giovedì 28 giugno 2012

ATTENTO ALLE REGOLE (Lettera al nipote)

Carissimo, ti parlai del senso della vita, dello scopo della vita e del mestiere di vivere, postulati essenziali del discorso che mi accingo a fare. Ora, per entrare nel vivo di questo discorso, devo parlarti delle “regole”. 
Attento. Non appena scenderai in campo per giocarti la partita della vita, avendo scelto e stabilito gli obiettivi desiderati, ti imbatterai in una montagna di regole con le quali dovrai fare i conti. Ragazzo, la comunità in cui viviamo è un grosso edificio che poggia su un complesso sistema di principi morali e pratici tradotti in stringenti precetti comportamentali. Davanti a questo sistema, dovrai affrontare un grande dilemma : uniformarti al sistema e rispettarne i precetti o ignorare i pesanti vincoli e gli onerosi doveri che esso comporta, privilegiando l’eccitante carpe diem di cui sappiamo?

Ascolta, voglio svelarti come io stesso, posto davanti al prefato dilemma, optai, non senza qualche rischiosa esitazione, per il corno meno puntuto e più rassicurante (ogni dilemma è biforcuto!). Accadde, infatti, che il buon senso di cui madre natura mi aveva dotato ed il senso comune acquisito attraverso una buona educazione familiare e religiosa mi suggerirono il criterio di scelta del “ccà nisciuno è fesso”, sapendo : a) che il “fesso” è lo stupido che si complica la vita remando controcorrente o che, addirittura, se la brucia per il gusto di fare del futile protagonismo trasgressivo; b) che, sulla banda opposta, sta il “cazzimmoso” (aggettivo sostantivato in uso nella lingua napoletano con il significato di “egocentrico”, “opportunista”, “smaliziato”, “competitivo”, “cattivello dotato di acume” (1)), cioè colui che non volendo restare al palo nella corsa al benessere, alla sicurezza ed alla felicità si “adatta” al sistema e fila diritto verso i suoi traguardi. Con ciò non voglio avviarti alla “cultura del conformismo”, cioè alla tendenza a uniformarti passivamente ad opinioni, usi e comportamenti già definiti in precedenza e politicamente o socialmente prevalenti; in altri termini, a soggiacere acriticamente alle regole di uso comune. Lo spirito di adattamento o di adeguamento che supporta il cazzimmoso è tutt’altra cosa : è l’intelligenza di capire che l’utilità personale viene prima dell’ ideologia dell’anticonformismo, cioè di quel voler essere sempre “fuori” e “al di sopra” delle idee normalmente condivise dalla maggioranza. Per altro, è stato ben detto che “L’anticonformismo a tutti i costi crea un conformismo – il conformismo dell’anti-conformismo – molto più oppressivo e massificante di quello che si suole combattere” (2). Dammi retta, segui il mio esempio, visto che non me n’è venuta male. Ma se non bastassero le mie considerazioni con annesse rassicurazioni, sappi che secondo il pensiero del fondatore dell’edonismo etico, il movente che determina e guida le nostre azioni è il conseguimento della massima felicità, ovvero del massimo benessere personale e generale, in vista del quale non è possibile agire ignorando le conseguenze dei propri atti e le particolari circostanze in cui ci si muove; è, anzi, moralmente doveroso valutare le caratteristiche fattuali delle situazioni in cui si opera. Il che significa che l’individuo deve avere la capacità di adattare la propria azione alla realtà del mondo esterno ed è perciò eticamente legittimo che si comporti con quella duttilità e quell’egoismo (quest’ultimo inteso come il self-love inglese, come “amore di sé”) che gli permettono di perseguire il maggior utile possibile (3).

Frattanto, sarà bene fornirti qualche ragguaglio sull’origine delle regole. La regula (dal latino regere, “dirigere”) era il “regolo”, l’asticella di legno usata per tracciare linee dritte : di qui il significato di “norma” (dal latino norma, “squadra”), cioè, figurativamente, di “precetto", morale o giuridico o tecnico, riferibile ad una formulazione imperativa. Presso i Greci lo stesso concetto era espresso dalla parola nòmos, che significò “convenzione” e, poi, “legge scritta”. Perciò, ragazzo, quando qui si parla di regole ci si riferisce a quei principi che stabiliscono le “rette linee comportamentali” che gli individui devono seguire in determinati ambiti di vita.

Nel mito di “Ercole al bivio”, raccontato da Prodico il sofista, la donna virtuosa, antagonista della spudorata adescatrice che invitava il nerboruto viandante a percorrere la strada dei facili piaceri, espone al nostro eroe le regole cui avrebbe dovuto obbedire intraprendendo il giusto ma faticoso sentiero che gli indicava : “Se vuoi che gli dei ti siano propizi devi venerarli; se desideri che gli amici ti amino devi far loro del bene; se brami di essere onorato dalla tua città devi esserle utile; se vuoi che la terra ti produca frutti abbondanti la devi coltivare…” (4).

Quando il monachesimo cristiano (dal greco monos, “solo”, e monachòs, “solitario”) passò dalla fase dell’ascetismo (dal greco askesis, “esercizio spirituale”), cioè dalla fase dell’allontanamento dai parenti e dagli amici per vivere in solitudine nella meditazione e nella contemplazione di Dio, a quella del cenobismo (dal greco koinòs, “comune” e bìos, “vita”), cioè alla pratica della vita comunitaria nei monasteri, i “Maestri” fissarono le “Regole” con le quali organizzarono la vita dei singoli aggregati religiosi, disciplinando con severa obbligatorietà gli orari giornalieri del lavoro, della preghiera, dei pasti, della penitenza (dalle “Regole” fissate da San Benedetto, San Francesco, San Domenico, ecc., una volta approvate dai Vescovi o dai Pontefici, presero appunto vita gli Ordini denominati Benedettino, Francescano, Domenicano, ecc.) (5).

La storia insegna che gli uomini per vivere in comunità ebbero bisogna di darsi delle regole di condotta. Al fine di rendere possibile la pacifica e ordinata convivenza associativa gli uomini dovettero subito stabilire i limiti del loro agire individuale, di modo che ciascun membro della comunità sapesse quel che poteva o non poteva fare.

Come è noto, la prima spinta verso l’aggregazione gli uomini la ricevettero quando si accorsero della loro debolezza di fronte alla natura e della loro difficoltà a vivere isolatamente : essi, in effetti, si resero conto che “L’individuo non basta a se stesso” (6) e che “La vita solidale di gruppo può meglio realizzare i mezzi di sopravvivenza” (7). Nel corso dei secoli, dalle spontanee comunità primitive (“famiglie”, “clan”, “tribù”, “fratrie”) si passò a forme sempre più evolute ed articolate di vita associata (“città-stato”, “regni”, “principati”), dove la forza aggregante scaturì dal senso di appartenenza ad uno stesso territorio e ad una medesima tradizione culturale e dove i vincoli di solidarietà presero a rinsaldarsi intorno allo scambio di beni e servizi. Infine, si arrivò alle forme più moderne di società, fondate su basi contrattualistiche (8). Comunque, man mano che le comunità crebbero per numero di individui e per strutture organizzative, parallelamente l’insieme delle regole che le governava assunsero le caratteristiche di veri e propri sistemi normativi: da qui il brocardo latino, risalente alla Roma repubblicana, “Ubi societas ibi ius” (“Dove c’è una società, lì c’è il diritto”), con il quale si volle affermare il principio che la convivenza civile non può prescindere dalla esistenza di un complesso di norme idonee a disciplinare i rapporti degli individui tra loro e con l’autorità che li governa (9). Già Plauto aveva osservato che senza convivenza civile “lupus est homo homini” (“l’uomo è un lupo per l’uomo”) (10); e, molto tempo dopo, in sintonia con lui, Hobbes aveva considerato che senza un patto consociativo, in virtù del quale gli uomini rinunciano ad una parte dei loro diritti naturali, si ritorna alla condizione di vita del “Bellum omnia contra omnes” (“La guerra di tutti contro tutti”) (11).

Ma come si imposero le regole che resero possibile la pacifica e ordinata convivenza degli uomini? Le scoperte archeologiche e gli studi di alcuni pittogrammi hanno dimostrato che nelle comunità preistoriche il “capobranca” impartiva gli ordini per la caccia e poi spartiva la preda. Quindi, un soggetto dominante per forza, per carisma o per anzianità lanciava i comandi e, in un certo qual modo, regolava la vita ferina del gruppo (12). In seguito, con l’allargamento del gruppo e con il suo progressivo incivilimento, quei comandi furono diretti a disciplinare tutti gli aspetti della vita associata e si consolidarono in consuetudini di condotta (abitudini, usi, costumi) che, impregnate di magia e religione, venivano tramandate oralmente di generazione in generazione. In ultimo, con il costituirsi di veri e propri corpi sociali politicamente organizzati, all’azione regolatrice della tradizione orale si aggiunse, grazie all’avvento della scrittura, quella della “norma scritta”, ossia della “legge” : ciò segnò la nascita del "diritto positivo", con la cui espressione si intende una totalità di “regole legali” la cui vigenza non è affidata alla memoria della tradizione, bensì alla “pietra” o alla “tavola” di cera o di metallo su cui in origine venivano incise. Per altro, la materializzazione delle regole di condotta in atti scritti (“leggi”, “decreti”, “editti”, “epistole”, “rescritti”) costituì la risposta che i diversi assetti politico-sociali dettero, da una parte, all’esigenza delle popolazioni di ottenere la “certezza del diritto”, per porre fine agli abusi interpretativi delle norme consuetudinarie praticati dai detentori del potere; dall’altra, all’esigenza dei ceti dominanti di rafforzare la loro posizione di supremazia mediante la promulgazione di leggi intese a comprimere le libertà tradizionali delle genti. Ad esempio, le leggi di Dracone, considerato il primo legislatore ateniese, ebbero lo scopo di scoraggiare la commissione di ogni crimine che potesse minare l’ordine aristocratico della città (egli abolì la “vendetta personale”, fino ad allora praticata secondo l’uso consuetudinario); e Licurgo mise fine alle lotte intestine che travagliavano la Sparta dell’VIII secolo a.C. con l’approvazione di un ordinamento politico e sociale fortemente restrittivo della vita privata (è notevole che, al fine di formare cittadini di forti qualità morali e fisiche, l’educazione dei fanciulli a partire dai sette anni veniva sottratta alla famiglia ed affidata a strutture pubbliche) (13).

Va, tuttavia, ricordato che, nonostante il subentrare delle leggi scritte, le norme consuetudinarie continuarono a svolgere una profonda incidenza nella vita comuni-taria dell’antichità, tant’è che quando la legge scritta si pose in antitesi con i precetti fondamentali della tradizione se ne invocò la ingiustizia e la disapplicazione, in quanto contraria alla legge divina o di natura (14). Nell’ “Antigone” di Sofocle, Creonte, il re di Tebe, è costretto, in nome della legge divina che imponeva il dovere di seppellire i morti, a disattendere la legge della città che gli vietava di dare sepoltura al traditore Polinice (15). In effetti, bisognerà aspettare il sorgere degli Stati Nazionali per assistere, dal XV secolo in poi, alla completa “razionalizzazione” del diritto ed alla netta distinzione tra norma scritta e norma consuetudinaria (16).

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(1) Pino Imperatore : “De vulgari cazzimma”.

(2) Massimo Fini : “Il conformista. Contro l’anticonformismo di massa”.

(3) Henry Sidgwich : “Il metodo dell’etica”.

(4) Senofonte : “Memorabili”.

(5) Gregorio Penco : “Il monachesimo”.

(6) Aristotele : “Politica”.

(7) Emile Durkheim : “La divisione del lavoro sociale”.

(8) Ferdinand Tonnies : “Comunità e società”.

(9) Gennaro Franciosi : “La famiglia umana. Società e diritto”.

(10) Plauto : “Asinaria”, V.

(11) Thomas Hobbes: “Leviatano”.

(12) Louis Renè Nougier : “La famiglia umana. Società e diritto”.

(13) Aldo Schiavone : “L’invenzione del diritto in Occidente. Diritto e forma  specifica del disciplinamento sociale”.

(14) Guido Fassò : “Diritto naturale e storicismo”.

(15) Giovanni Cerri : “Legislazione e tragedia greca”.

(16) Mario Ascheri : “Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo”.







martedì 26 giugno 2012

OMAGGIO AL PADRE SOLDATO

Nell'articolo "L'artiglieria italiana negli Anni Venti", pubblicato sul portale di storia militare “icsm.it”, il redattore ci informa diffusamente sulle carenze qualitative e quantitative della nostra artiglieria nella Prima Guerra Mondiale, sia a livello di armamenti che a livello di personale militare di comando. Egli scrive che "La guerra mise in luce la scarsità e la mediocrità del materiale a disposizione ed in particolare la mancanza di bocche da fuoco campali leggere a tiro curvo" e che "L'artiglieria fu l'unica tra le armi combattenti ad iniziare il conflitto con una carenza di ufficiali subalterni alla quale si fece fronte con ufficiali di cavalleria destinati ad incarichi non tecnici", aggiungendo che "Con l'aumento delle batterie e la necessità di nuovi quadri i criteri di selezione furono resi meno rigorosi e gli standard qualitativi necessariamente abbassati". Dall'articolo si ricava che soltanto dopo la fine della guerra iniziò un vero processo di ammodernamento e di potenziamento dell'Arma, il che ci indurrebbe a credere che il contributo da essa dato alla vittoria fu di poca importanza.

Tali assunti non concordano pienamente con altre fonti storiche. Ad esempio, nel libro "L' artiglieria italiana nella Grande Guerra", a cura di Curami A. e Massignani A., Editore Rossato 1998, si legge che "All'inizio della guerra la maggior parte dell'artiglieria impiegata era del tipo leggero e di accompagnamento della fanteria, poichè i vertici militari avevano pensato di dover affrontare una guerra di movimento di breve durata. Quella che invece si rivelò una guerra di trincea e di posizione impose il rafforzamento dell'artiglieria pesante e di montagna, l'adeguato munizionamento della stessa, la riorganizzazione del trasporto del materiale bellico, il conforme aggiornamento tecnico, strategico e tattico dei comandanti di Corpi d'Armata. Il miracolo si compì entro il mese di marzo 1918!". D'altronde, lo stesso articolista non può fare a meno di annotare, riportando il pensiero del Generale Cadorna, che "Le operazioni di attacco della fanteria furono paralizzate dalla grande penuria di 'potenti' artiglierie' ". La quale affermazione dimostra che in principio non già di bocche da fuoco leggere si sentì la mancanza, bensì di pezzi pesanti. Ma, soprattutto, le sue informazioni non concordano con quanto mi raccontava con fierezza ed orgoglio mio padre, classe 1896, che fu artigliere nel 33° Reggimento di stanza sui dorsali e sulla cima del Monte Grappa e che partecipò alla cosiddetta Battaglia di Arresto del novembre-dicembre 1917 ed alla Battaglia del Solstizio del giugno 1918; battaglie nelle quali, grazie all'ottima preparazione degli ufficiali ed al grande spirito di sacrificio dei soldati addetti alle batterie dei cannoni da 149 mm. e degli obici da 150 mm., il Regio Esercito Italiano riscattò il rovescio di Caporetto e volse a suo favore le sorti della guerra.

Cicerone nel "De oratore" ammonisce che "La storia deve essere testimone dei tempi e della verità". E la verità, quella intera, è che l' Arma di Artiglieria contribuì in misura determinante al successo finale delle nostre truppe, sì da meritare la Medaglia d'Oro al Valore Militare con la seguente motivazione: "Sempre ed ovunque con abnegazione prodigò il suo valore, la sua perizia, il suo sangue, agevolando alla fanteria, in meravigliosa gara di eroismo, il travagliato cammino della vittoria per la grandezza della patria".