lunedì 15 aprile 2013

ISLAM, UNA RELIGIONE ESTREMA




"La Mecca : La Ka'bah"


L’ARABIA PREISLAMICA
L’ambiente geografico in cui sorse l’Islam è la Penisola Arabica, la cui popolazione era di origine semitica, come quella degli Ebrei. A Sud, la Penisola, con terre ricche d’acqua, e, perciò, molto fertili (i Romani chiamarono la regione Arabia Felix), fu popolata da gente tendenzialmente sedentaria che sin dal X secolo a.C. aveva raggiunto un apprezzabile livello di civiltà ed una lingua elaborata, la quale divenne la base dell’ ”arabo classico”. Qui sorse il leggendario Regno di Saba (l’attuale Yemen), retto da re e regine, una delle quali conobbe il re ebreo Salomone. Il Regno di Saba durò fino a quando l’ultimo re della dinastia himayarita si convertì all’ebraismo suscitando lo sdegno dell’Imperatore bizantino e del Re cristiano di Etiopia : que-st’ultimo occupò il territorio sabeo e ne fece una sua provincia. Nel 575 d.C. le armate persiane, oramai padrone di tutto il Golfo arabico, lo ridussero a satrapia (“governato-rato”) di quell’Impero. Invece, a Nord la Penisola, montagnosa, desertica ed arida, ad accezione di piccole zone denominate oasi, fu popolata da gente nomade che solo molto tardi, rispetto Sud, riuscì, grazie alla influenza ellenistica, a stabilizzarsi in alcuni centri di confine. Intorno a qualcuno di questi centri sorse, nell’attuale Giordania, il Regno dei Nabatei, con capitale Petra, divenuto, nel 105 d.C., ad opera dell’Imperatore Traiano, provincia romana; ed in Siria il Regno di Palmira, dal nome della capitale : qui, nel 265 d.C., l’ Imperatore romano Gallieno aveva nominato Odenato, un generale locale che lo aveva aiutato contro i Persiani, re di una modesta comunità sedentarizzata e già da lui capeggiata. Il Regno di Palmira, sotto Zenobia, che si era proclamata regina alla morte del marito Odenato, si estese in tutto l’Oriente romano (dalla Bitinia all’Egitto), finchè l’Imperatore Aureliano nel 273 occupò la Siria, ripor-tando tutta la regione nell’orbita romana. (Cfr. Francesco Gabrieli : “Gli Arabi”).
LA CITTÀ DI “MECCA”.
La Mecca (chiamata in arabo, in periodo pre-islamico, “Makka”, ovvero “Makka al-Mukarrama” (”Makka l’Onoratissimna”) è una città dell'Arabia Saudita occidentale, situata nella regione dell'Hegiaz. Capoluogo della provincia omonima, è per antonomasia la città santa (prima di Medina e Gerusalemme) per i musulmani. È la città in cui è nato il profeta Maometto, ricordato come fondatore dell'Islam. Contiene la più grande moschea del mondo, la Masjid al-Haram. Di essa non si sa molto prima dell'Islam. Centro di importanti scambi commerciali ("mawṣim") e di raduni spirituali, Mecca era dominata dalla tribù dei Banu Quraysh che l'avevano strappata ai Banu Khuza’a, originari dello Ye-men, a loro volta diventati signori del centro urbano ai danni dei Banu Jurhum.
La rilevanza commerciale dipendeva dal fatto che - come ricorda lo stesso Corano - i Quraysh organizzavano ogni anno almeno due gigantesche carovane che univano il me-ridione arabo (oasi di Najrān) al settentrione siro-palestinese (centro di Gaza). Queste carovane, che raggiungevano a volte la consistenza anche di quasi duemila dromedari e un numero imprecisato di asini, percorrevano l'intera tratta lungo la cosiddetta "via del Ḥijāz" in poco più di 60 giorni e sostavano lì dove era possibile far abbeverare bestie e uomini. Una di queste soste era appunto la città di Mecca, nella spianata che ospitava il santuario preislamico della Ka'bah. L'importanza spirituale era direttamente collegabile proprio a questo edificio sacro. Inizialmente esso custodiva la divinità tribale urbana di Ubal, ma presto, per agevolare la sosta dei carovanieri e dei pellegrini, nella Ka'bah furono accolti numerosissimi altri idoli, venerati dalla maggior parte delle popolazioni arabe peninsulari, che furono distrutti nel 630 dal profeta Maometto subito dopo aver conquistato la sua città natale.
Secondo la tradizione islamica (cfr. Corano, Sunnah e Hadith vari), il patriarca Abramo condusse Agar e il loro figlio Ismaele verso l'interno dell'immenso deserto a nord della penisola Araba, dove, in una desolata valle a sud della terra di Canaan, vennero presi dalla sete ed Agar temette per la vita del bambino. Salì su una roccia per vedere se vi fosse qualcuno che poteva aiutarli. Non vedendo nessuno corse verso un’ altura, anche questa volta senza esito. In preda al panico, la donna corse sette volte da un punto all'altro, finché alla fine della settima corsa, stremata, sedette a riposare su una roccia. Apparve l'angelo, che le ordinò di alzarsi e di sollevare il fanciullo. Le annunciò che Dio avrebbe creato, per mezzo di Ismaele, una grande nazione. Quando riaprì gli occhi, Agar vide una sorgente d'acqua scaturire dalla sabbia proprio nel punto in cui in tallone del bambino aveva premuto il terreno. Da allora la valle divenne luogo di sosta per le carovane che percorrevano il deserto, poiché l'acqua era buona e abbondante: il pozzo prese il nome di Zamzam. Un giorno Abramo fece visita al figlio e Dio gli mostrò il punto esatto, vicina al pozzo, sul quale lui e Ismaele dovevano edificare un santuario. Spiegò loro come doveva essere costruito: il nome dell'edificio, derivato dalla sua forma, sarebbe stato Ka'bah, ovvero il Cubo. I quattro angoli dovevano essere orientati secondo i punti cardinali, e in quello orientale doveva es-sere collocata l'oggetto più santo: una pietra d'origine celeste e di colore nero. Quando l'edificio della Ka'bah fu completato, Dio comandò ad Abramo di istituire il rito del pellegrinaggio alla Mecca: “Purifica la mia Casa per coloro che l’aggirano, si fermano in piedi vicino ad essa e si inchinano e fanno le prostrazioni. E proclama agli uomini il pellegrinaggio, in modo che essi possano venire a te su snelli cammelli, da ogni profonda vallata" (Corano, Sura XXII, 26-27).
Il grande pellegrinaggio alla Mecca, così come venne istituito da Abramo, doveva avere luogo una volta l'anno, ma altri minori potevano essere compiuti in qualsiasi momento. In numero sempre crescente, da tutte le patti dell'Arabia e da altri paesi, i pellegrini iniziarono il loro afflusso alla Mecca.
Il pozzo di Zamzam divenne un piccolo spiazzo detto Hijr Ismà'il, perché sotto le pietre che lo pavimentavano erano state poste le tombe di Ismaele e Agar. Una notte 'Abd al-Muttalib, mentre dormiva in quel luogo, come amava fare per essere più vicino possibile alla Casa di Dio, ebbe la visione di una figura che gli ordinava di scavare il pozzo, dopo avergli dato le indicazioni per trovarlo. Con il ritrovamento del pozzo venne alla luce anche il tesoro sepolto sotto la sabbia. Con abilità e coraggio 'Abd al-Muttalib riuscì a scongiurare lo scontro tra i clan. Da allora fu stabilito che fosse il clan di Hàshim a prendere in custodia il pozzo di Zamzam. Diretti responsabili furono i membri della tribù Giurhum, proveniente dalla Yemen. I Giurhum si erano assicurati il controllo della Mecca, e i discendenti di Abramo lo avevano tollerato, perché una moglie di Ismaele apparteneva a quella tribù. Ma venne un tempo in cui i Giurhum cominciarono a commettere ogni sorta di iniquità, tanto da finire cacciati dalla città. Prima di partire, riempirono il pozzo con parte del tesoro del Santuario e lo coprirono di sabbia. Dopo di loro, divennero Signori della Mecca i Khuza'ah, una tribù araba discendente da Ismaele, emigrata nello Yemen e poi ritornata nel nord. Costoro non fecero alcun tentativo per ritrovare il pozzo e misero l'idolo siriano Hubal all'interno della Ka'bah. Nel IV secolo d.C. circa, un uomo di nome Qusay, membro della tribù araba Quraysh, discendente da Abramo, sposò la figlia del capo dei Khuza'ah. Alla morte del suocero, Qusay governò la Mecca e divenne il custode della Ka'bah. Ebbe quattro figli. Nonostante il più importante e onorato, già mentre il padre era in vita, fosse 'Abdu Manaf, il padre gli preferì come successore il meno capace primogenito 'Abd ad-Dat. Lo scontro si verificò nella generazione successiva, quando una metà dei Quraysh si raccolse attorno al figlio di 'Abdu Manàf, Hashim, che era senza dubbio l'uomo più degno del tempo. La violenza era tassativamente proibita, non solo nell'area del Santuario ma anche in un raggio di molti chilometri intorno alla Mecca. Si arrivò dunque a un compromesso tra le due fazioni: fu convenuto che i figli di 'Abdu Manaf mantenessero il diritto di esigere le tasse e di provvedere i pellegrini di cibo e be-vande, mentre i figli di 'Abd ad-Dàr avrebbero continuato a tenere le chiavi della Ka'bah e gli altri diritti. Lungo la via delle carovane e a circa undici giorni di cammello a nord della Mecca si trovava l'oasi di Yathrib, abitata da tribù di ebrei, ma sotto il controllo di una tribù araba proveniente dal sud. Questa tribù successivamente si divise in due clan, Aws e Khazraj, in lotta tra loro. Hashim chiese la mano della donna più influente dei Khazraj ed ebbe da lei un figlio, 'Abd al-Muttalib, che fin da giovane mostrò di possedere doti di condottiero. E infatti, alla morte dello zio, a lui venne con-ferito il compito di nutrire e dissetare i pellegrini. 'Abd al-Muttalib era rispettato dai Quraysh per il suo coraggio, e per le doti di affidabilità, generosità e saggezza. Gli mancava però qualcosa di molto importante per la società araba: i figli. 'Abd al-Muttalib pregò Dio di favorirlo mandandogli figli e aggiunse alla preghiera il voto che, se fosse stato benedetto con dieci figli, avrebbe sacrificato uno di essi alla Ka'bah. La preghiera venne esaudita, e quando i figli raggiunsero l'età adulta, il padre li radunò e disse loro del patto con Dio, pregandoli di aiutarlo a mantenere l'impegno preso; li condusse al Santuario dove ognuno di loro consegnò la propria freccia perché fosse giocata a sorte. Uscì la freccia del più giovane e più amato 'Abd Allah. Le proteste delle donne della famiglia convinsero 'Abd al-Muttalib a consultare una saggia donna della sua città natale, Yathrib. Poiché il riscatto di un uomo stabilito alla Mecca era di dieci cammelli, la donna consigliò di gettare le sorti tra il ragazzo e dieci cammelli. Solo la decima volta la freccia cadde verso i cammelli: al posto del ragazzo si dovettero dunque sacrificare cento cammelli. Quella era la volontà di Dio, e 'Abd Allah fu salvo. Il padre decise allora di dargli moglie e fu scelta una nipote di Qusay, la bella Amina, figlia di Wahab. Il matrimonio si celebrò nel 569, anno che precedette quello conosciuto come "l'anno dell' Elefante". Nel 570, 'Abd Allah fu assente dalla Mecca, poiché si era recato a commerciare in Palestina e in Siria. Sulla via del ritorno, si fermò presso la famiglia della nonna, a Yathrib, cadde ammalato e in pochi giorni morì. Grande fu il dolore di tutta La Mecca e l'unica consolazione del padre di 'Abd Allah e della moglie Amina fu il bimbo nato alcune settimane dopo la morte del padre. Al neonato, subito portato dal nonno al Santuario e nella Casa di Dio per innalzare una preghiera di ringraziamento, fu dato il nome di Muhammad (s.A.'a.s.), “Maometto” in italiano(cfr. P.Luigi Nicolò: “Storia della pietra nera della Mecca. Da Cibele a Maometto”).
FONDAZIONE DELL’ISLAM.
Le ricostruzioni storiche più attendibili confermano che Maometto (Muhammad, in arabo) nacque tra il 567 e il 572 d.C. a La Mecca, città dell’altopiano desertico che si innalza lungo la costa dell’Arabia Saudita prospiciente il Mar Rosso. L’ambiente socio-religioso era quello dei primi decenni del secolo VII, quando nella regione fiorivano le citta di Yatrib (la futura Medina) e della stessa Mecca, abitate da popola-zioni che praticavano un politeismo pagano di origine semitica, con il particolare culto delle pietre, ritenute dimora di potenze divine (nel santuario della Mecca, detto la Ka ‘bah, il “Cubo”, dalla forma dell’edificio, particolare prestigio e venerazione godeva la “pietra nera”, probabilmente un meteorite), ma che già sentivano gli influssi cristiani provenienti dal Sud, specialmente dall’Etiopia tramine lo Yemen, e da Nord, tramite i regni vassalli dell’Impero bizantino. Inoltre, in Yatrib era insediato un forte nucleo di Ebrei, fedeli alla religione abramitica.
Le fonti per la conoscenza della vita di Maometto (il Profeta dell’ Islam, cioè della “Sottomissione a Dio”), vale a dire le fonti per la conoscenza di colui “su cui fu fatto scendere il Corano”, il Libro della Recitazione delle rivelazioni di Allah (definire Maometto “autore del Corano” sarebbe per un musulmano adoperare un’espressine blasfema), sono due : il Corano stesso, per gli accenni autobiografici contenuti in alcune Sure ( i “capitoli” del Libro, articolati in versetti, di cui sono composti) e la raccolta delle tradizioni biografiche formatasi dopo la sua morte (la più antica è la cosiddetta Sira, ossia la “Vita modello” scritta da Ibn Ishaq di Bassora, e rielaborata da Ibn Hism, tra l’VIII ed il IX secolo d.C.)
Molto oscuri e circondati da tratti leggendari sono i primi quarant’anni della vita di Maometto, quelli che precedettero l’inizio della sua “missione pubblica”, cioè del suo apostolato delle rivelazioni ricevute da Allah. Rimasto orfano anche della madre a sei anni (il padre sarebbe morto prima della sua nascita), egli fu educato prima dal nonno paterno e poi da uno zio. Il futuro Profeta, date le difficili condizioni finanziarie della famiglia, dovette lavorare per vivere e servire come pastore presso alcuni parenti. La svolta avvenne quando, intorno ai 25 anni, sposò la ricca vedova Hadiga (Khadija), della quale era stato fiduciario dei beni, grazie alla fama di uomo onesto e fidato di cui godeva.
Secondo la tradizione, durante il matrimonio e fino al giorno della discesa su di lui della “Rivelazione”, Maometto, pur accettando il paganesimo preislamico, praticò lunghi ritiri spirituali (per altro non estranei a quel paganesimo) durante i quali ebbe soventi visioni, fra cui quella dell’Angelo Gabriele che gli annunciò che sarebbe stato l’”Inviato di Dio”. Sul meccanismo fisico delle rivelazioni qualche indizio può essere tratto dal Corano (Sure LXXIII e XXIV), secondo cui esse consistettero in vere e proprie “dettature” fatte da Dio e trascritte, di volta in volta, personalmente da Maometto, anche su foglie di alberi. Narra la tradizione che quando il Profeta riceveva una rivelazione cadeva febbricitante a terra e gridava "zammiluni, zammiluni", “avvolgetemi in un panno”.
Verso il 612, una visione gli avrebbe ordinato di diffondere le prime rivelazioni del periodo meccano, cioè quelle ricevute alla Mecca, aventi ad oggetto l’unicità di Dio, l’annuncio del giorno del giudizio, la resurrezione dei corpi, la conseguente necessità della loro purificazione, il miglioramento della vita etica. Ma i primi tentativi di proselitismo operati dal Profeta scatenarono la ostilità dei "coreisciti", gli appartenenti al gruppo tribale dominante la Mecca, con a capo la famiglia di Abu Lahab. Nel 615, su consiglio dello stesso Profeta, una piccola comunità di seguaci decise di emigrare nella cristiana Abissinia. Nel 619 muoiono la moglie Hadiga e lo zio Abu Talib, suo potente protettore. Qualche anno dopo, poiché le persecuzioni si erano inasprite, al punto di escludere i musulmani (dall’arabo "muslim", “sottomesso”, evidentemente a Dio) dai diritti tribali, Maometto decide di allontanarsi dalla Mecca e di passare a Yatrib. Questo perché nel 620, durante il tradizionale pellegrinaggio alla Ka'bah, già un buon numero di abitanti di Yatrib si era convertito alla sua predicazione e perché nei primi mesi del 622 si era concluso tra Maometto e numerosi monoteisti ed Ebrei di quella città il “patto di Aqaba” (dal nome di un’altura nei pressi della Mecca) con cui il Profeta era stato riconosciuto “capo” degli abitanti di Yatrib.
Maometto abbandonò con i suoi fedeli la Mecca (l’evento viene ricordato con la parola "egira", dall’arabo "higra", che ha il significato di “allontanamento”, non di “fuga” come erroneamente ritenuto) e giunse tra il 20 ed il 25 settembre del 622 a Yatrib, che diventerà nota come la “Città del Profeta” ("Madinat an-nabi") o Medina per antonomasia. Qui rivela la sua abilità di politico, di pastore d’uomini, di cono-scitore dell’essere umano nel regolare i nuovi rapporti tra i vari gruppi che formano la popolazione di Medina (i musulmani emigrati dalla Mecca, i musulmani originari di Me-dina, i clan ebrei della città). In un suo editto, emanato nel 623, egli proclama che i credenti nell’unico Dio, Allah, e quelli che li seguono e quelli che vi si affiliano formano un solo popolo distinto da tutti gli altri uomini; che nessun credente può prendere le difese di un non credente, anche del suo stesso clan tribale; che gli ebrei formano un popolo solo con i credenti e che conservano la loro fede. Capo e Sovrano di questa comunità è Dio stesso che si mantiene in contatto con gli uomini attraverso il Profeta, il quale risolve ogni nuova questione pratica mediante apposite rivelazioni, come dimostrano le Sure del periodo medinese. Viene così fondata la "Ummah", la prima comunità politica di credenti.
Inoltre, Maometto per organizzare, difendere e consolidare la nuova comunità ricorre anche a tutti i mezzi che la società di allora gli offriva, prima di tutti la “razzia”, la rapida spedizione guerriera a scopo di bottino. L’attività guerriera dei musulmani di Maometto, più volte citata nel Corano (Sure II, III, VIII), determina le prime diffidenze ed ostilità nei confronti dei confederati ebrei e dei medinesi, definiti “munafiqun”, cioè “ipocriti”, in quanto contrari alle azioni militari : ciò induce Maometto a cambiare la direzione della preghiera islamica che dalla direzione di Gerusalemme viene rivolta, a partire da quel periodo, verso la Mecca, cioè verso il santuario della Ka’bah.
Dopo la morte di Hadiga il Profeta prende più mogli, fra cui nel 623 la giovanissima Aisa e nel 626 la moglie divorziata dal figlio adottivo Zayd. La tradizione vuole che Maometto abbia avuto 13 mogli, anche se molti matrimoni furono dovuti alla necessità di saldare alleanze politiche. Nel dicembre del 626 Aisa, durante un viaggio, venne lasciata indietro dalla carovana e si smarrì. Ritrovata da un giovane cammelliere fu da questi riconsegnata al marito il giorno dopo. Alì, cugino e genero di Maometto, che ne aveva sposato la figlia Fatima, nonché capo di una potente tribù, consigliò il Profeta di “divorziarla”, ma Maometto, a seguito di una rivelazione che l’aveva assolta, la riprese (Sura XXIV).
Nel 627 i "coreisciti" della Mecca radunarono una confederazione di beduini e, con l’aiuto degli ebrei e dei munafiqun di Medina, assediarono la città e ne tentarono la presa. Ma non vi riuscirono grazie all’abile costruzione di un fossato o trincea intorno alla città, opera di un persiano convertito all’Islam. Alla vittoria delle milizie di Maometto seguì un grande massacro degli alleati che avevano tradito (Sura LXIII).
Con il successo della “campagna del fossato” finisce il periodo di difesa e di consolidamento della Ummah di Medina e comincia il periodo che si può chiamare dell’espansione dell’Islam. Nel 628 Maometto ha una visione (Sura XLVIII) nella quale Iddio gli annuncia che tra breve i suoi seguaci avrebbero potuto compiere il pellegri-naggio nel santuario della Ka’bah : ciò significava che egli avrebbe conquistato la Mecca e sconfitto definitivamente i suoi avversari. Il pellegrinaggio non riuscì quell’anno perché la Città Santa risultò ben difesa, ma fu realizzato con successo nel gennaio del 630, quando il Profeta vi entrò senza colpo ferire, essendo oramai gran parte di quella popola-zione pronta a convertirsi all’Islam. Conquistata la Mecca, Maometto fu molto tollerante con i vinti, anche se ordinò la purificazione della Ka’bah e la soppressione di ogni culto idolatrico e di ogni privilegio ed ufficio sacerdotale pagano.
Successivamente, debellò la forte confederazione beduina dei Hawazin, attorno a Taif, e prese Tabuk in Transgiordania. Dopo altre poche campagne contro le tribù beduine superstiti, Maometto divenne il Signore di tutta l’Arabia. Nel febbraio-marzo del 632 guidò personalmente il pellegrinaggio a La Mecca (noto come “Il pellegrinaggio di addio”), alla fine del quale fissò definitivamente le modalità rituali di questa cerimonia. Pochi mesi dopo, l’8 giugno 632, muore a Medina nelle braccia della moglie Aisa. (Cfr. Maxime Rodinson : “Maometto”).
L’ ISLAM E L’ISLAMISMO.
In ordine di apparizione l’Islam è la terza tra le grandi religioni monoteistiche. L’Islamismo è la pratica della “religione dell’abbandono alla volontà divina”. Come si è visto, fu fondata nel VII secolo d.C., da Muhammad, (il “Lodato”), in Arabia, dove era praticato un rozzo politeismo derivato dalle antiche regioni dell’Asia Anteriore. Maometto, nel formulare il suo credo si nutrì di elementi provenienti dall’ebraismo e dal cristianesimo, che erano penetrati in Arabia dalla Palestina e dalla Siria : Allah è il nome che egli dà al Dio Unico dell’AnticoTestamento. Così, Maometto, da quel Dio ispirato, diventa il terzo profeta dopo Mosè e Gesù Cristo. Perciò l’Islamsmo è definito una religione di origine abramitica.
La disciplina che studia l'Islam è tradizionalmente detta in italiano islamistica, e islamisti sono detti i suoi cultori e studiosi. Sennonché, per l'improprio uso fattone da alcuni media generalisti, il termine “islamista” può essere percepito come sinonimo di "estremista islamico", generando disagio per gli studiosi della materia, che potrebbero in alternativa ricorrere al gallicismo "islamologi", se esso non risultasse estraneo alla tradizione accademica. Islamistica resta perciò la dizione accademica della branca disciplinare relativa alla cultura dell'Islam. Altra fonte di confusione terminologica si ha negli ultimi anni con il crescente e improprio uso come sostantivo dell'aggettivo islamico. Il sostantivo che si riferisce a chi professa la religione islamica è infatti “mu-sulmano” (nell’uso corretto si dovrebbe dire “i musulmani” e non “gli islamici”). L'uso dell’aggettivo come sostantivo, così come il sostantivo islamista - del tutto sconosciuto a qualsiasi autorevole dizionario italiano, se non nel senso di "studioso dell'Islam“ - sembra coniato dalla sbrigativa volontà di indicare i militanti di movimenti radicali di matrice islamica che spesso tracimano nel terrorismo, finendo col conferire a quest'ultimo uso una sfumatura negativa che, invece, è evidentemente estranea al termine "musulmano". Ciononostante si assiste a una sua crescente diffusione nei mezzi di comunicazione di massa come semplice sinonimo di quest'ultimo sostantivo/aggettivo. Insomma, in italiano con la parola Islam s'intende quell'insieme di atti di fede, di pratiche rituali e di norme comportamentali che è praticato da sunniti e sciiti che, insieme, rappresentano quasi il 99% dei fedeli musulmani, mentre il termine Islamismo indica di fatto una concezione dell'uomo e del mondo che s'ispira ai valori dell'Islàm ma che si esprime a livello più propriamente politico (cfr. Louis Gardet : “Conoscere l’Islam”).
IL CULTO.
Il libro sacro dell’Islam è il Corano (la “Lettura”), di cui fanno parte 114 capitoli o sure, contenenti la shari’a, la “legge”, cioè tutte le prescrizioni, non solo religiose, ma anche politiche e sociali, che informano tutta la vita del popolo musulmano. Il dogma fondamentale dell’Islam è racchiuso nella formula “Non v’è altro Dio fuori che Dio e Maometto è l’inviato di Dio”. Gli altri pilastri della fede dell’Islam sono : la preghiera da farsi cinque volte al giorno con il corpo rivolto verso la Ca’bah, il tempio della Mecca; il digiuno nel mese del Ramadan; l’elemosina; il pellegrinaggio alla Mecca al-meno una volta nella vita. Le regole di diritto contenute nel Corano riguardano soltanto i fedeli : gli infedeli devono es-sere costretti ad accettare l’Islam o devono essere conside-rati nemici e combattuti con la “guerra santa” (il "jihad").
Opera accessoria al Corano è la Sunna. “Sunna” è un termine che significa, "consuetudine", "abitudine", "costume" e, in senso lato, "codice di comportamento". La Sunna per eccellenza è costituita dal complesso dagli atti e detti del Profeta Maometto, che sono stati trasmessi nei singoli "ḥadīth" ("racconti" o "aneddoti brevi”, di 5 o 10 righe). Esistono milioni di aḥādīth, classificati per "isnād" (lett. "legame", nel senso di "legame di trasmissione di una tradizione giuridica") ed affidabilità. La collezione della totalità dei singoli ḥadīth costituisce appunto la Sunna. Dopo il Corano, la Sunna costituisce la seconda fonte della legge islamica e col testo sacro costituisce la Sharīa.
Il termine "sunnita", cioè "seguace della tradizione del Profeta e della comunità" (ahl al-sunna wa l-jamāa), si impiega per indicare la maggioranza dei musulmani (circa il 90%) che, all'incirca nell'800, diede vita al "sunnismo", corrente principale dell'Islam, in opposizione ai kharigiti e agli sciiti (shīa). La Sunna è diventata la chiave d'inter-pretazione per la liceità o meno di fattispecie non previste espressamente dal Corano. A tali comportamenti è stato quindi attribuito un significato e un valore normativo. In senso più ampio la Sunna comprende anche i comportamenti dei Compagni del Profeta e delle maggiori personalità. La Sunna è stata "codificata" alcuni secoli dopo la morte del Profeta, in base ai racconti che sono stati tramandati di bocca in bocca da soggetti "degni di fede", considerati quindi come anelli della catena (silsila) di "ga-ranti" della tradizione islamica stessa.
La “moschea” (dall’arabo masjid, la sede in cui si compiono le “prosternazioni”, ossia i movimenti obbligatori che devono eseguire i fedeli oranti) è il luogo di preghiera degli Islamici. La moschea, essendo esclusivamente l’ambito in cui gli islamici recitano le loro preghiere, al suo interno è spoglia ed ha una sorta di “abside” o “nicchia” che indica la direzione della Mecca e della Kaaba, considerata il primo santuario mussulmano. Eventualmente può contenere un pulpito dal quale un "imam" (“guida spirituale”) pronuncia un’allocuzione con cui propone l’esegesi di un passo del Corano. Per l’Islam è possibile pregare anche all’aperto o in casa, purchè il terreno riservato alla salat, la preghiera obbligatoria del mezzogiorno del venerdì, sia delimitato da qualche oggetto (tappeto, stuoia, mantello, sassi) e sia pulito. Quasi tutte le moschee sono fornite di uno o più “minareti” (da manar, “faro”), una torre dalla quale il "muezzin", uno speciale incaricato, chiama cinque volte al giorno i fedeli alla preghiera. Il minareto svolge la stessa funzione del campanile della chiesa cristiana, cioè quello di fare arrivare il più lontano possibile il segnale che scandisce la giornata liturgica. La moschea della Mecca è quella che ha il maggior numero di minareti, ne ha ben sette. Il minareto più alto del mondo, 44 metri, è quello annesso alla moschea di Casablanca.
Le correnti principali dell'Islam non ammettono né riconoscono il “clero” e tanto meno gerarchie sacerdotali (indirettamente una forma di ambiente clericale esiste però nell'ambito Sciita), dal momento che si crede non possa esistere alcun intermediario fra Dio e le Sue creature. Da non confondere col clero è la categoria degli "imam", mu-sulmani che per le loro buone conoscenze liturgiche, sono incaricati dalla maggioranza dei fedeli di condurre nelle moschee la preghiera obbligatoria. Neppure gli "ulamā", che si limitano a interpretare il Corano, possono essere avvicinati a una forma di clero, anche se, nell'assolvere alla loro funzione, di fatto tendono a riaffermare il ruolo privilegiato che deve svolgere la religione islamica nella società. A un ben delimitato ambito giuridico vanno invece ricondotti i "mufti", che sono autorizzati a esprimere pareri astratti nelle diverse fattispecie giuridiche, indicando se una data norma sia o meno coerente con l'impianto giuridico islamico. Similmente deve dirsi dei "qāḍī". Di nomina governativa, essi eventualmente sono chiamati a giudicare in base alle norme della sharīa all'interno di particolari tribunali (definiti "sciaraitici") che un tempo prevalevano nelle società islamiche ma che oggi sono soppiantati dai tribunali statali. Questi ultimi giudicano sulla base di codici, per lo più d'ispirazione occidentale, anche se basati sulla normativa sciaraitica.
Per il fatto di interfacciarsi direttamente col sacro e di non ammettere intermediari tra uomo e Dio, l’Islam non rende necessaria la figura del sacerdote, a cui non sono, almeno nel Sunnismo, minimamente assimilabili gli ulamā o i mufti. Diverso il caso degli Sciiti, per i quali gli Ayatollah fungono in qualche misura da intermediazione tra i devoti e l'"Imam nascosto", la cui parusia è attesa alla fine dei tempi ma che agisce ineffabilmente proprio attraverso i dotti (Cfr. Maurice Dilasser : “Chiese e simboli. Enciclopedia dei segni, dei simboli, dei rituali religiosi”).
L’Islàm ha sofferto di varie deviazioni eretiche, di cui la principale è quella sorta ad opera della tribù degli Sciiti, i quali rifiutarono la Sunna ortodossa (di qui il nome di Sunniti dei suoi stretti seguaci) e riconobbero autentica quella che risale al cugino di Maometto, Alì. Una ramificazione dell’Islam di carattere mistico è rappresentata dal Sufismo, cioè la scienza della conoscenza diretta di Dio : le sue dottrine ed i suoi metodi sono derivati dal Corano, anche se prende in prestito idee e concetti cristiani e neoplatonici (Cfr. Francesco Gabrieli : “L’Islam nella storia”).
L’ ESPANSIONE ISLAMICA.
L'espansione islamica è quel fenomeno verificatosi a partire dal VII secolo ad opera dei seguaci dell'Islam (dapprima arabi, poi anche Persiani, Turchi, Berberi, Indiani o Africani) che riuscirono a conquistare un vastissimo impero, che proseguì nella sua espansione fino al XVIII secolo grazie all'Impero ottomano e all'Impero Moghul. Sebbene l'unificazione delle tribù beduine fosse iniziato con lo stesso profeta Maometto, egli non era interessato alla creazione di un vero e proprio Stato, per cui l'espansione vera e propria viene in genere datata a partire dalla sua morte nel 632, nei tre continenti dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa.
Nel 632, anno della morte del Profeta, Bizantini e Sasanidi (l’ultima dinastia che governò la Persia) erano stremati da un durissimo conflitto che, protrattosi ormai da un secolo, con alterne vicende aveva visto la vittoria dei primi: nel 614 i Persiani avevano conquistata e rasa al suolo Gerusalemme, trafugando anche le reliquie della Santa Croce; nel 626 erano arrivati alle mura di Costantinopoli ma, nel 628, Eraclio I aveva avviato un'efficace riscossa che aveva portato alla vittoria nel 628 e all'occupazione della capitale nemica di Ctesifonte. In seguito a questa sconfitta i Persiani erano entrati in una gravissima crisi politica e dinastica, ma anche i Bizantini erano esausti a causa dell'ingente sforzo militare ed economico. Questi due colossi temevano la minaccia delle tribù nomadi, ma la loro attenzione era unicamente rivolta a quelle provenienti dalle steppe eurasiatiche, mentre i beduini arabi, da sempre esclusivamente impegnati in scorrerie tra di loro, non erano tenuti in considerazione. Per questo l'avanzata araba fu tanto potente quanto inaspettata.
Alla morte di Maometto gli Arabi avevano trovato coesione attraverso la nuova comune spiritualità, ma non avevano ancora creato alcuno Stato. Venne scelto all'interno dell'élite dominante un successore, che continuasse l'attività di “Vicario di Dio”: il "Khalīfa", (italianizzato “Califfo”) Abu Bakr, che non era un "re", ma solo il successore politico di Maometto e il luogotenente di Dio sulla terra. Da allora si succedettero altri califfi elettivi, senza alcun vincolo stretto di parentela, fino al 661, quando col primo califfo omayyade, Muāwiya ibn Abī Sufyān, la capitale fu spostata a Damasco fino al 750, anno della caduta della dinastia omayyade.
Nei trent'anni del califfato elettivo le conquiste degli Arabi furono sorprendentemente rapide e durature. Nel 637 veniva conquistata Ctesifonte, e l'impero persiano, che per un millennio circa era stato uno degli antagonisti più poderosi e pericolosi per l'Impero romano e poi per quello bizantino, fu cancellato come neve al sole entro il 645 circa. All'Impero bizantino vennero strappate le ricchissime e popolose regioni della Siria, Palestina (633-640) ed Egitto (639-646). Nel 638 veniva occupata Gerusalemme, nel 642 la metropoli di Alessandria d'Egitto. Dall'Egitto si proseguì fino alla Nubia, a sud, e alla Tripolitania, ad ovest. Con la conquista del litorale del Mediterraneo sud-orientale, gli Arabi ottennero, oltre ad Alessandria e Antiochia, due dei più grandi porti ed empori del tempo, anche la capacità di creare presto una flotta con ottimi marinai. Nel 649 venne attaccata Cipro e nel 652 si registrarono modeste scorrerie in Sicilia. Nel 655 la battaglia navale lungo le coste della Licia ruppe la tradizionale supremazia bizantina in mare, con una disastrosa sconfitta delle 500 navi capitanate dallo stesso basileus Costante II.
Ci si è interrogati su come sia stata possibile una conquista tanto rapida di aree così vaste e popolose. Sicuramente si deve considerare la stanchezza delle popolazioni locali verso il duro e rapace dominio bizantino: gli arabi infatti offrivano parados-salmente una maggiore libertà religiosa ai cristiani "eretici" (dominavano in queste zone infatti le eresie monofisita e nestoriana, duramente avversate da Bisanzio) e richiedevano il pagamento di un tributo che era più leggero della tassazione imperiale. La conversione e il proselitismo, per gli arabi, erano infatti ritenuti come necessari per le popolazioni pagane e idolatre, mentre lo stesso Profeta aveva previsto una differenziazione tra fede e sottomissione, individuando le cosiddette "genti del Libro", cioè quelle popolazioni monoteiste che possedevano già una parte della Rivelazione tramite l'uso delle Sacre Scritture, sempre ispirate dallo stesso Dio, ma rese incomplete e corrotte per via della manipolazione umana. A queste genti si offriva di esercitare liberamente la propria fede nei territori dell'Islam, quali comunità protette (dhimmi), purché accettassero la superiorità dell’ Islam, una certa disciplina e il pagamento di tributi. Col tempo i cristiani delle zone già bizantine poterono valutare i vantaggi della conversione all'Islam e della possibilità di fare carriera nell'amministrazione califfale: i convertiti ottenevano i pieni diritti civili ed erano tenuti solo al versamento dell'elemosina legale (zakāt). Già dieci anni dopo la morte di Maometto l'Islam non era più una comunità di soli arabi. La lingua del califfato era comunque soltanto l'arabo, lingua della preghiera e del testo sacro del Corano. Si creo così gradualmente una comunità arabofona con componenti etniche via via più varie, man mano che procedeva l'espansione.
Una prima crisi dell'Islam si ebbe tra il 656 e il 661 quando Alì, cugino e genero di Maometto, insorse contro il califfo 'Uthman ibn 'Affan, fondatore della dinastia omayyade. Entrambi vennero poco tempo dopo assassinati ed i loro seguaci diedero luogo alla storica frattura tra sunniti (che riconoscono la Sunna, gli scritti con detti e fatti del Profeta) e sciiti (che non riconoscono la Sunna, né l'autorità califfale, ma solo Alì quale legittimo successore di Maometto). Tra gli sciiti si ebbe un ulteriore scisma con la formazione del gruppo dei kharigiti, che sostenevano il principio radicale secondo il quale qualsiasi fedele può ricoprire la carica di califfo. Furono comunque i sunniti ad avere la meglio, ed essi fondarono così il califfato ereditario omayyade spostando nel 661 la capitale da Medina a Damasco. Nella nuova capitale si abban-donarono molti dei costumi dei tempi nomadici e si creò una corte che aveva come modello quella di Costantinopoli. Nacquero un'arte e una letteratura islamica vicina all'eclettismo bizantino, che portò a chiudere un occhio su alcune questioni legate alla fede (come il fino ad allora scrupoloso divieto di raffigurare esseri animati).
Durante l'epoca omayyade continuarono le conquiste: in Oriente si arrivò fino all'Indo Kush e al lago di Aral con la conquista di Kabul e Samarcanda; in Occidente venne conquistata tutta l'Africa del Nord (il Maghreb, dal 647 al 663) fino alla Penisola iberica. Dal 665 gli arabi poterono contare sulla base navale di Jaloula, strappata ai bizantini, e nel 670 fu fondata la città di Qayrawan. Dal 700 Tunisi divenne un im-portante porto, grazie anche al trasferimento di un centinaio di famiglie egiziane esperte nella navigazione e nella costruzione navale. Entro il 705, il "lontano Occidente" del Marocco era in mano agli arabi e si iniziava il lento e faticoso processo di islamiz-zazione delle popolazioni berbere, estranee alla civilizzazione romana e cristianizzate solo di recente.
Nel 711, con una numerosa flotta comandata dal berbero Tariq ibn Ziyàd, i musulmani misero piede in Spagna, nella già razziata baia di Algesiras. Con circa diecimila uomini sconfissero le truppe visigote di Roderico tra Algesiras e Cadice, dirigendosi speditamente su Siviglia, Cordova e, nel 713, Toledo. Nel 714 venne occupata l'Aragona ed entro il 720 la Catalogna e la Settimania. Anche in questo caso la repentinità della conquista viene spiegata con la complicità della popolazione, in particolare degli ebrei, degli ariani (i re Visigoti si erano da tempo con-vertiti al cristianesimo romano) e delle fazioni nemiche a Roderico.
Nel 717, sul fronte orientale, i musulmani avevano posto l'assedio a Costantinopoli. A capo dei due schieramenti c’erano Maslamah, fratello del califfo e il basileus Leone III: questi riuscì a fatica a respingere l'assalto grazie all'uso del "fuoco greco", vasi di terracotta o vetro pieni di nafta e quindi infiammabili, che distrussero la flotta araba, impedendo temporaneamente l'espansione verso la Penisola balcanica. Nel 718 venne occupata Narbona, nel 721 i musulmani arrivarono a Tolosa e nel 725 conquistarono Nimes e Carcassone. Autun fu incendiata il 725 o il 731, mentre ormai tutta la Provenza, insieme al bacino del Rodano, era teatro delle loro scorrerie. Papa Gregorio II che seguiva con trepidazione gli sviluppi temendo per i Franchi, "figli primogeniti della Chiesa di Roma" fin dal battesimo di re Clodoveo, incoraggiò il duca d'Aquitania Oddone a resistere a Tolosa e inviò agli assediati alcuni tessuti che avevano coperto l'altare di San Pietro: essi vennero ridotti in brandelli e inghiottiti dai guerrieri cristiani come rito parasacramentale. Sicchè, nella penisola iberica restarono in vita focolai di resistenza cristiana, in particolare nelle asperità dei Pirenei e dei Monti Cantabrici, dai quali il goto Pelagio organizzò nel 720 il principato delle Asturie, che circa venti anni dopo si trasformò in regno con capitale a Oviedo (fondata nel 760). Secondo una tradizione molto radicata i musulmani vennero fermati con la battaglia di Poitiers del 732 (o 733) dal merovingio Carlo Martello. In realtà tale avvenimento ebbe una risonanza mitica, legata al Ciclo carolingio, che probabilmente oltrepassò la sua reale importanza storica. Negli anni successivi infatti le razzie non terminarono ma si assisté piuttosto a un graduale esaurirsi della spinta araba, forse come naturale conclusione del processo di espansione. Nel 734, per il tradimento del duca di Provenza Moronte, veniva presa Avignone e contemporaneamente veniva saccheggiata Arles. Nel 737 gli arabi arrivarono a saccheggiare la Borgogna, dove prelevarono un' enorme quantità di schiavi da portare in Spagna. Carlo Martello era impegnato nelle continue campagne nel sud della Francia, ma i continui doppi giochi di alleanze trasversali e tradimenti rese impossibile una netta divisione tra i due schieramenti, tanto che ad alcuni franchi le scorrerie musulmane fecero perfino comodo, all'interno di una lotta per il potere mol-to complessa.
Nel 751, sul fronte orientale, la battaglia di Talas segnò la spartizione dell'area altaica tra musulmani e Impero cinese della dinastia Tang.
Nel Mediterraneo gli Arabi (detti talora Saraceni) conquistarono la Sicilia, toccarono la Sardegna e la Corsica, oltre che un tratto della costa provenzale e parte della Calabria, della Puglia e della Campania.
Un importante tramite fra mondo islamico e cristiano-latino furono gli ebrei. Se non si è ancora ben certi di chi fossero in realtà i Radaniti che operarono fra al-Andalus e le regioni franche al di là dei Pirenei, siamo però ben documentati circa l'azione interme-diatrice svolta da un po' tutti gli ebrei spagnoli che, sfruttando la benevolenza dei governi islamici, si avvalsero della possibilità di aggirare la norma coranica che vieta il cosiddetto “commercio di denaro” ai musulmani e, in definitiva, di lucrare sulle plusvalenze. In al-Andalus gli Ebrei Sefarditi costituirono una fondamentale classe mercantile che, in qualche misura, godeva del vantaggio di un analogo status giuridico concesso loro dal mondo cristiano che conosceva un identico divieto di conseguire interessi economici su un capitale; in questo modo potevano importare ed esportare le preziosi merci prodotte nell'area islamica e trafficare sui beni che riusciva a produrre il mondo cristiano-latino (un esempio è rappresentato dal panno di lana), oltre a tutte le materie prime (specialmente ferro e legname) che difettavano in al-Andalus. L'apporto ebraico non fu tuttavia solo di tipo economico-finanziario bensì, in misura tutt'altro che trascurabile, anche scientifico e artistico. Grazie ai divieti islamici che impedivano agli ebrei determinate professioni (soldato, giudice e proprietario terriero), gli israeliti furono indirettamente costretti ad occuparsi, oltre che di commercio, anche di tutte le cosiddette professioni “liberali” (nel senso di libere), tra cui quelle del medico, del farmacista, dello studioso e del traduttore, trovando benevola e conveniente accoglienza nella società islamica andalusa, e giungendo ad occupare non di rado importanti funzioni burocratico-amministrative (anche ai massimi livelli vizirali) nella macchina governativa islamica (cfr. Alessandro Bausan : “L’Islam. Storia di una civiltà).
LA CULTURA, LA SCIENZA, LA SOCIETÀ.
L'elemento arabo-berbero (ma non dimentichiamo anche la presenza persiana) portò all'Occidente cristiano nuove conoscenze tecnologico-scientifiche, specie nell'agri-coltura, con l'introduzione di non poche piante del tutto sconosciute (canna da zucchero, carciofo, riso, spinaci, banane, zibibbo, cedri, limone, arancia dolce o cotone, come pure spezie di vario tipo, quali la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata, il cardamomo, lo zenzero e lo zafferano), oppure reintroducendo colture abbandonate dalla fine del cosiddetto periodo “classico an-tico" (innanzi tutto l'ulivo o l'albicocco). Furono introdotte le tecniche costruttive dei mulini ad acqua e a vento, la carta (di provenienza cinese), e tecniche bancarie quali l'assegno e la lettera di cambio, senza dimenticare il formidabile ap-porto in campi della matematica, quali l'algebra o la trigonometria, l'aritmetica decimale (con l'introduzione del concetto di zero e del sistema decimale elaborato in ambito indiano). Un'altra innovazione tecnologica attribuita agli Arabi è l'introduzione in Occidente della bussola, già in uso in Cina.
I musulmani svilupparono grandemente la medicina, l'alchimia (genitrice della moderna chimica) e l'astrologia, con gli annessi studi astronomici (da ricordare l'introduzione dell'astrolabio). Anche nella filosofia il loro apporto per l'Europa continentale fu formidabile: grazie alle traduzioni da essi approntate o da essi commissionate, si tornò a cono-scere non pochi testi di filosofia e di pensiero scientifico prodotto in età ellenistica. Grazie a tali traduzioni l'Europa occidentale e centrale (che aveva quasi del tutto cancellato il ricordo del retaggio culturale espresso nell'antichità classica in lingua greca) tornò in possesso di opere da tempo trascurate e a rischio di totale oblio. I musulmani sotto dominazione abbaside, fatimide e andalusa crearono biblioteche e strutture d'insegnamento pubbliche che - come nel caso di Cordova - costituirono di fatto le prime università del Vecchio Continente, alimentate dal sapere della cultura per-siana antica, da quella indiana, da quella greca ed ebraica. In Occidente la fama di medici quali Avicenna e Razī divenne duratura, tanto che i loro lavori furono libri di testo fino al XVIII secolo, mentre di notorietà non minore fruirono gli studi di filosofi quali Averroè (che - diceva Dante - di Aristotele "il gran Comento feo") e Geber, considerato per secoli, anche in ambito cristiano, il più grande alchimista.
Nelle zone conquistate dagli Arabi le classi sociali si distinguevamo nei: 1) "Conquistatori" ai quali spettava in toto il potere politico; 2) "Convertiti all'Islam" (mawali), che avevano teoricamente gli stessi diritti dei musulmani di prima ge-nerazione anche se, per tutto il primo secolo islamico (VII-VIII secolo), si videro negati i pieni diritti politici, sia in Asia e in Africa che in al-Andalus, con la sottomissione, talora, a tributi dai quali i convertiti avrebbero dovuto in teoria essere esentati (sussistendo l'assoggettamento alla sola zakat); 3) "Non musulmani" che godevano di diritti civili alquanto ridotti e pagavano tributi (jizya e kharaj), non eccessivi ma in ogni caso più gravosi di quelli dovuti dai musulmani; 4) "Schiavi" che - pur trattati con relativa umanità - non avevano diritti politici ed economici, anche se, a partire dal IX secolo, fu loro aperta la carriera militare. Massimamente preferiti era-no, per il "mestiere delle armi", i Saqaliba (all'incirca traducibile con “Schiavoni”), provenienti dalle razzie condotte nelle aree balcaniche, nelle regioni franco-germaniche e in Italia (cfr. Pier Giovanni Donini: “Il mondo islamico”).
FONDAMENTALISMO,  FANATISMO E GUERRA SANTA.
Possiamo dire che, in ambito religioso, il termine "fondamentalismo" o "integralismo" serve ad identificare tutti quei punti di vista - correnti di pensiero e pratica - che insistono sull'interpretazione letterale dei testi sacri e che hanno carattere di movimenti antimodernisti all'interno delle rispettive religioni. In senso teologico, cioè, viene chiamato "fondamentalista" ogni approccio letterale ad un testo che rifiuta l'analisi critica di tipo filologico, nel caso che non accordi con i dogmi tradizionali definiti precedentemente. Il "fondamentalismo religioso" riguarda la lettura diretta dei testi sacri, con il rifiuto di strumenti esegetici o di critica testuale. Questa prassi è propria di alcune correnti protestanti ma è presente anche in alcune interpretazioni del cattolicesimo più tradizionalista. Si parla perciò comunemente di "fondamentalismo islamico", "fondamentalismo ebraico", "fondamentalismo cristiano", eccetera.
Il termine, che ha oggi una diffusa valenza negativa, si riferisce anche, più in generale, a un atteggiamento politico e culturale contrario al dialogo, che rivendica principi religiosi "non negoziabili", senza possibilità di approccio critico; che insiste sul presupposto apodittico che il proprio punto di vista o dogma è l'unico giusto, in modo spesso rigido e moralmente giudicante. Perciò, nell'uso comune, "fondamen-talismo" (come pure "integralismo") viene approssimativamente usato in senso lato anche per indicare un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti di testi o teorie non necessariamente religiose, e dei comportamenti che ne seguirebbero. In economia, ad esempio, i critici del liberismo accusano talvolta di "fondamentalismo" i sostenitori delle teorie secondo le quali il mercato dovrebbe essere l'unico regolatore della vita sociale, sottintendendo che questo principio sia affermato in modo dogmatico (mentre tali teorie sarebbero al più definibili integraliste). In campo religioso, alcuni gruppi religiosi accusano di "fondamentalismo laicista" le posizioni anticlericali dei loro avversari, ritenendoli incapaci di accettare deroghe rispetto a una visione tradizionale della laicità. Per via di questo uso allargato, molti gruppi descritti come fondamentalisti spesso obiettano tenacemente al vedersi applicato questo termine a causa delle sue connotazioni negative, o perché implica una similitudine con altri gruppi (politici o addirittura militari) ritenuta impropria.
La locuzione “fondamentalismo islamico” è generalmente utilizzata per individuare gruppi e movimenti che si richiamano all'Islam come prassi politica e rivendicano l'instaurazione di un governo della sharî'a, cioè della legge islamica. Questa terminologia è contestata sia da alcuni studiosi che preferiscono il termine radicalismo, come per esempio B. Etienne (cfr. “Radicalismes islamiques”), sia dagli stessi ideologi, che per definirsi utilizzano il neologismo "islamiyyün". Il sostantivo "islamismo" è invece spesso utilizzato come omologo di cristianesimo o ebraismo, nonostante i problemi che sorgono; in effetti, nelle scienze sociali il concetto di "islamismo! tende a sostituire quello di "integralismo" e anche di "fondamentalismo", perché l'utilizzazione di questi ultimi due termini implicherebbe una simmetria fra i diversi integralismi e fondamentalismi, come per esempio il "fondamentalismo ebraico", quello "protestante", o l'" integralismo cattolico". Nelle scienze sociali – come più sopra si è visto - l'islamismo è una categoria ben precisa di produzione del politico e delle sue strategie e individua gruppi di pressione, partiti politici, movimenti eversivi che hanno per referente l'Islam in quanto legittimazione dell'azione politica.
Il termine fondamentalismo è tratto dalla sociologia anglosassone e statunitense che lo usava per individuare i movimenti protestanti che, come nel caso dell'Islam, si basano su un'interpretazione letteralista dei fondamenti dottrinali:  il fondamentalismo fa propria l'idea che si debba ritornare alla Scrittura come unico fondamento di qualsiasi critica o rinnovamento. Fondamentalismo e tradizionalismo possono dunque coincidere poiché entrambi rivendicano il ritorno a una purezza originaria (F. Burgat, "L'islamisme au Maghreb"; B. Etienne, "L'islamismo radicale"). I maggiori studiosi operano delle distinzioni entro questo fenomeno attraverso la periodizzazione storica, iniziando dal primo gruppo dei “Fratelli Musulmani” nato in Egitto nel 1928 con Hasan al-Banna, ma anche attraverso le strategie politiche messe in atto dai diversi gruppi (R.P. Mitchells, “The Society of the Muslim Brothers”; O. Carré, G. Michaud, “Les Frères musulmans”; G. Kepel, “Le prophète et le pharaon”; Y.M. Choueiri, “Il fondamentalismo islamico”). Lo studioso O. Roy è stato il primo a individuare e a formulare una distinzione netta fra fondamentalismo e tradizionalismo. Anche secondo questo autore il fondamentalismo si rifa a una sorta di età dell'oro dell'Islàm, al mito del momento fondatore: il periodo medinese che va dal 622 al 632. Ma questo mito non impedisce ai fondamentalisti di rifiutare la società tradizionale e i suoi elementi: le "confraternite" (turuq) e gli "ulema" (i giureconsulti dell'Islam). Opponendosi alla sua elite tradizionale (gli ulema), l'ideologia fondamentalista ha frantumato il corpo sociale dell'Islam. La differenza, evidenziata da alcuni autori, tra ulema e intellettuali militanti dell'Islam contemporaneo deriva dal fatto che mentre gli ulema escono da studi tra-dizionali (istituti religiosi), la leadership fondamentalista è costituita da autodidatti in campo religioso. La loro provenienza da facoltà scientifiche o istituti tecnici dimostra che il fondamentalismo è legato ai processi di modernizzazione dello stato nell'Islam: il fondamentalismo non produce "studiosi" dell'Islam, ma "militanti" (O. Roy, “L'échec de l'Islam politique”; “Intellectuels et militants de l'Islam contemporain”, a c. di G. Kepel e Y. Ri-hard; Nilüfer Göle, “Musulmanes et modernes. Voile et civilisation en Turquie”). Secondo gli studi più recenti il fondamentalismo islamico comprende due diverse strategie politiche, entrambe tendenti alla con-quista del potere politico (O. Roy, “Islam: qu'est-ce que le néofondaenalime?”, in Esprit"; Chibli Mallat, “The Renewal of Islamic Law”). La prima strategia si configura secondo un modello politico rivoluzionario che tende alla conquista dello stato mediante l'eversione e la violenza; come nella rivoluzione iraniana, il potere va conquistato al vertice. La seconda, chiamata "neofondamentalismo", mira invece a una reislamizzazione dal basso dell'insieme della società (costumi, cultura ecc.) in uno spirito di riconversione alla pra-tica dell'Islam. Entrambe le strategie sono caratterizzate dal rigetto dei valori occidentali.
Dal “fondamentalismo religioso” al “fanatismo religioso” il passo è breve. Il fanatismo religioso, nell'ambito dell'adesione ad un particolare credo o sistema di credenze, è l'atteggiamento di chi vi si riconosce e si identifica in maniera particolarmente esasperata, in modo da giungere «ad eccessi e alla più rigida intolleranza nei confronti di chi sostenga idee diverse». Secondo la concezione ateo-relativista della società, non necessariamente tali eccessi sono espressi mediante atti fisici violenti. Pertanto, è ritenuto dagli atei essere fanatismo religioso la semplice convinzione che la propria fede sia depositaria della verità mentre le altre siano in errore. Nell'accezione estrema di "fanatismo religioso" propugnata dal movimento ateo internazionale, è lo stesso atto di credere ad una verità unica un gesto di fanatismo.
L'etimologia della parola "fanatismo", usata sempre in accezione negativa, porta al latino "fanaticum", cioè "ispirato da una divinità, invasato da estro divino", derivato di "fanum", "tempio", voce da avvicinare a "fas", "diritto sacro". Dall'etimologia appare evidente che caratteristica del fanatismo è una vena di follia, accompagnata o addirittura causata però da una cre-denza autentica e sincera, perché la credenza o, meglio, la fede in una divinità che sia ispirata, anzi instillata, dalla divinità stessa non può per sua natura essere ritenuta falsa dal credente.
Il fanatismo è un esempio di devianza religiosa. In questo caso, l’individuo manifesta uno sviluppo difettoso della coscienza in genere, ed alcune forme patologiche della psiche. Di solito i fenomeni psicologici tipici del "fanatico" sono una grave carenza di delicatezza verso la persona propria ed altrui, una mancanza, più o meno marcata, del senso di moderazione, una incapacità di accettare modifiche e adattamenti, un irrigidimento dei sentimenti e dei ragionamenti, una forte unilateralità e, nei giovani, un labile senso del proprio io come valore. Nel momento in cui tale patologia si manifesta in fatti religiosi, come spesso accade, i sintomi sono dati dall’infervorarsi irrazionale su basi dottrinali, dall’esasperazione dei sentimenti, che può sfociare nei casi estremi in una aggressività contro se stessi e contro altre persone, a favore di idee o mete di carattere religioso, spesso in concomitanza con pregiudizi. L’aspetto più marcato di questo genere di manifestazione è un disprezzo per la persona propria ed altrui a favore di una assolutizzazione deviante della figura divina nel cui nome il fanatico ritiene di agire. Il rapporto religioso perde la sua valenza di contesto aperto, all’interno del quale l’uomo giunge alla propria autorealizzazione mediante azioni libere e responsabili, in quanto trasferisce la responsabilità dell’agire dal soggetto che agisce al Dio che imporrebbe una determinata azione, anche se lesiva della persona umana. Il fanatico quindi non è più libero, né responsabile, e ritiene questa sua scelta il massimo dell’atto di culto per la sua divinità che se ne fa pienamente carico premiando il fedele per questo supremo atto di sacrificio del proprio io. In tal senso il fanatico è con-sapevole della rinuncia che compie, ma non la ritiene lesiva della sua persona, dimostrando appunto una personalità carente, immatura ed irresponsabile. L’immagine della divinità che si figura il fanatico è speculare all’idea che egli ha di sé. Infatti solo Dio è responsabile di tutto ciò che accade ed esige dall’uomo un’obbedienza cieca. Tale comportamento è definito “fede” e sarà tanto più meritorio quanto più onerosa sarà la rinuncia richiesta all’uomo. Così il fanatico è al riparo dal rischio delle scelte personali, libero da responsabilità, sicuro del valore intrinseco di ogni suo comportamento e certo di una certezza assoluta del destino positivo dell’umanità derivante dalle proprie scelte religiose.
Il fanatismo religioso si traduce in odio. Per secoli ha dominato il mondo ed ha scatenato guerre sanguinose (cfr. Gerald Bronner : “Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici”). Con lo sviluppo delle religioni rivelate, che, proponendo modelli comportamentali universalistici, vedono nel proselitismo una sicura via di salvezza per ogni uomo e ogni comunità, l’obbligo morale si è fatto più facile da inoltrare. Se esiste una via per la salvezza, la diffusione di quella rivelata ad Abramo, Mosè e a Maometto diventa un dovere, da ottemperare anche con la guerra. L'attribuzione di "santità" o “liceità” della guerra assolve dunque alla funzione di nobilitare la motivazione guerresca e di garantire preventivamente al soldato la liceità di quanto sta per compiere. Analoga alla non imputabilità giuridica del soldato che uccide, sorge dunque la discriminante religiosa, per la quale nemmeno la Legge di Dio è stata violata se la guerra risponde all'interesse della religione. Questa attribuzione viene appunto rilasciata dall'autorità religiosa, a volte con enfatica determinazione, ma più spesso con implicito avallo, a seguito di specifiche interpretazioni dei rispettivi riferimenti teologici (della sistematizzazione interpretativa posteriore), ma anche scritturali, cioè quelli esplicitamente rintracciabili nel “libro sacro”, ove possibile. In genere, l'esegesi a ciò finalizzata produce il risultato che "a talune condizioni" la guerra sarebbe un "male minore", un "necessario sacrifizio" e un doveroso intervento comunque ben gradito al Signore; coloro che si rivolgono con approccio critico verso simili sinergie fra autorità religiose e politiche, non mancano però di sottolineare la variabile elasticità interpretativa delle rispettive Scritture.
Gli Ebrei, che inaugurano la prima religione monoteista rivelata, fra i primi sperimentarono anche tutto ciò che ad essa si accompagnava: il diritto divino, l'esaltazione del popolo eletto, la sconfitta dell'ateismo, delle religioni avversarie e di chi le professava, invocando anche l'aiuto divino per le azioni armate necessarie ad ottenere tali obiettivi. Nell'Antico Testamento il ritorno degli ebrei dalla schiavitù in Egitto coincide con una guerra per fruire del territorio promesso da Dio a Mosè, anche a spese dei popoli insediatisi in Palestina. L'antico popolo ebraico è eletto (scelto) da Dio. L'immagine dell'Ebraismo moderno come religione che non fa proseliti è vera.
Anche nell'antica Roma monarchica si sviluppò il concetto di "guerra santa", con il complesso di operazioni rituali eseguite dai "feziali". Tito Livio ci testimonia nelle sue Historiae le formule in uso all'epoca allorché il Senato decideva l'avvio delle operazioni di guerra santa e pia contro il proprio vicino.
Non diversamente stanno le cose col Cristianesimo, anche se diverso ne è il fondamento "ideologico". Il Cristo, che espressamente introduce l'apostolato e la diffusione della "buona novella", non fornisce un così esplicito consenso alla violenza come mezzo di diffusione della sua parola. E tuttavia l'invito a rendere "a Cesare quel ch'è di Cesare"(Mt 22, 21) e l'affermazione categorica di Paolo secondo cui "Non c'è autorità se non da Dio" (Rm 13, 1) rientrano tra i tanti passi della Scrittura utilizzati per affermare che i detentori del potere sono innanzi tutto ministri di Dio, per costruire nel tempo le "sante alleanze” tra potere temporale e potere spirituale, per giustificare nei secoli milioni di morti ammazzati in nome di Dio. Pochissimi Padri della Chiesa si sono espressi, sempre e comunque, contro l'uso della violenza: Tertulliano, Origene e Lattanzio costituiscono "rari nantes" in un mare di giustificazionismo cristiano. È ben nota, infatti, la tolleranza di fatto della Chiesa verso la famigerata Quarta Crociata veneziana contro la cristiana Costantinopoli o le campagne di conquista intraviste anche come azioni di evangelizzazione degli Spagnoli e dei Portoghesi nel continente americano o le persecuzioni perpetrate dalla Chiesa contro gli eretici che se non abiuravano venivano bruciati sul rogo (cfr. Luigi De Marchi: “Lo shock primario. Le radici del fanatismo da Neandertal alle Torri Gemelle”)
Nell'Islàm conta invece più la diffusione politico-territoriale della “Dāra al-Islām” (“Casa dell’ Islàm”) che la conversione in sé. Secondo alcuni passi del Corano (Sure: X, 99; L, 45), non facilmente interpretabili, sembrerebbe che non deve esserci costrizione nella fede (“lā ikrāh fī al-dīn”). Nella Dār al-Islām ai musulmani spetta comunque la direzione politica, la piena espressione delle pratiche di culto e il possesso delle armi (dell'esercito). Ai "dhimmi" (i "non musulmani", cioè gli ebrei, i cristiani, i mazdei e altri), privi della piena cittadinanza, è impedito di fare proselitismo, mentre è concesso l'esercizio del culto, della proprietà e un accesso a cariche amministrative, in teoria anche elevate (con l'impossibilità però di ricoprire l'ufficio di percettore delle imposte coranche), ma nessuna funzione giudiziaria e militare. I dhimmi sono obbligati a pagare un'apposita tassa supplementare, la "jizya" (imposta personale) ed eventualmente il "kharāj" (imposta fondiaria) per poter legittimamente usufruire delle loro limitate libertà civili e religiose.
La parola araba "Jihād", di genere maschile, significa "esercitare il massimo sforzo". La parola connota un ampio spettro di significati, dalla lotta interiore spirituale per attingere una perfetta fede fino alla guerra come risposta in caso di attacco. Durante il periodo della rivelazione coranica, allorché Muhammad si trovava alla Mecca, il jihād si riferiva essenzialmente alla lotta non violenta e personale, quindi a quello sforzo interiore necessario per la comprensione dei misteri divini. In seguito al trasferimento (l’Egira) dalla Mecca a Medina nel 622, e alla fondazione di una Ummah (comunità politica) islamica, il Corano (Sura XX, 39) autorizzò il combattimento difensivo. Il Corano iniziò a incorporare la parola "qitāl" (combattimento o stato di guerra), e due degli ultimi versi rivelati su questo argomento (Sura IX, 5,29) suggeriscono, secondo studiosi classici come Ibn Kathīr, una continua guerra di conquista contro i nemici non credenti. Tra i seguaci dei movimenti liberali, comunque, il contesto di questi versi è quello di una specifica "guerra in corso" e non una serie di precetti vincolanti per il fedele. Questi musulmani "liberali" tendono a promuovere una comprensione del jihād che rigetti l'identificazione del jihād con la lotta armata, scegliendo invece di porre in risalto principi di non violenza. Tali musulmani citano la figura coranica di Abele a sostegno della credenza per cui chi muore in conseguenza del rifiuto di usare violenza può ottenere perdono dei peccati. Questa è comunque un'interpretazione scarsamente diffusa e nettamente minoritaria all'interno del mondo islamico. Ed infatti, l’interpretazione prevalente dei passaggi coranici in questione sottolineano l'importanza della ”autodifesa” nella comunità musulmana.
I musulmani spesso si rifanno, oggi, a due significati di jihād, citando un "hadīth" riportato dall' Imām Bayhaqī e da al-Khatīb al-Baghdādī, benché il suo "isnād" (la catena di tradizioni che può ricondurre sino alle parole di Maometto) sia classificato come "debole": 1) "Grande jihād" - lo sforzo interiore per autoemendarsi, contrastando le pulsioni passionali dell'io. 2) "Piccolo jihād" - lo sforzo esteriore mili-tare, cioè una guerra legale, da esercitarsi solo in caso di attacco personale. Evidenziano, inoltre, che il significato più letterale di jihād è semplicemente "sforzo", e così è talvolta soprannominato il "jihād interiore". Il "jihād interiore" si riferisce essenzialmente a tutti gli sforzi che un musulmano potrebbe affrontare aderendo alla religione. Per esempio, uno studio erudito dell'Islam è uno sforzo intellettuale cui qualcuno può fare riferimento come "jihād", benché non sia comune per uno studioso dell'islam di fare riferimento ai suoi studi come "impegnarsi in uno jihād". Inoltre, esiste una dimensione del “grande jihād" che include motivi personali ineludibili, desi-deri, emozioni, e la tendenza a garantire il primato a piaceri e gratificazioni terrene. La tradizione di identificare lo sforzo interiore come “grande jihād” (cioè, non militare) pare essere stato profondamente influenzato dal "sufismo", quel movimento mistico interno all'Islam, antico e diversificato.
In tempi recenti, e per motivi legati all'attualità, la locuzione “jihad islamico” è prevalentemente utilizzata, secondo alcuni, in maniera non del tutto appropriata, per giustificare la lotta politica e militare contro il predominio economico (ma anche culturale) d'un Occidente ritenuto aggressivo e globalizzante. Da questo punto di vista si isolano alcuni aspetti del jihād: quello che identifica l'obbligo per i componenti della comunità islamica di difendere, in caso di aggressione, oppressione o persecuzione la comunità stessa (cioè il jihad difensivo), oppure quello che mira ad espandere i domini musulmani (senza che in questo caso vi sia alcun obbligo connesso da parte dei singoli fedeli islamici ma solo della comunità nel suo insieme). Quindi al jihād viene attribuito anche un carattere difensivo e non puramente offensivo o espansivo, che non dovrebbe però prevedere atti di eccessiva efferatezza: infatti secondo un hadīth di Maometto: "non uccidete donne, bambini, neonati, vecchi" (cfr. Peter Partner: “Il Dio degli eserciti”).
CONFRONTO CON IL FONDAMENTALISMO EBRAICO-CRISTIANO.
La storia non ha conosciuto solo il jahad musulmano: troviamo tutta una serie di guerre ispirate a motivi religiosi. Comunemente si dice che la religione e la guerra sono antiteci e che un uomo veramente religioso non può volere la guerra. Ciò sarà vero, almeno in via di principio, in una religione che predichi la fratellanza di tutti gli uomini. Ma non tutte le religioni predicano la fratellanza e la uguaglianza degli uomini: ad esempio la religione ebraica (mosaica) parlava di un popolo eletto e molte religioni primitive, e anche non tanto primitive, assegnano a un determinato gruppo etnico una discendenza divina negata ad altri. Soprattutto la inconciliabilità è solo in linea di principio. Il Cristianesimo si fonda sulla fratellanza, sull'amore, sul perdono. Eppure i cristiani hanno combattuto non solo feroci lotte per la difesa della fede (forse anche comprensibili), ma hanno imposto con la violenza delle armi la loro fede in interi continenti (l'America) e soprattutto hanno combattute spaventose lotte interne fra fazioni che davano interpretazioni diverse dei testi sacri condivisi: così le tragiche lotte fra cattolici e protestanti che hanno insanguinato l'Europa appena tre secoli or sono. Anzi, storicamente, la "tolleranza religiosa", che è la base di ogni altra libertà, è nata dalla comune evidenza della inanità delle lotte religiose.
Le stragi compiute in "Nome di Dio" purtroppo hanno una lunga storia, lunga forse quanto quella della storia dell'umanità stessa e non sono una esclusività dell'Islam. Esaminiamo i caratteri propri di tutte le "guerre sante". Certamente un punto di forza è che il combattente crede di seguire la volontà divina, si aspetta una ricompensa eterna, è sicuro della vittoria. Questo però è pure un punto di debolezza: il credente, a differenza del laico, non valuta le effe-ttive forze in campo, non valuta gli avvenimenti nella loro realtà, è in qualche modo impermeabile all'esperienza ma pensa che Dio onnipotente gli darà la vittoria in un modo inaspettato, al di la di ogni umana previsione. E questo fatto può portare alla catastrofe. All'epoca di Vespasiano gli ebrei iniziarono una rivolta senza speranza contro i romani: sconfitti, difesero senza speranza Gerusalemme e distrutta ancora Gerusalemme si chiusero in Masada fino a suicidarsi tutti. Perchè compiere azioni che apparivano fin da principio votate all'insuccesso? Perchè essi speravano in un intervento diretto di Dio seguendo questo o quell’ "invasato" che glielo prometteva.
Va anche considerato il carattere di spietatezza che assunsero le guerre religiose cristiane. I nemici non erano nemici comuni, erano nemici di Dio e andavano  distrutti almeno fino a che essi non si convertivano. E allora vediamo innalzarsi i roghi, il massacro indiscriminato degli eretici, le tante "notti di S. Bartolomeo" che purtroppo la nostra storia ricorda.
Anche le “Crociate” furono una sorta di Jihad. Infatti, l'espressione "guerra santa" viene a volte approssimativamente utilizzata anche per indicare le Crociate. Contro l'Oriente esse rappresentarono di fatto la risposta del mondo cristiano all’offensiva militare islamica in atto da tempo. Erano, infatti, l'unica plausibile risposta alle aggressioni musulmane: un tentativo di arginare la conquista musulmana di terre cristiane. Dal tempo di Maometto, la espansione islamica si servì sempre della spada. Il pensiero musulmano divideva il mondo in due sfere, la "Dimora dell'Islam" (Dār al-Islām) e la "Dimora della Guerra" (Dār al-harb), intendendo con Dār (dimora) non già una dimora dell'Islam, ma la parte del mondo in cui regni la sharī‘a. Cristiani ed ebrei potevano essere tollerati all'interno di uno Stato musulmano, ma sotto la legge musulmana. Tuttavia, l'ecumenismo islamico aveva (ed ha) come logica conseguenza che il mondo non musulmano (quindi anche le terre cristiane) dovevano essere conquistate alla salvezza islamica, o avvilite in una condizione di vassallaggio, o distrutte.
Ciò che fece organizzare, almeno la prima Crociata, fu un appello delle Chiese orientali al Pontefice di Roma affinché fosse messa fine all'umiliazione di dover vivere in uno Stato non cristiano. Non furono il progetto di un papa ambizioso o i sogni di cavalieri rapaci, ma una risposta a più di quattro secoli di conquiste, con le quali i musulmani avevano già fatto propri i due terzi del vecchio mondo cristiano. A quel punto, il Cristianesimo, come fede e cultura voleva difendersi anche in chiave attiva, per non doversi far soggiogare dall'Islam. Scriveva papa Innocenzo III, nel 1215: “Come può l'uomo che ama secondo il precetto divino il suo prossimo come se stesso, sapendo che i suoi fratelli di fede e di nome sono tenuti al confino più stretto dai perfidi musulmani e gravati della servitù più pesante, non dedicarsi al compito di liberarli?”. Nella prospettiva cristiana medievale, quindi, il compito dei crociati era sconfiggere i musulmani invasori e difendere la Chiesa contro di loro. Ma che dire del massacro compiuto dai crociati di Goffredo di Buglione, quando il 15 kuglio del 1099, coronando con successo la I Crociata in Terra Santa, liberarono dai Turchi il Santo Sepolcro? Uomini, donne e bambini furono uccisi, bruciati vivi, sterminati nel nome di Dio: La conquista turca di Gerusalemme non aveva procurata la minima parte di questi problemi alla sua popolazione  (cfr. Anna Morisi: “La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate”).
“Guerra santa cristiana” e “guerra santa musulmana” erano proclamate in modo sostanzialmente diverso. Se infatti è vero che nell'Islam è lecita una individuale e spontanea lettura interpretativa del Corano (laddove nel Cristianesimo è centrale il con-cetto di "Chiesa docente") è però anche vero che - come si è già accennato - per poter essere validamente proclamato, il 'jihād deve essere legittimato dal consenso della maggioranza dei più autorevoli giurisperiti (ulamā, singolare ālim) e da una nutrita serie di fatawa (pareri consultivi dei giurisperiti). Nell'Islam classico l'iniziativa incombeva poi, per gli aspetti pratici e organizzativi, sul Califfo. Diversamente, le Crociate erano istituzionalmente promosse dal vertice della pi-ramide teocratica, formalmente del tutto assente nell'Islam.
Ora, occorre annotare che, proprio a causa della mancanza di organizzazione ecclesiastica all'interno della vasta maggioranza dei musulmani, nessun divieto giuridico può sanzionare chi si autoproclami giurisperito (ālim) e quindi, sia pur con grande sicumera, non mancano improvvisati ulamā che non esitano a proclamare un jihād dopo essersi provvisti di una qualsivoglia compiacente "fatwā", cioè di un parere legale che risponda a un quesito giuridico astratto, in grado di sostenere la loro proclamazione. Nè bisogna dimenticare che le "fatāwa" (plurale di fatwā) possono essere numerose e contrastanti, tanto che può accadere che qualcuno ritenga legittimo proclamare un jihād laddove un altro non ne ravvisi i requisiti legali minimi. I "nuovi dotti" dell’Islam, spesso autodidatti e forti contestatori dell'autorità degli "ulamā" ufficiali (accusati di connivenza o, quanto meno, di acquiescenza nei confronti dei numerosi autocrati che governano il mondo islamico in spregio delle indicazioni etico-giuridiche imposte dall'Islam), non si adeguano per lo più al radicato portato della tradizione islamica (assai rigida nel legittimare il ricorso al jihād), stratificatasi in 14 lunghi secoli di riflessione teologica e giuridico-religiosa. Non temono quindi di proclamare un jihād anche quando ne manchino in modo evidente i requisiti indispensabili (in arabo: shurūṭ ), sì da fare assumere alle loro bellicose dichiarazioni un valore eminentemente politico. A questo proposito, ha provocato violente reazioni nel mondo islamico la citazione di una frase dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo pronunciata da Benedetto XVI nell'ambito di una "lectio magistralis" presso l'università di Ratisbona, nel corso della quale con riguardo alla guerra santa il Papa ha detto: "La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia ..." (cfr. Nicola Melis: “Il concetto di gihad”).
IL TERRORISMO ISLAMICO.
Il concetto di terrorismo è quanto mai ampio e contestato tanto che all'ONU non si è mai riusciti a trovare una definizione che fosse accettabile per tutti. In senso lato possiamo definire terrorismo tutte le azioni compiute nell'ambito di lotte armate che non siano intese semplicemente a colpire le forze armate avversarie, ma a spargere il terrore fra le popolazioni civili. In questo senso esso è stato sempre ampiamente usato dall'antichità ai nostri giorni per fiaccare la volontà di combattere dei popoli nemici e gli esempi potrebbero essere purtroppo infiniti. Ci limitiamo per il passato a ricordare forse il caso più impressionante: le orde mongole guidate da Gengis Kan uccidevano tutti gli abitanti, nessuno escluso, delle città che facevano loro resistenza: l'impero mongole fu costituito per la maggior parte senza combattere perchè davanti a questa terribile prospettive la maggior parte delle città si sottomettevano senza tentare nemmeno la resistenza.
Nel mondo attuale esistono terrorismi di ogni genere: in molti paesi dell'America Latina, dell'Africa e dell'Asia il terrorismo è un fenomeno endemico che si confonde comunemente con le guerriglie rivoluzionarie e le infinite lotte etniche. Ma anche nella evoluta Europa non mancano i "terrorismi": basti pensare al terrorismo basco o a quello nostrano delle Brigate Rosse (e movimenti affini.) Ma si tratta di fenomeni locali, con scarsa incidenza sugli equilibri e gli scenari mondiali: il “terrorismo islamico” fino a qualche anno fa rientrava in queste categorie. Dopo l'11 settembre 2001 l'Occidente e il mondo intero si sono sentiti minacciati e soprattutto è nata la preoccupazione più o meno fondata che possano essere usate armi di sterminio di massa (nucleari o batteriologiche). Questi timori non sono considerati reali in altri casi. Facciamo qualche esempio. Il terrorismo basco è opera di una sparuta minoranza del popolo basco che è gia una piccola minoranza della Spagna: colpisce dolorosamente ma non ha alcun pretesa di espandersi, di minacciare altre nazioni, si esclude che possa usare armi di sterminio di massa. Ma il terrorismo islamico (dopo l'11 settembre) sembra essere tutta altra cosa. Supera i confini delle singole nazioni, va al di la del mondo islamico stesso, intende colpire gli occidentali in generale anche nelle loro terre, soprattutto potrebbe avere un seguito ampio nelle masse, potrebbe essere sostenuto da Stati (come avvenuto in Afganistan). Mosso da una cieca fede religiosa non sembra preoccuparsi delle conseguenze rimettendo tutto nelle mani di quel Dio al quale essi credono di ubbidire: in questa prospettiva potrebbero arrivare anche a ciò che più di ogni altro viene temuto: l'uso delle armi atomiche e batteriologiche che ormai il diffondersi delle conoscenze scientifiche ha reso relativamente abbastanza agevole costruire.
Non è facile darne una definizione esaustiva perchè assume aspetti e caratteri molto diversi. Diciamo che il carattere che lo distingue è il “suicidio religioso”. Il com-battente islamico porta la strage nell'ambito dei "nemici" facendosi saltare con l'esplosivo, secondo un rituale abbastanza preciso, nella prospettiva di raggiungere immediatamente il paradiso. In Occidente viene denominato impropriamente "kamikaze" ma egli si considera uno "shaid", termine coranico che significa "martire" nel significato originale del termine greco. Martiri infatti nel cristianesimo venivano definiti i "testimoni" della fede cioè coloro che avevano affrontato la morte per rendere testimonianza della loro fede ma avrebbero potuto salvarsi semplicemente rinnegandola. Nell'ambito del Corano tuttavia si considerarono "testimoni" ("shaid") quelli che morivano combattendo contro gli infedeli.
In tempi recenti si è cominciato a parlare di "shaid" al tempo della guerra fra Iran e Iraq. Giovanissimi iraniani ("pasdaran" cioe "guardiani della rivoluzione") si cingevano il capo con un nastro sul quale erano scritti dei versi del corano, avanzavano sui campi minati dove morivano facendo esplodere le mine: l'esercito regolare poi avanzava su quei varchi aperti cosi dolorosamente. Quelli che si sacrificavano venivano considerati "shaid", erano onorati ampiamente e intensamente nell'Iran di Komeini. Non si trattava però di terrorismo: semplicemente di militari che si immolavano nell'ambito di una guerra regolare. In seguito però il fenomeno è dilagato e si ètrasformato: lo "Shaid" è una persona che si lascia esplodere uccidendo indiscriminatamente tutti quelli che sono intorno a lui, considerati comunque nemici.
Si denomina quindi con l’espressione “terrorismo fondamentalista” un fenomeno molto complesso che ha avuto la sua massima espressione l' l'11 settembre 2001 a New York, che è esistito molto tempo prima della fondazione di “Al Qaeda” e continua anche dopo che la organizzazione diretta di Bin La-den è stata praticamente smantellata perdendo le serie di basi che aveva in Afganistan e che il suo capo è stato ucciso.
Il “terrorismo fondamentalista” non ha fini ben chiari e dichiarati. In effetti i fondamentalisti islamici intendono la loro lotta come lotta dell'Islam contro gli infedeli identificati negli occidentali in generale e negli americani in particolare, in quanto considerati cristiani oppure atei. Essi vedono uno scontro religioso: è una categorizzazione del problema in termini religiosi che sfugge completamente agli occidentali che, anche se credenti, vivono e pensano ormai da secoli in un orizzonte laico. Le rivendicazione economiche sono assolutamente secondarie. La nostra mentalità che vede lo Stato soprattutto come regolatore della distribuzione della ricchezza non ci fa comprendere che per un fondamentalista islamico la funzione dello Stato è etica, che esso è innanzitutto difensore e depositario della fede. Inutilmente possiamo far notare che negli ultimi anni gli occidentali hanno intrapreso due interventi militari, in Serbia e in Kossovo, a favore di popolazioni musulmane contro popolazioni cristiane, che nella prima guerra del Golfo gli stati arabi in maggioranza erano alleati con gli Americani, che in Afganistan in pratica si è appoggiata una fazione interna (l’ ”Alleanza del nord” ) anche essa islamica. Non importa: essi vedono l'Occidente come il nemico dell'islam e tutti quelli che si alleano con esso come traditori, come nemici dell'Islam anche se essi stessi musulmani. Solo un piccolo numero di persone effet-tivamente entra nell'ottica della lotta armata agli occidentali: ma non possiamo ignorare che le masse musulmane sono con il cuore, se non con la ragione, con essi.
Secondo un’impostazione storicistica, il radicalismo terroristico islamico nasce soprattutto dalla constatazione dolorosa della condizione di debolezza, di penosa inferiorità in cui il "dar al islam" (il regno dell'islam) si trova rispetto al mondo europeo cristiano. Per circa mille anni Islam e Cristianesimo si sono affrontate con alterne vicende con l'Islam generalmente all'attacco e la difesa cristiana ora soccombente ora invece in vigorosa riscossa. La situazione però è mutata dalla fine del 1600. Nel 1683 i turchi assediarono Vienna che resistette fino a che un esercito guidato dal re polacco Giovanni Sobieski affrontò l'armata musulmana e la sconfisse rovinosamente nella battaglia di Kahlenberg. E' stata quello l'ultima volta in cui una armata musulmana ha tenuto testa a una cristiana: in seguito i musulmani hanno cominciato a perdere ogni scontro. La situazione è andata aggravandosi con il tempo: le truppe francesi di Napoleone sconfissero con irrisoria facilità i Mamelucchi che dominavano l'Egitto da più di 500 anni. Senza grosse difficoltà nell'Ottocento gli europei conquistarono prati-camente tutto il mondo islamico o vi stabilirono comunque la loro egemonia. Ciò provocò anche nell'Ottocento fenomeni di rivolta generale dei quali il più significativo è la vicenda del "Madhi" nel Sudan. Analogamente ai fondamentalisti moderni il Madhi propugnò il ritorno a un integralismo islamico sognando di liberare tutto il "Dar al islam" dagli europei. Raccolse ampie forze nel Sudan, formate dai c.d. “dervisci” (“darwīsh” significa letteralmente "cercatore di porte". In campo mistico il termine, più ancora che "mendicante", ha acquistato il significato di colui che cerca il passaggio che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale. Il termine generalmente si riferisce a un “asceta mendicante” oppure ad un temperamento ascetico di colui che è indifferente alle cose materiali), e queste investirono e conquistarono Kartum. Ma nel 1898 un corpo di spedizione formato da soldati inglesi e ed egiziani da essi organizzati marciò nel Sudan: davanti a Kartum 60.000 madhisti si lanciarono in una carica massiccia sicuri che Allah avrebbe dato loro la vittoria: le armi europee fecero strage, i madhisti non riuscirono nemmeno a giungere allo scontro diretto: caddero a migliaia, inutilmente. Dopo la battaglia, se di battaglia si può parlare, sul terreno restarono 48 inglesi e 11.000 dervisci. Il condottiero inglese Kitchner ebbe grandi onori in Egitto (esiste ancora un’ isola con giardino botanico ad Aswan che porta il suo nome) e in Inghilterra ( il titolo di lord e poi anche una sfar-zosa tomba in St. Paul a Londra).
Da ormai due secoli l'islam è umiliato profondamente e tale umiliazione si è acuita negli ultimi anni. Gli arabi non sono riusciti a eliminare o almeno a contenere un piccolo stato come Israele contro il quale hanno perso quattro guerre L'iraq ha minacciato "la madre di tutte le battaglie" nel 92 e poi nel 2003 "una resistenza insuperabile", ma gli Americani hanno vinto in entrambi i casi con estrema facilità, quasi senza perdite. In Afganistan è bastato praticamente aiutare una delle fazioni in lotta (Tagiki e Usbeki del nord) e le forze Talebane che avrebbero dovute combattere fino all'ultimo uomo si sono dileguate.
Per gli occidentali non vi sono dubbi: i musulmani non hanno operato le riforme necessarie, sono ancora troppo legati a forme superate di organizzazione e di civiltà (i Giapponesi, ad esempio, hanno imitato invece gli occidentali e rapidamente sono entrate nel novero delle nazioni più avanzate). Gli arabi sono discordi, in lotta eterna fra i vari gruppi, non hanno costituiti stati democratici e moderni, dappertutto ci sono dittature e classi dirigenti inadeguate. La stesa diagnosi viene condivise dalle elites culturali arabe educate più o meno all'occidentale (cfr. John L. Esposito: “Guerra santa? Il terrore nel nome dell’Islam”)
Ma il fondamentalismo fa una diagnosi opposta: la decadenza araba e musulmana è dovuta all'abbandono della tradizione coranica. Solo il ritorno all'integrale applicazione della legge coranica (sharia) può fare rinascere l'Islam. la gloriosa civiltà islamica e far rivivere i tempi mitici del Califfato e degli Abbassidi: non bisogna modernizzarsi in senso occidentale ma anzi tornare alla pura tradizione islamica. Questo è il punto essenziale: la rinascita islamica passa attraverso il rigetto dell'occidentalizzazione. Il fine del terrorismo islamico è quello di destabilizzare e rovesciare tutti i regimi arabi che più o meno esplicitamente prendono ispirazione dall'Occidente. Secondo questa impostazione, il terrorismo islamico ha radici religiose.
L' Islam non sembra comprendere la differenza fra politica e religione: le due cose pressappoco coincidono. In Iran l'unico paese in cui una concezione fondamentalista è effettivamente giunta al potere tutte le leggi debbono essere approvate da un consiglio di esperti coranici (teologi, diremmo noi) perchè ogni decisone è legittima solo e in quanto applica la legge divina o almeno non è in contrasto con essa. Questa commistione fra religione e politica sembrerebbe essere una caratteristica propria dell'Islam. Ma ciò è discutibile, può essere un errore di prospettiva. Infatti, le concezioni del passato hanno ritenuto il legame fra religione e politica come un fatto essenziale ed ovvio. Ma siamo noi occidentali, invece, che abbiamo ormai acquisito, anche se credenti, una concezione laica della politica e dello Stato. Distinguiamo nettamente o abbastanza nettamente fra i fini dello Stato e quelli della Chiesa. Come già Locke ebbe ad enunciare, ormai oltre tre secoli fa, la Chiesa è una associazione volontaria che ha per fine la salvezza dell'anima mentre lo Stato è una associazione necessaria (obbligatoria) che ha per fine il buon governo. l'ordine, la pace, il benes-sere: il peccato non si identifica con il reato e viceversa, anche se molto spesso la stessa azione rientra in tutte e due le categorie. In seguito, specie in conseguenze della rivoluzione industriale e delle lotte sociali, lo Stato ha assunto agli occhi degli Occiden-tali soprattutto la funzione di promotore e regolatore della ricchezza nazionale, della distribuzione del reddito. L’Occidente giudica i suoi governanti dall'aumento del reddito nazionale e da una equa distribuzione dello stesso (in tutte le possibili combinazioni delle due cose): a nessun occidentale verrebbe in mente di chiedersi se per effetto di un governo politico i "peccati" sono aumentati o sono diminuiti. Anzi nel momento in cui si discutono questioni di coscienza (aborto, fecondazione artificiale) i tradizionali schieramenti e partiti politici fanno un passo indietro, si lascia libertà di voto ai singoli deputati e spesso poi si ricorre ai referendum come manifestazione diretta della volontà popolare che in questi casi non può essere rappresentata dai partiti che sono costituiti su altra base. Ma questa concezione laica si presenta nella nostra tradizione storica solo con il Rinascimento e ha stentato secoli per affermarsi. Nel Medio Evo dominava incontrastato il principio enunciato già da Agostino: "Nulla auctoritas nisi a deo": il governante è il rappresentante di Dio, colui che fa valere la giustizia, cioè, in un ambito religioso, la "volontà di Dio". Il sovrano deve ai sudditi la "giustizia": la legge esiste già, al di sopra di lui : egli la deve solo applicare: ecco, questo era il suo vero compito. I problemi economici apparivano del tutto secondari.
Nel mondo musulmano la concezione della autorità era sostanzialmente questa: solo alquanto più radicale. Infatti le Sacre Scritture cristiane contengono principi generali che possono essere interpretati in modo molto vario. Il Corano invece contiene prescrizioni precise, spesso minuziose: bisogna applicarle integralmente se si vuole essere un buon sovrano, vale a dire un buon musulmano. Nel mondo musulmano non vi è stato il Rinascimento, non vi è stato l'Illuminismo, la Rivoluzione francese, l'affermazione della democrazia: esso è come ripiegato su se stesso ormai da molti secoli e solo il contatto traumatico con gli occidentali ha messo in crisi tutto un mondo di valori che parevano immutabili da millenni. Pertanto non è da meravigliarsi che fatti politici e religiosi siano strettamente connessi. Nel nostro caso particolare il mondo musulmano si sente dominato ed egemonizzato dall'Occidente: ma questo significa semplicemente e conseguentemente che è egemonizzato dai cristiani o peggio ancora dagli atei. La difesa delle loro nazioni, della loro civiltà diviene allora naturalmente la difesa della fede: ogni combattente è un "martire" della fede che si immola per la maggior gloria di Allah più o meno allo stesso modo in cui i nostri crociati sentivano di compiere un dovere religioso. Ogni "Shaid", dal suo punto di vista, legittimamente si aspetta che quel Dio per il quale egli si immola lo ricompensi immediatamente. Egli lancia il suo grido "Dio è grande" per dimostrare la sua fede nella onnipotenza di Dio che darà la vittoria ai credenti e il premio eterno ai suoi combattenti. Da questo punto di vista il fondamentalista appare irrimediabilmente chiuso nella sua coerenza. Nessun fatto, nessuna valutazione delle conseguenze dei suoi atti, nessun realistica considerazione lo raggiunge: non contano aerei o carri armati e missili , la volontà di Dio è superiore: “Allah Akbar”: “Dio è grande” (o, meglio sarebbe tradurre “Dio è onnipotente” (cfr. Marco Fasbender Jacobitti: “Terrorismo islamico. Origini, eventi, strategie”).
Certo è che i mussulmani moderati, le elites culturali invece si sono resi conto delle differenza che vige in Occidente fra religione e politica: si rendono conto che le riforme politiche ed economiche europee non intaccherebbero affatto l'Islam, che si può essere buon musulmano anche seguendo la "american way of life", che è possibile integrarsi nel mondo moderno senza perdere per niente la propria fede. E’ quindi in atto una specie di gigantesca lotta culturale e purtroppo anche politica e militare fra queste due anime del mondo musulmano: il “terrorismo islamico” è l'aspetto più appariscente e più pericoloso (cfr. Magdi Allam: “Vincere la paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente”).
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