatia a chi deve andare? A Marta ed al suo attivismo pratico o a Maria ed al suo spiritualismo estatico?
In Luca Marta e Maria entrano chiaramente in conflitto di fronte a Gesù: entrambe vogliono servirlo, sebbene in maniera diversa. Marta ha accolto Gesù, però quella che in realtà gli dedica la maggiore attenzione e tutto il suo tempo è Maria. Marta è distratta con tante cose da fare, Maria invece è concentrata sulle parole di Gesù. Quindi l’infor-mazione del narratore presenta una connotazione negativa: in certe occasioni il troppo servizio può anche essere dispersivo. La reazione di Marta è immediata e si lamenta direttamente con il Signore, perché si trova a dover fare tutto il lavoro da sola. Essa è distratta non per volere suo, ma perché deve portare tutto il peso del lavoro. In un certo modo, Marta ha ragione. Se il lavoro è condiviso, diventa più leggero e si finisce prima. Se Marta è distratta è per colpa di Maria che l’ha lasciata sola. “Dille dunque che mi aiuti”, dice a Gesù, però questi non accede alla sua richie-sta e nvece di rivolgersi a Maria per rimproverarla a causa della sua negligenza, Gesù risponde a Marta: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno”. Una risposta sorprendente, come quella data alla donna che aveva fatto un bel elogio di sua madre: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc. 11:28). Una cosa sola è necessaria: cercare il Regno di Dio (Lc. 12:31). E per trovarlo bisogna lasciare tutto. Gesù è dalla parte di Maria e la povera Marta è implicitamente rampognata. A parer nostro ingiustamente, perché senza il suo instancabile indaffararsi in casa la stessa Maria non avrebbe avuto l’opportunità di dedicarsi interamente ad ascoltare alla parola del Signore. E, poi, non era stato Gesù stesso che, qualche giorno prima, spiegando ad un dottore della legge chi fosse il prossimo da amare come se stesso, aveva raccontato la parabola del buon Sama-ritano (10:25-37), cioè di colui che aveva operosamente soccorso il viandante aggredito dai briganti e lo aveva curato ed assistito in tutti i modi? Il buon Samaritano non era uno che aveva fatto del bene e la carità offrendo un concreto aiuto allo sfortunato, non limitandosi ad averne solo compassione? Con il racconto Gesù non aveva voluto dire che il “fare” viene prima dell’ “ascoltare”? Ora, perché, contraddittoriamente, non elogia anche l’alacrità di Marta? Vogliamo ignorare che qualche secolo dopo, il pragmatismo monastico dissentirà apertamente da Gesù imponendo la regola del “Ora et labora”?
Inoltre, in Giovanni, capitolo 11, Marta si afferma non solo come donna di iniziativa e di azione, che sa come si gestisce l’ospitalità, come si amministra la misericordia e come si prepara una casa dove si possa ospitare Gesù, ma anche come donna di fede provata. Lazzaro si ammala e Marta e Maria gli mandano a dire : “Signore, ecco, il tuo amico è malato”. Esse lo chiamano, ma Gesù se la prende comoda: Lazzaro deve morire ed i discepoli devono constatare che Lui lo risveglierà, affinchè possano credere (11:1-15). Gesù giunge a Betania con i discepoli quattro giorni dopo la morte di Lazzaro. Marta non appena sa che Gesù è arrivato gli va incontro. Marta, donna realista, si muove subito, Maria, donna di ascolto e di adorazione, se ne resta seduta ad aspettare. L’incontro tra Gesù e Marta è un dialogo teologico. Marta, è diretta ed esplicita, non piange, non prega (come farà in seguito Maria), ma constata una realtà : “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Aggiunge però una seconda parte dove emerge la sua speranza. Lei confida pienamente in Gesù: “Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. Marta pone la sua fede nelle mani di Gesù, nella sua intercessione. Gesù risponde con una frase ambigua: “Tuo fratello risusciterà” e Marta, da buona credente, ribatte: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Gesù non lascia passare l’occasione e aggiunge motivi nuovi affinché la fede di Marta possa continuare il suo processo di personalizzazione. Ed insiste: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo?”. Una domanda che mostra il rispetto di Gesù verso Marta, verso il suo processo di fede, verso la sua libertà. E finalmente Marta fa la sua confessione di fede in prima persona: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (11:21-27). La fede prima ha avuto luogo nella comunicazione e poi nel segno. Marta ha creduto prima del miracolo. Gesù si è rivelato a Marta, e Marta nella sua confessione di fede ha rivelato chi è Gesù per lei. Non solo, Marta dice a Gesù anche quello che lui non ha detto di se stesso.
Dunque, alla fine, è Marta (in aramaico antico il nome Marta significa "maestra"), e non Maria, la vera discepola di Gesù. Lei sa accogliere l'ospite come si conviene, ma a differenza di Maria che sa solo ascoltarla, Marta sa anche interpretare, come una teologa, la parola di Gesù.
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La SAMARITANA vis-a-vis con Gesù il giudeo: un incontro-confronto “bipartisan”.
     Così racconta Giovanni in 4:1-42: “ I farisei avevano sentito dire che Gesù battezzava e faceva più discepoli di Giovanni - sebbene non fosse Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli - Quando Gesù lo seppe, lasciò il territorio della Giudea e se ne andò verso la Galilea. Per andare in Galilea, Gesù doveva attraversare la Samaria. Così arrivò alla città di Sicar. Lì vicino c'era il campo che anticamente Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe, e c'era anche il pozzo di Giacobbe. Gesù era stanco di camminare, e si fermò seduto sul pozzo. Era circa mezzogiorno. I discepoli entrarono in città per comperare qualcosa da mangiare. Intanto una donna della Samaria viene al pozzo a prendere l'acqua. Gesù le dice: «Dammi un po' d'acqua da bere». Risponde la donna: «Perché tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono samaritana?» I Giudei infatti non avevano buoni rapporti con i samaritan. Gesù le dice: «Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva». La donna osserva: «Signore, tu non hai un secchio, e il pozzo è profondo. Dove la prendi, l'acqua viva? Non sei mica più grande di Giacobbe, nostro padre, che usò questo pozzo per sé, per i suoi figli e per le sue bestie, e poi lo lasciò a noi». Gesù risponde alla donna: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete. Invece, se uno beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; l'acqua che io darò diventerà per lui sorgente per l'eternità». La donna dice a Gesù: «Signore, dammela quest'acqua, così non avrò più sete e non dovrò più venire qui a prendere acqua». Gesù dice alla donna: «Và a chiamare tuo marito e torna qui». La donna gli risponde: «Non ho marito». Gesù le fa: «Giusto. E' vero che non hai marito: ne hai avuti cinque di mariti, e l'uomo che hai ora non è tuo marito». La donna esclama: "Signore, vedo che sei un profeta! I nostri padri samaritani  adoravano Dio su questo monte; voi in Giudea, dite che il posto per adorare Dio è a Gerusalemme»: Gesù le dice: «Voi samaritani adorate Dio senza conoscerlo; noi in Giudea lo adoriamo e lo conosciamo, perché Dio salva gli uomini cominciando dal nostro popolo. Ma credimi: viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme, viene un'ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio". La donna gli risponde: "So che deve venire un Messia, cioè il Cristo, l'inviato di Dio. Quando verrà, ci spiegherà ogni cosa». E Gesù: «Sono io il Messia, io che parlo con te»”. A questo punto il dialogo si interrompe perché giungono i discepoli e si meravigliano che egli stesse a discorrere con una donna. Intanto questa lascia la brocca, va in città ed invita la gente ad andare a vedere un uomo che forse è il Messia. “Molti samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo»”.
L'episodio della Samaritana costituisce il più lungo dialogo riportato da tutti i Vangeli. Ed è importante perchè a parlare con Gesù sia una donna, e perchè l'interlocutrice riunisce in sé una triplice irregolarità: è donna, poi è samaritana, quindi malvista; la sua vita, infine, non è stata irreprensibile (è stata sposata cinque volte e adesso è una con-cubina). Soprattutto non si deve dimenticare che tra Ebrei e samaritani non correva buon sangue da quando quest’ ultimi si erano formati un regno ed un culto autonomo. Erano degli scismatici, e per di più mescolati con coloni stranieri (assiri) praticanti culti pagani. I rapporti erano improntati ad ostilità. Perciò, la donna si meraviglia che un giudeo le chieda dell'acqua. Essi appartengono a due popoli diversi ed antagonisti. Inoltre Gesù dichiara che chi le ha chiesto da bere è un giudeo che può farle dare molto da Dio e che se ella sapesse sarebbe lei a chiedergli da bere ed egli le darebbe “acqua viva”.
Tralascio il significato teologico che gli esegeti cattolici conferiscono a tutto l’episodio. Mi piace invece rilevare con quanto virtuosismo dialettico la Samaritana cerca di indurre Gesù a chiarire la sua personalità : "Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?" La domanda della donna ha una curiosità motivata dal fatto che giudei e samaritani discutevano molto su quel punto. Sennonchè, Gesù si serve della domanda per fare una rivelazione più importante. La domanda della donna è racchiusa nel pas-sato, Gesù la costringe a guardare al futuro e a prendere coscienza che nel mondo è arrivata la novità tanto attesa e che questa rinnova il problema dalle fondamenta: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete”. Allora, la donna diventa stringente: ”So che deve venire il Messia: quando egli verrà ci annunzierà ogni cosa”. Gesù è costretto a rivelarsi: “Il Messia sono io che ti parlo”. Poco prima le aveva dimostrato di conoscere i suoi precedenti coniugali poco edificanti: “…infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito”, per cui ella può riconoscergli le qualità del profeta e dire alla sua gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia egli il Messia?".
La Samaritana, se ben ci pensiamo, è rea confessa e nulla è detto di un perdono concessole. Soltanto ha il merito di non mentire quando ammette di non avere marito. Possiamo supporre non avesse il senso del peccato; nessun accenno o gesto in merito. E sicuramente le manca il fondo religioso: lo si comprende dalla problematica che imposta e dal fatto che al sopraggiungere dei discepoli, mossa dalla rivelazione e da un inizio di pentimento, va a fare "pubblica confessione" ai concittadini: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?” e li invita a chiarire un pro-blema tanto importante. Il chiarimento avviene: i Samaritani credettero in Gesù sia per le parole della donna, sia per le parole dello stesso Salvatore.
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L’ADULTERA, una peccatrice che se la cava grazie ad un’ispirata provocazione di Gesù.
     Nel capitolo 8 di Giovanni gli scribi ed i farisei del tempio portano a Gesù una donna scoperta in flagrante adulterio, la pongono in mezzo e chiedono a Gesù, per metterlo alla prova, cosa pensava doversi fare dal momento che Mosè aveva ordinato di condannare donne di tal genere alla lapidazione. Gesù prima si distrae mettendosi a scrivere per terra con il dito, poi, sollecitato a dare una risposta, interviene con una battuta sapienziale: "Lapidatela pure, però cominci chi di voi è senza peccato!"; e, chinatosi nuovamente, si rimette a scrivere per terra. L’autore del brano non ci dice che cosa abbia scritto e stia scrivendo con quel dito; è un’immagine enigmatica ed una domanda alla quale non possiamo dare alcuna risposta perché non abbiamo alcun elemento per trarre delle conclusioni. Tuttavia è evidente che Gesù, davanti alla drammaticità della situazione (è in gioco la vita di una donna), assume ostentatamente un atteggiamento di "nonchalance", quasi a voler intendere : “La decisione è vostra. Io vi ho suggerito solo un criterio di giudizio”. Di fatto gli accusatori se ne vanno, non resta più nessuno, rimane soltanto Gesù con la donna là nel mezzo e Gesù, come sorpreso dal dileguamento degli accusatori, evidentemente non meno peccatori dell’adultera, le dice: "Donna, nessuno ti ha condannata?". Alla risposta “Nessuno Signore” le dice: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (8:11).
È importante quel vocativo "donna" che ricorre in altre occasioni nel Vangelo di Giovanni. A Cana di Galilea Gesù parla con la Madre chiamandola "donna": "Che c’è tra te e me, donna? (Gv. 2:4)"; alla samaritana rivolge la stessa parola: "Credi a me, donna!" (Gv. 4:21). Adesso, a questa adultera rivolge la domanda: "Donna, nessuno ti ha condannata?". Anche per le circostanze in cui è pronunciata nella parola “donna” par quasi di udire un tono di insofferenza o di malcelata sufficienza. Indubbiamente, c’è il persistere in Gesù di una convinzione comune al mondo ebraico: l’inferiorità della donna e la sua poca considerazione nella vita pubblica. Lo dimostra quello scarso iniziale interessamento del Messia alla vicenda ed, alla fine, anche il perdono da Lui facilmente elargito perché non preceduto da una manifestazione di effettivo pentimento. Un perdono che l’adultera non sembra aver meritato; un perdono, insomma, guadagnato a buon mercato.
APPUNTO FINALE
Quello di Luca è il vangelo che narra in maggior numero storie di donne. È l’unico che ci racconta la storia di Elisabetta, moglie di Zaccaria (1:5-45): di Maria di Nazaret (1:26-56); di Anna la profetessa (2:36-38); della vedova di Naim (7:11-17); di Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode (8:1-3); di una certa Susanna (8:1-3); della donna curva, guarita dallo spirito che la possedeva (13:10-17); della donna che cerca la moneta perduta (15:8-10); della vedova insistente che attende ed ottiene giustizia (18:1-8) e delle donne che piangono Gesù in cammino verso il Calvario (23: 26-31). Sono tutte esclusive narrazioni di Luca, anche se nel suo vangelo troviamo altre storie di donne che hanno la loro parallela comparsa nei vangeli di Marco e di Matteo, come ad esempio la storia della suocera di Simone in preda alla febbre(4:38-39); della figlia di Giairo che muore e che Gesù fa risorgere (8:40-56); della donna che impasta il pane (13:20-21); della vedova povera che dona tutto quanto ha (21:1-4). Ma sono tutte storie minori.
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