domenica 26 maggio 2013

STORIE DI DONNE NEL NUOVO TESTAMENTO


"NOLI  ME TANGERE" - Tiziano, 1511

INTRODUZIONE
In "Storie di donne nell'Antico testamento" abbiamo dimostrato che all’origine della misoginia religiosa c’è la Bibbia vetero-testamentaria. Essa attribuisce alla donna il primo peccato, rende sospette tutte le figlie di Eva e le vota, sin dalla nascita, ad un marchio d’infamia. Eva ha introdotto il peccato nel mondo, la maledizione e la morte: «È causa della donna che è iniziato il peccato ed è a causa sua che noi moriamo tutti» (Sir. 25:24). Non a caso quando nella Bibbia dell’Antico Testamento si vuole umiliare qualcuno lo si definisce “figlio della donna” (Giobbe, 15:14).
In tutto l'Antico Testamento la funzione della donna rimane limitata ed, in generale, è subalterna al maschio. In casa i suoi diritti sembrano uguali a quelli del marito, per lo meno nei confronti dei figli che essa educa; ma la legge la mantiene sempre al secondo posto. La donna non ha partecipazione ufficiale al culto; se anch'essa può gioire pubblicamente durante le feste (Es. 15:20-21; Dt. 12:12; Gdt. 21:21; 2Sam. 6), però non può esercitare alcuna funzione sacerdotale. Solo gli uomini sono tenuti ai pellegrinaggi d'obbligo (Es. 23:17). Tra quelli che sono rigorosamente obbligati a osservare il sabato (Es. 20:10), la sposa non è nominata. D’altra parte, questo era stato appunto l’anatema pronunciato dal Signore contro la donna all’epoca della sua cacciata dall’Eden : “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gn. 3:16). Il Signore stesso, quando Miriam e Aronne pongono sotto accusa il fratello Mosè per avere egli sposato una donna etiope, punisce, con la lebbra ed un isolamento di sette giorni fuori dell’accampamento, solo la donna che aveva osato “parlare contro il suo servo di fiducia” (Nm. 12).
L’evoluzione sociale ebraica attenua la legge di Mosè: il Nuovo Testamento mostra costumi addolciti e giudizi più benigni nei confronti delle donne, segnando un progresso rispetto al passato. Si vede Gesù intrattenersi pubblicamente con la Samaritana in una lunga discussione sul Padre, meravigliando non poco i suoi discepoli per il fatto di averlo visto discorrere con una donna (Gv. 4:5-42); e lo si vede ancora assolvere l’adultera, evitandole la lapidazione, come invece avrebbe voluto la legge di Mosè. Certo, il perdono gli è stato più facile che al marito e, in precedenza, alle nozze di Cana, quando la madre gli fa notare che i commensali non hanno più vino, le si era rivolto stizzito: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”, insomma, come se avesse detto: «Che c’è in comune fra te e me?» (Gv. 2: 4). Ma è ben significativo che accetti di lasciarsi seguire nelle sue predicazioni da donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità (Lc. 8:1-3), di prendere come esempio del regno dei cieli il discernimento delle vergini savie (Mt. 25:1-13) e di affidare a Maria di Magdala la missione di annunciare la sua Risurrezione (Gv. 20:17).
Gesù non poteva non conferire una maggiore dignità alla donna, perché egli nasce da donna. La consacrazione della dignità della donna ha luogo nel giorno dell'annunciazione: Maria, vergine e madre, realizza in sé l'ideale femminile della fecondità: nello stesso tempo rivela e consacra il desiderio della verginità, fino allora soffocato poiché assimilata ad una vergognosa sterilità. In Maria si incarna l'ideale della donna, perché essa dà i natali al principe della vita, con una maternità esclusivamente spirituale (Mt. 1:18-24). Alla donna che alzando la voce disse: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte ”, volendo celebrare gli aspetti naturali della maternità di Maria, Gesù rispose: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc. 11:27-28).
Il Cristianesimo e la Chiesa si appropriano di questa nuova dimensione della donna, la verginità, e la esaltano. Paolo elabora così una teologia della donna, mostrando in quale senso la divisione dei sessi è superata: “Non c’è più né uomo né donna: voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal. 3:28). La distinzione dei sessi è superata, al pari delle divisioni di ordine razziale o sociale. Saggiamente Paolo continua a dire che "è meglio sposarsi che ardere" (1Cor. 7:9), tuttavia esalta il carisma della verginità; osa persino contraddire il Genesi che affermava: "Non è bene che l'uomo sia solo" (Gn. 2:18; 1Cor. 7:26): tutti, ragazzi e ragazze, possono, se chiamati, rimanere vergini. Così alla distinzione tra uomo e donna si aggiunge una nuova distinzione, quella tra donne vergini e non vergini. La fede e la vita celeste trovano nella verginità vissuta un tipo concreto di esistenza, in cui l'anima si unisce con decisione e completezza al suo Signore (1Cor. 7:35). Per rispondere alla sua vocazione la donna non deve necessariamente diventare sposa e madre, ma può restare vergine di cuore e di corpo.
Ma la donna senza vocazione di verginità? No, il culto della verginità propugnato dal Cristianesimo non emancipa la donna. La Chiesa romana delle origini si ispira al Vecchio Testamento e continua a conferire alla donna un ruolo inferiore ed a inibire la sua liberazione, sperando di ritrovare lo spirito dei profeti. La sua dottrina è semplice: l’uomo e la donna sono uguali nell’ordine sovrannaturale, ma l’uomo è superiore alla donna su un piano naturale. L’uguaglianza davanti a Dio non provoca l’uguaglianza naturale: essa non sopprime né le classi sociali, né le “classi di sepoltura”. Non avendo percepito la sfumatura, alcuni cristiani della prima ora pensarono di emanciparsi, ma S. Paolo li ricondusse alla gerarchia divina: «La testa del Cristo è Dio, la testa dell’uomo è il Cristo, la testa della donna è l’uomo» (1Cor. 11:3). E l’apostolo fissa regole pittoresche e futili, ordinando alla donna di coprirsi la testa in chiesa. «L’uomo non deve coprirsi il capo», dice S. Paolo, «perché egli è l’immagine della gloria di Dio, ma la donna non è che la gloria dell’uomo» (1Cor. 11:7).
Paolo riconosce al padre il diritto di disporre della figlia a suo gradimento: fin dalla nascita può votarla alla verginità o maritarla «come vada ma sempre a modo suo: egli non pecca mai. Colui che fa maritare la figlia fa bene, ma colui che non la fa sposare fa meglio» (1Cor. 7:36 seg.). La ragazza passerà dalla tutela del padre a quella dello sposo. Per Paolo, «la sposa deve obbedire in tutto al marito» (Efes. 5:24). Anche la prima epistola di Pietro ricorderà che “Sara obbediva ad Abramo e lo chiamava mio signore” (3:6).
Quindi risale soprattutto alle norme dettate da Paolo di Tarso la sottomissione delle donne nelle comunità cristiane, anche se, nella Lettera ai Romani, cap.16, egli raccomanda la diacona Febe e saluta Giunia in quanto “segnalata tra gli apostoli ed è stata in Cristo prima di me”. Ma, non appena può, ribadisce: “Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso di parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (1Cor. 14:34-35) e “La donna impari il silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna d’insegnare né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva, e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che ingannata si rese colpevole di trasgressione” (1Tim. 2:11-15). E le donne vedove, se sono giovani, “si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all’avversario alcun motivo di biasimo, sviandosi dietro satana” (1Tm. 4:14-15), perché altrimenti “trovandosi senza far niente, imparano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene“ (1Tm. 4:13).
Come unica eredità dell’Impero romano la Chiesa ne ha custodito il senso autoritario e giuridico. Ai nostri giorni ancora, la gerarchia ecclesiastica è un modello di minu-ziosità, è un interminabile decrescendo di gradi e di onori dal Sovrano Pontefice fino al basso clero della Svizzera primitiva o della bassa Limousin. Le poche donne ammesse al Concilio Vaticano II dovevano tacere e ascoltare: il loro attributo ufficiale di uditrici definiva perfettamente il loro ruolo. L’assoggettamento della donna è dedotta dalla sua origine: nata dalla costola d’Adamo, Eva non esiste che per lui; ella non è onorata da una creazione personale. Disillusa dalla scienza, la Chiesa ammette infine che questa costola è simbolica, ma il fedele è tenuto a credere che «la prima donna fu formata dal primo uomo». L’inferiorità della donna è dunque naturale. Tommaso d'Aquino osserva che secondo Genesi 2:22-23 la donna fu l'ultimo essere creato da Dio e non fu creata dal nulla, come tutte le altre creature, ma fu creata da una costola di Adamo. Infatti, in “Summa Theologiae” scrive: “La donna non doveva essere creata nella prima creazione delle cose. Dice infatti Aristotele ("De Generatione Animalium", 2,3) che la femmina è un maschio mancato (“femina est mas occasionatus”). Ma niente di mancato e di difettoso vi doveva essere nella prima istituzione delle cose. Dunque, in quella prima istituzione delle cose la donna non doveva essere prodotta”.

RASSEGNA DI DONNE NEI VANGELI
1
MARIA DI NAZARET, madre di Gesù, forse “sempre vergine”, ma assente ingiustificata alla resurrezione del figlio.
     Maria (in ebraico: Myrhiàm; aramaico: Maryām; greco: Mariam, Μαρία María; arabo: Maryam) è venerata come "Santissima Madre di Dio" dai cattolici e dagli ortodossi (che la onorano del titolo di Θεοτόκος, Theotókos); la sua santità è comunque riconosciuta dalla Comunione anglicana e anche da confessioni protestanti come quella luterana. Le è usato anche il titolo di Madonna. Nel Corano le è dedicata una sura ed anche per l’Islam la sua maternità è misteriosa.
Dei tre vangeli sinottici quello che parla più diffusamente di Maria è il Vangelo di Luca. Vi si racconta che Maria viveva a Nazaret, in Galilea e che, promessa sposa di Giuseppe, ricevette dall'arcangelo Gabriele l'annuncio che avrebbe concepito il Figlio di Dio, senza avere rapporti intimi (Lc. 1:26-38). Ella accettò e, per la sua completa accettazione e fedeltà alla missione affidatale da Dio, è considerata dai cristiani il modello per tutti i credenti. Lo stesso Vangelo secondo Luca racconta la sua pronta partenza per una città della regione montuosa di Giuda, per aiutare una parente di nome Elisabetta, incinta di sei mesi sebbene molto anziana. Da Elisabetta è chiamata "la madre del mio Signore". Maria risponde proclamando il Magnificat (Lc. 1:46). Trovandosi a Betlemme, in Giudea, con suo marito Giuseppe per il censimento indetto, tramite il console Quirino, dall'imperatore Augusto (Lc. 2:1-2), partorì (in un riparo che era forse una stalla) suo figlio, al quale impose il nome di Gesù come le aveva prescritto l'arcangelo Gabriele. Il vangelo secondo Luca racconta il canto degli angeli e la visita dei pastori (Lc. 2:1-20), e quello secondo Matteo, che fa risiedere la famiglia fin da principio a Betlemme, la visita dei sapienti orientali, detti i Magi (Mt. 2:1-11). Seguono la persecuzione di Erode, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti e il ritorno a Nazaret. Quando Gesù compì 12 anni, Maria e Giuseppe lo condussero a celebrare la Pasqua nel Tempio di Gerusalemme. Tornando a Nazaret, i genitori non trovarono più Gesù nella carovana e, preoc-cupati, tornarono indietro a cercarlo. Lo ritrovarono al terzo giorno nel Tempio, dove Gesù stava insegnando fra i dottori della Legge. Maria è testimone, anche senza capirne in fondo il significato, della prima volta che Gesù manifesta la coscienza di essere figlio del Padre (Lc. 2:41-50). I Vangeli ce la presentano in vari momenti vicino a Gesù nel periodo del suo ministero pubblico.
Nel Vangelo secondo Giovanni Maria è chiamata sempre «la Madre di Gesù». I biblisti cattolici ritengono che in tale vangelo Maria sia il simbolo dell'Israele fedele, che aspetta da Gesù il dono del vino dell'alleanza nuova (Nozze di Cana). Inoltre, essa è colei che ha fatto compiere al Figlio il primo miracolo della sua vita pubblica, ed è perciò presentata come la mediatrice di tutte le grazie presso Gesù Cristo. Sul Calvario, durante l'agonia in croce, Gesù l'affida all'apostolo Giovanni e a Maria affida lo stesso apostolo: «Donna ecco tuo figlio!», poi disse al discepolo: «Ecco tua Madre!». E da quel momento il discepolo l’accolse nella sua casa (Gv. 19:26-27). Secondo la dottrina cattolica questo sarebbe l'atto che la costituisce Madre dei credenti.
Negli Atti degli Apostoli è presentata in preghiera insieme con gli apostoli e i discepoli in attesa della venuta dello Spirito Santo (At. 1:14). Secondo la visione cattolica Maria fu quindi il centro attorno a cui gli stessi apostoli e discepoli si riunirono per la discesa dello Spirito, momento che sancisce la nascita della Chiesa.
Nei Vangeli Apocrifi la figura della Madre di Gesù ha avuto ampio risalto in quanto i cristiani delle prime generazioni hanno molto presto avvertito il pio desiderio di conoscere più a fondo l'eccellenza e la grandezza della sua personalità e l'importanza unica della funzione da lei svolta nell'economia della salvezza. Un esempio celebre è quello del cosiddetto Protovangelo di Giacomo, ritenuto l'apocrifo più antico tra quelli a noi noti. Esso concentra prevalentemente la sua attenzione sulla figura e sulla storia della Vergine santa, con una impressionante dovizia di informazioni e con la palese intenzione di difendere la sua verginità perpetua. Ma quanti altri di questi scritti si occupano di lei! Va precisato che l'interesse degli Apocrifi si rivolge soprattutto a due periodi dell'esistenza di Maria: il periodo “pre-evangelico”, che abbraccia gli anni della sua infanzia e giovinezza, e precisamente quelli precedenti al mistero dell'Annunciazione, e il periodo “post-evangelico”, ossia gli anni che vanno dalla Pentecoste alla sua Assunzione in anima e corpo alla gloria dei cieli. Probabilmente si riteneva che il tempo compreso tra questi due periodi fosse già stato rischiarato a sufficienza dalla luce sobria ma penetrante della divina rivelazione. L'immagine che questo tipo di letteratura ci offre della Madre del Signore coniuga tratti genuinamente umani con istantanee di predestinazione divina. Per questo gli Apocrifi sono testi alquanto problematici, a proposito dei quali già Origene ammoniva: «Non dobbiamo rigettare in blocco ciò che potrebbe essere utile per far luce sulla Scrittura. È segno di apertura di mente ascoltare e applicare le parole della Scrittura: “esaminate ogni cosa e ritenete ciò che è buono”» (1Ts 5,21).
La verginità di Maria ha una parte importante nei Vangeli apocrifi (dal greco apokryphos, “sottratto alla vista”, cioè scritti non appartenenti al canone delle Scrit-ture). I Vangeli dell'Infanzia hanno manifestato un segnato interesse per questo aspetto del mistero mariano. Il Protovangelo di Giacomo entra perfino in dettagli fisici che, se da una parte accentuano la dimensione taumaturgica del concepimento e del parto verginale di Cristo, dall'altra rischiano d'introdurre un elemento di dissacrazione nel velo di mistero che avvolge l'evento stesso. Il racconto lascia trapelare una certa tendenza alla ricerca curiosa che sembra rasentare la morbosità. Ma al di là di qualche intemperanza narrativa, Maria è tratteggiata come la Vergine per eccellenza che, con la sua integrità totale, vuole essere una prova incontestabile circa l'origine trascendente e la natura divina del bambino da lei nato. La sua immagine verginale, stagliata nello sfondo del mistero del Verbo Incarnato, vanta indubbiamente delle radici neotestamentarie; dagli Apocrifi però acquista una tenue colorazione terrena, fatta di semplicità e di una certa quale fragilità, che mettono in risalto l'intervento della divina onnipotenza là dove si esauriscono le possibilità della natura.
In conclusione, sia nei Vangeli canonici sia in quelli apocrifi Maria di Nazaret, la madre di Gesù, fu una donna “grandemente favorita” da Dio (Lc. 1:28). L’espressione “grandemente favorita” deriva da una singola parola greca che, in buona sostanza, significa “molta grazia”. Maria ricevette la grazia di Dio. La grazia è “favore immeritato”, ossia qualcosa che riceviamo nonostante non lo meritiamo. Ciò vuol dire che Maria aveva bisogno della grazia di Dio, proprio come tutti noi. La stessa Maria comprese questo fatto, in quanto dichiara in Luca 1:47: “…e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore…”. Maria riconobbe il bisogno di essere salvata, di aver bisogno di Dio come suo Salvatore. La Bibbia non dice mai che Maria fu qualcosa di diverso da una comune donna che Dio scelse per usarla in modo straordinario. Certo, Maria era una donna giusta e favorita (graziata) da Dio (Lc. 1:27-28). Allo stesso tempo, Maria era anche un essere umano peccatore proprio come chiunque altro, che aveva bisogno di Gesù Cristo come suo Salvatore, proprio come chiunque altro (Ecclesiaste 7:20; Romani 3:23; 6:23). Per cui, se Maria ebbe una “immacolata concezione”, non esiste alcun motivo biblico per non credere che la nascita di Gesù sia stata nient’altro che una normale nascita umana. Quando concepì Gesù, Maria, secondo i Vangeli canonici, era vergine (Lc. 1:34-38), ma il concetto della “verginità perpetua” di Maria è, per molti studiosi, “antiscritturale”. La versione ufficiale della CEI di Matteo 1:24-25 ci dice che Giuseppe “…prese con sé la sua sposa , la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio che chiamò Gesù”, ma si sostiene che la traduzione corretta del testo greco è che Giuseppe “…non la conobbe finchè ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, e gli dette nome Gesù”. Cioè, Giuseppe non ebbe con Maria rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito il primo figlio. Ma dopo? La questione dei fratelli di Gesù è ben nota. I cattolici ne negano l’esistenza: essi sostengono che quando i Vangeli parlano dei fratelli di Gesù si riferiscono ai sui fratellastri o cugini, posto che nella lingua aramaica c’era un solo termine che indicava fratelli, fratellastri e cugini; essi però omettono di rilevare che il testo originale dei Vangeli non è aramaico, ma greco e che in greco “adelfos” significa inequivocabilmente fratello e non fratellastro o cugino. E, poi, perché anche Luca, raccontando della nascita di Gesù a Betlemme, lo avrebbe esplicitamente definito “primogenito”? D’altra parte, negli stessi Vangeli ci sono numerose altre testimonianze dell’esistenza dei fratelli e delle sorelle di Gesù (Mc. 3:31-32; Mt. 7:46-47; Lc. 8:19-20; Mc. 6:3; Gv. 2:12; 7:2). Dunque, è possibile che Giuseppe e Maria abbiano avuto parecchi figli dopo che nacque Gesù e che Gesù ebbe quattro fratelli: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda, ed anche delle sorelle, di cui non conosciamo però il nome e il numero (Mt. 13:55-56). Insomma, Dio avrebbe benedetto e graziato Maria dandole parecchi figli, il che, in quella cultura, era il segno più chiaro della benedizione e della grazia di Dio su una donna. Una volta, mentre Gesù stava parlando, una donna tra la folla proclamò: “Beato il grembo che ti portò e le mammelle che tu poppasti!” (Lc. 11:27). Non ci fu mai più un’opportunità migliore di quella in cui Gesù potesse dichiarare che Maria era ancora vergine. Quale fu la risposta di Gesù? “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!” (Lc. 11:28). Per Gesù, l’ubbidienza alla Parola di Dio era più importante dell’essere stata la donna che lo aveva messo al mondo “sempre vergine”.
Mai, nella Scrittura, Gesù, o qualcun altro, rivolge qualche lode, gloria o adorazione a Maria. Solo Elisabetta, parente di Maria, lodò Maria in Luca 1:42-44, ma la sua lode era basata sul fatto che Maria avrebbe dato alla luce Gesù, non su qualche gloria intrinseca in Maria. Quando Gesù morì, Maria era alla croce (Gv. 19:25). Nel giorno di Pentecoste, Maria era con gli apostoli (At. 1:14). Tuttavia, Maria non è mai più menzionata dopo Atti 1. Ciò vuol dire che gli apostoli non danno mai a Maria un ruolo di primo piano. Nemmeno quando narrano della resurrezione del Cristo. L'assenza di Maria dal gruppo delle donne che all'alba si reca al sepolcro è significativo (Mc. 16:1; Mt 28:1). I primi testimoni della resurrezione sono state le donne che erano rimaste fedeli ai piedi della Croce, tranne la madre. Infatti, il Risorto affida il messaggio da trasmettere agli apostoli a Maria di Magdala (Gv. 20,17-18).
La morte di Maria non è registrata nella Bibbia. Non si dice niente di Maria che ascese al cielo o che ebbe una qualche forma di ruolo eccelso in cielo. Maria va rispettata in quanto la madre terrena di Gesù, tuttavia non si può ignorare che la Bibbia non indica mai che ella possa ascoltare le nostre preghiere o che possa fare da mediatrice fra noi e Dio. Per il Nuovo Testamento, Gesù è l’ unico avvocato e mediatore in cielo (1Tm. 2:5). La stessa Maria, si ridimensiona rivolgendo il suo culto, la sua adorazione e la sua lode soltanto a Dio: “L’anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore, perché egli ha guardato l’umiltà della sua serva. Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente. Santo è il suo nome” (Lc. 1:46-49).
2
MARIA MADDALENA o MARIA di MAGDALA, la discepola prediletta o la compagna di Gesù?
     Secondo il Nuovo Testamento è stata una discepola di Gesù; è venerata come santa dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua festa il 22 luglio. La sua figura viene descritta sia nei Vangeli canonici che in quelli apocrifi, e non è citata in altre fonti. Il nome Maddalena deriva da "Magdala", una piccola cittadina sulla sponda occidentale del Lago di Tiberiade, detto anche di Genezaret.
Le narrazioni evangeliche canoniche ne delineano la figura attraverso pochi versi, facendoci constatare quanto ella fosse una delle più importanti e devote discepole di Gesù. Fu tra le poche a poter assistere alla crocifissione e, secondo alcuni vangeli, divenne la prima testimone oculare dell'avvenuta resurrezione.
Maria Maddalena è menzionata nel Vangelo secondo Luca come una delle donne che «assistevano Gesù con i loro beni». Secondo tale vangelo, esse erano spinte dalla gratitudine: proprio da Maria di Magdala «erano usciti sette demòni» (8:2-3). Secondo la tradizione, era una della tre Marie che accompagnarono Gesù anche nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (Mt. 27:55; Mc. 15:40-41; Lc. 23: 55-56; Gv. 19:25), dove furono testimoni della crocifissione. La Maddalena rimase presente anche alla morte e alla deposizione di Gesù nella tomba ad opera di Giuseppe di Arimatea (Mt. 27:61). Fu ancora lei, di primo mattino, nel primo giorno della settimana, assieme a Salome e Maria la madre di Giacomo il minore (Mt. 28:1 e Mc. 16:1-2, oltre che nel cap. 12 dell'apocrifo Vangelo di Pietro ) ad andare al sepolcro, portando unguenti per ungere il corpo di Gesù. Qui esse trovarono il sepolcro vuoto ed ebbero una "visione di angeli" che annunciavano la risurrezione di Gesù (Mt. 28:5). Maria Maddalena, divenuta così prima testimone della resurrezione, corse a raccontare quanto accaduto a Pietro e agli altri apostoli, (Gv. 20:1-2), guadagnandosi l'appellativo di "apostolo degli apostoli". Ritornata immediatamente al sepolcro, si soffermò piangendo davanti alla porta della tomba. Qui il Signore, risorto, le apparve, ma in un primo momento non lo riconobbe. Solo quando venne chiamata per nome fu consapevole di trovarsi davanti a lui, e la sua risposta fu nel grido di gioia e devozione, "Rabbunì", cioè "maestro buono". Avrebbe voluto trattenerlo, ma lui glielo proibì: Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre mio: ma va dai miei fratelli e dì loro: sto ascendendo al Padre mio ed al Padre vostro, al mio Dio ed al vostro Dio” (Gv. 20:17).
La figura di Maria di Magdala è stata identificata per lungo tempo con altre figure di donna presenti nei vangeli. Alcune tradizioni accostano la figura di Maria Maddalena a Maria di Betania, la sorella di Marta e del risorto Lazzaro (Lc. 10:38-42 e Gv. 11:1-45) o alla peccatrice che unge i piedi a Gesù a casa di Simone il Fariseo, probabilmente a Nain, in Galilea. Maria viene inoltre scambiata per l'adultera salvata da Gesù dalla lapidazione (come raccontato nella Pericope Adulterae) in Gv. 8:1-11. Ma tali identificazioni sono state esplicitamente rigettate dall’esegesi cattolica, mentre l’esegesi laica non ha mai trovato elementi sufficienti per convalidarne la fondatezza.
Merita invece una più approfondita indagine la figura di Maria Maddalena quale supposta sposa o compagna di Gesù. I vangeli canonici non parlano esplicitamente né del celibato né di un matrimonio di Gesù e tale silenzio viene interpretato in modi opposti. Da un lato infatti se Gesù fosse stato sposato gli evangelisti non avrebbero avuto nessun motivo per tacere la presenza di una moglie e appare dunque strana l'assenza di ogni riferimento. D'altro canto il suo celibato, trattandosi di una situazione non comune, avrebbe dovuto essere menzionato e spiegato. Da notare che tuttavia questa spiegazione manca anche nel caso di san Giovanni Battista o di san Paolo. Il celibato di Gesù, come spiegato dalle chiese cristiane, è connaturato alla sua stessa figura di "Parola fatta carne", il cui impegno è compiere la volontà del Padre e svolgere la sua missione sulla terra senza distrazioni; soprattutto viene fondato sulla mancanza di una tradizione contraria. Ciò nonostante, deve osservarsi che i sacerdoti ebraici non avevano obblighi di celibato: si sposavano esattamente come gli altri ebrei. Gesù, tuttavia, non era della stirpe sacerdotale e neppure levita. Diversi autori cristiani sostengono che la vera sposa di Cristo è la Chiesa. Tale immagine è stata sviluppata in primo luogo da san Paolo negli scritti che entrarono a far parte del Nuovo Testamento e venne poi espansa dai Padri della Chiesa, tra cui Sant'Ireneo di Lione ed altri. In senso mistico, Gesù viene anche considerato il secondo Adamo: dal fianco del primo Adamo venne generata la sposa Eva mentre egli dormiva, così come da Cristo morto sulla Croce (addormentato) venne generata la Chiesa, sua sposa. Nell'esegesi anagogica medioevale cristiana, infatti, il sangue e l'acqua che sgorgarono dal costato di Cristo quando fu trafitto sulla croce, rappresentano la Chiesa con i simboli dell'acqua del battesimo e del vino della nuova alleanza. Naturalmente tale interpretazione mistica perderebbe di valore qualora Gesù fosse stato normalmente sposato.
Intanto, un gruppo di studiosi, pur dando per scontato le realtà storiche di Maria, Pietro e gli altri, hanno suggerito che Maria Maddalena fosse al vertice di una delle prime comunità cristiane e fosse anche l' "amato discepolo" al quale è stato attribuito il Vangelo secondo Giovanni. Il più noto degli studiosi è Ramon Jusino, il quale presenta questo punto di vista nel libro “Maria Maddalena, autrice del Quarto Vangelo?”, traendo spunto dalle ricerche di Elaine Pagels sulle primitive comunità gnostiche e dalle ricerche sulla comunità giovannea effettuate da Raymond Brown, un erudito biblico cattolico tradizionale. Conferme che Maria Maddalena sarebbe stata l'"amato discepolo" si trovano nei vangeli gnostici, per esempio in quelli di Nag Hammadi.
Nel capitolo 32 e nel capitolo 55 dello gnostico Vangelo secondo Filippo, ritrovato fra i codici di Nag Hammadi e databile al più presto alla seconda metà del II secolo, è accennato l'amore tra Gesù e Maria Maddalena. Entrambi sono descritti come l'incarnazione di eoni divini (Soter e Sofia) dalla cui unione sono derivati gli angeli. Ma si sostiene che il “bacio sulla bocca” citato al cap. 55 (“La Sofia, chiamata " sterile ", è la madre degli angeli; la compagna del Figlio è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli, e spesso la baciava sulla bocca. Gli altri discepoli, vedendolo con Maria, gli domandarono: «Perché l'ami più di noi tutti?». II Salvatore rispose e disse loro: « Com'è ch'io non vi amo quanto lei?» ’"), essendo un segno rituale comune anche ad altri personaggi, sia da intendersi all'interno dell'elaborata teologia gnostica. Infatti, secondo le scuole gnostiche il bacio rituale non aveva un significato erotico, ma era espressione della comunione, della fratellanza e della certezza della redenzione degli eletti (la stessa espressione si ritrova nel Nuovo Testamento, nelle epistole di Paolo e di Pietro: "salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio" (Rm 16:16, 1P 5:14). Tuttavia, stante anche l’indubbia importanza che nei Vangeli canonici Maria Maddalena assume attraverso la sua presenza alla Crocifissione e nella successiva visita alla tomba, questo bacio e la espressione “compagna del figlio” hanno fatto pensare che ella abbia avuto un ruolo particolare nel contesto successivo alla crocifissione, cioè il ruolo della vedova di Gesù.
L’ipotesi viene suffragata dal contenuto del Codex Askewianus (maggiormente noto come "Pistis Sophia" o "Libro del Salvatore"), un vangelo gnostico scritto in lingua copta probabilmente nella seconda metà del III secolo. Esso, come altri vangeli gnostici, contiene una rivelazione segreta di Gesù risorto ai discepoli in assemblea. Perduto per secoli, è studiato dal 1772 grazie al codice Askew. Ne sono state ritrovate varianti tra i Codici di Nag Hammâdi nel 1945. Non va confuso con altri testi gnostici: la "Sapienza di Gesù Cristo" o "Sofia di Gesù Cristo"; il "Dialogo del Salvatore"; il "Vangelo del Salvatore". Nel Pistis Sophia si racconta che dopo la resurrezione, Cristo, allo scopo di istruire gli apostoli sui misteri, si trattenne sulla terra per undici anni. Come altri vangeli gnostici dunque, esso contiene una supposta "rivelazione segreta" di Gesù risorto ai discepoli riuniti in assemblea (incluse quattro donne: Maria Maddalena, Salome, la Madonna e Marta). Durante questi undici anni, indicati nel primo capitolo dell'opera, Gesù avrebbe portato i suoi discepoli solo fino ad un certo livello di conoscenza, per poi portarli, in seguito, a gradi di conoscenza superiori: la trasmissione di una conoscenza (gnosi) superiore richiese a Gesù l'ascesa al cielo con la relativa trasfigurazione, così come viene descritta nei capitoli successivi. A tal riguardo, appare significativo un passo del capitolo 17 : “Detto questo ai suoi discepoli, soggiunse: «Chi ha orecchie da intendere, intenda!». Udite queste parole del Salvatore, Maria rimase un’ora (con gli occhi) fissi nell’aria; poi disse: «Signore, comandami di parlare apertamente». Gesù, misericordioso, rispose a Maria: «Tu beata, Maria. Ti renderò perfetta in tutti i misteri di quelli dell’alto. Parla apertamente tu il cui cuore è rivolto al regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli»” Qui, Maria Maddalena si erge indubbiamente a protagonista all'interno del Pistis Sophia. Del resto, in tutta l’opera, fra i discepoli che interloquiscono con Cristo, la Madre di Gesù interviene tre volte (capitoli 59, 61, 62), Salome altre tre volte (capitoli 54, 58 e 145), Marta quattro volte (capitoli 38, 57, 73 e 80), Maria Maddalena interviene, e sempre in contesti sempre molto importanti, sessantasette volte. Gesù arriva a lodarla varie volte e lei arriva persino ad intercedere presso di lui quando i discepoli non capiscono qualche passaggio (capitolo 94). Insomma, ben può sostenersi che all'interno del Pistis Sophia, Maria Maddalena simboleggia la conoscenza (gnosi), e rappresenta dunque l’incarnazione umana di Sophia e, come tale, la sacerdotessa e la Sposa di Cristo..
Il culto della santa Maria Maddalena, particolarmente diffuso in Francia, sarebbe un resto tangibile dell'importanza che le venne attribuita come progenitrice di una dinastia reale. Vi sono chiese in suo onore a Rennes-le-Château, a Saint Maximin la Sainte Baume, con la sua cripta; e le è dedicata la cattedrale dì Vezelay. Secondo alcuni autori di libri esoterici, i Merovingi sarebbero i discendenti della "stirpe regale" di Gesù, che sarebbe stato sposato con Maria Maddalena. La Maddalena, assieme al figlio avuto da Gesù e ad altre donne citate nei vangeli (Maria e Marta di Betania, Maria Salomè e Maria Jacobè) dopo la crocifissione sarebbe fuggita dalla Palestina su una barca per approdare in Provenza. Avrebbe poi risalito il Rodano raggiungendo la tribù dei Franchi, che non sarebbero stati altro che la tribù ebraica di Beniamino nella diaspora. I Merovingi, i primi re dei Franchi, proprio a causa di questa origine avrebbero avuto l'appellativo di re taumaturghi, ovvero guaritori, per la loro facoltà di guarire gli infermi con il solo tocco delle mani, come il Gesù dei vangeli (anche gli apostoli mostrarono la stessa facoltà, considerata un dono dello Spirito Santo). Il Santo Graal non sarebbe altro che il "sang real", ovvero il sangue regale di questa stirpe. Questa tesi si trova esposta nel libro "Il Santo Graal" di Baigent, Leigh e Lincoln (1982) che ha dato lo spunto a moltissimi altri testi sulla "linea di sangue del Graal”, ma non è suffragata da alcuna fonte storica a parte l'ovvia citazione della leggenda medievale dello sbarco della Maddalena in Francia, resa popolare da Jacopo da Varazze nella “Legenda Aurea”. Le uniche fonti citate dai tre autori per sostenere che i Merovingi discenderebbero da Gesù e dalla tribù ebraica di Beniamino sono infatti “Les dossiers secrets” del Priorato di Sion, una serie di documenti dattiloscritti depositati presso la Bibliothèque nationale di Parigi negli anni '60. Questi testi contengono complicate linee di discendenza ed elenchi di presunti Gran Maestri del Priorato (descritti come i custodi del vero segreto del Graal).
3
L’ “ALTRA MARIA”, chi era costei?
     “Giuseppe (di Arimatea) prese il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba vuota , che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Magdala e l’altra Maria” (Mt. 27:59-61)…“Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro” (Mt. 28:1). Stando al racconto di Matteo, due donne assistono alla sepoltura di Gesù e, due giorni dopo, le stesse ritornano alla tomba per visitarla. Conosciamo Maria di Magdala, ma non la sua compagna, l’« altra Maria ». E la sua identificazione è difficile, perchè gli evangelisti introducono una serie di diverse donne come testimoni ora della sepoltura di Gesù ora della sua risurrezione, ma queste serie sono differenti e non coincidono tra loro; hanno, perciò, dato il via a complesse discussioni e ricostruzioni degli studiosi della Bibbia.
Intanto va segnalato che « l’altra Maria » fa capolino sempre con Maria di Magdala. Inoltre, se stiamo agli altri evangelisti, Marco davanti alla croce di Cristo e durante la sepoltura fa avanzare una « Maria madre di Giacomo il minore e di loses » (15:40 e 15:47) ed una certa Salome. Anche Luca nell’alba pasquale introduce una « Maria di Giacomo » (24 :10) che certamente è sempre la stessa di Marco. Lo stesso Matteo la chiama così quando essa è ai piedi della croce, sia pure con una lieve variazione:  "Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe" (27:56). Se, poi, si risale ai giorni in cui Gesù operava e predicava in Galilea, ci imbattiamo in una sua visita nel villaggio della sua infanzia e giovinezza, Nazaret. Là i suoi concittadini non l’avevano accolto bene, anzi, avevano ironizzato sulla sua parentela: « Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di loses, di Giuda e di Simone? » (Mc. 6 :3). Tra i  "fratelli " sono elencati proprio Giacomo e loses, la cui madre portava lo stesso nome della madre di Gesù.
Sono, dunque, tre le Marie che saranno presenti, secondo i Vangeli, negli eventi finali della vita terrena di Cristo: Maria, la madre di Gesù, Maria di Magdala e " l’altra Maria" ossia Maria di Giacomo e di loses. Quest’ultima era, dunque, una sorta di zia di Gesù, comunque una parente. Ma attenzione : l’interpretazione protestante e quella di alcuni studiosi cattolici ritiene che Giovanni (19:25) introduca una quarta Maria, « Maria di Cleofa », e molti ritengono che sia la stessa donna, ossia « l’altra Maria », della quale ora è ricordato anche il nome del marito. Infatti, l'esame sinottico di Vangelo secondo Matteo 27:56 e di Vangelo secondo Marco 15:40 porta a identificare, come in Giovanni 19:25, Maria di Clèofa con la madre di Giacomo il Minore e Giuseppe-Ioses.
Maria di Cleofa viene nominata numerose volte anche nella letteratura apocrifa, ma a seconda dei testi cambia la sua parentela con Cleofa. Insomma, non abbiamo la pos-sibilità di avere un ritratto anagrafico abbastanza compiuto di quest ‘ altra Maria  che a sorpresa, con le altre donne, diventa la prima testimone della risurrezione. Il volto di questa donna resta misterioso, ma, come argutamente rileva Gian Franco Ravasi, difficilmente si sarebbe « inventata » una simile presenza femminile proprio in quell’evento capitale della storia cristiana: allora, infatti, le donne non erano abilitate a testimoniare in sede giuridica e quindi la loro dev’essere stata una presenza storica reale, segnata dai fatti stessi e conservata nella memoria dei primi cristiani e degli evangelisti.
4
SALOME o MARIA SALOMÈ (secondo la tradizione), moglie di Zebedeo, una madre velleitaria.
     Chi era Salome? Secondo i Vangeli canonici, Salome era una delle pie donne che ha assistito alla crocifissione, morte e risurrezione di Cristo. Viene menzionata due volte nel Vangelo di Marco (15:40-41 e 16:1), ma grazie ad un confronto parallelo con il Vangelo di Matteo (27:55-56) la si può identificare come “la madre dei figli di Zebedeo”. La tradizione la chiamerà, in seguito, “Maria Salomè” (con l’accento). Salome era dunque moglie di Zebedeo e madre di due figli: Giacomo il maggiore (da secoli venerato in Spagna nella Basilica di “Santiago di Compostela”) e Giovanni l’evangelista (il più giovane e il più longevo degli Apostoli, autore del quarto Vangelo e dell’Apocalisse, unico libro profetico del Nuovo Testamento). Per tale ragione il Cozzoli, nell’iconografia, l’ha configurata come una donna anziana della Galilea, con lo sguardo accorato, il volto contratto in un pianto sommesso, che sorregge tra le mani un'anfora di oli profumati da servire all’imbalsamazione del corpo di nostro Signore. Infatti, secondo l’usanza ebraica, ai tempi di Gesù, il morto veniva bendato con fasce dopo essere stato cosparso di aromi e avvolto in un lenzuolo per mitigare l’odore della putrefazione a beneficio delle persone che andavano ad effettuare i riti del lutto. I Vangeli narrano l’episodio con qualche variante. Secondo Marco: “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù” (16:1); lo stesso in Luca (24:1): “Le donne prepararono aromi e oli profumati…il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba portando con sé gli aromi che avevano preparato…”. Matteo, invece, la cita tra le donne ai piedi della croce al momento della morte di Gesù, nominandola “la madre dei figli di Zebedeo” ((27:55-56), ma non tra quelle che assistettero alla deposizione di Gesù nella tomba ed alla sua risurrezione (28:1-8).
In base all’esame sinottico di Matteo 4:18, Marco 1:20, Luca 5:10 e Giovanni 1:44 può dedursi che la famiglia di Zebedeo viveva a Batsàida, sulle rive del lago di Tiberiade o Genezaret, detto anche mare di Galilea. Avevano una piccola industria di pesca; loro soci erano anche Simone (che sarà poi chiamato Pietro) ed Andrea suo fratello, en-trambi apostoli. Data l’abbondanza dei pesci nel lago, si presume che la loro attività fosse redditizia; inoltre, avevano anche tempo per assentarsi dal loro lavoro per lunghi pe-riodi di tempo. Infatti si sa che Giovanni l’evangelista andò al fiume Giordano per ascoltare la predicazione del Battista e per vivere con lui come suo discepolo. Sembrerebbe quindi che non fossero una famiglia di modesti pescatori, bensì di piccoli proprietari di un’azienda peschereccia. A partire dal giorno in cui, dietro comando di Gesù, realizzarono la pesca miracolosa, alle parole del Maestro “farò di voi pescatori di uomini”, essi abbandonarono definitivamente la pesca e seguirono Gesù nelle sue peregrinazioni apostoliche, insieme alla loro madre Salome.
Curiosamente, secondo i Vangeli apocrifi, Salome era una levatrice ebrea che, accorsa per assistere Maria partoriente, non credeva nel suo parto verginale, per cui volle verificare di persona la condizione imeniale. “Se non pongo il mio dito - è scritto nel Protovangelo di Giacomo (XIX: 1-3) - e non scruto la sua natura non crederò che una vergine abbia dato alla luce”. Ma non appena inserite le dita, la sua mano si staccò e cadde a terra tra atroci dolori. Soltanto pentendosi e toccando il Santo Bambino, l’incredula ebbe di nuovo la sua mano risanata.
Tuttavia di Salome ci sorprende un episodio raccontato da Matteo (20:17-23) : “Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici e lungo la via disse loro: «Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà». Allora si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli disse «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli soggiunse: «Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio»”. Dal passo si evince che come tutte le madri, Salome era una donna ambiziosa di onori per i propri figli al punto da chiedere al Maestro la promessa di riservare per loro i primi posti nel regno messianico. Ma questa madre esagera. Nientemeno, si raccomanda a Gesù non solo per garantire ai figli il Regno dei Cieli, ma, incontentabile, pretende anche che il Maestro si impegni ad assicurare loro un posto privilegiatissmo. Naturalmente, Gesù non promette alcun posto, bensì predice che in seguito sarebbe stato necessario soffrire e lottare per il suo regno. Troppo buono, l’ardire di Salome avrebbe strappato un paio di scappellotti a chiunque altro. Salome, nella circostanza, non aveva capito niente. La missione di Cristo sulla terra non era quella di distribuire ricompense agli uomini, ma di soffrire per salvarli. Quel «bere il calice» è una metafora biblica che sta per la passione imminente.
Esiste anche una tradizione secondo la quale, per via delle persecuzioni contro i Cristiani seguite alla morte di Gesù, le tre Marie, far cui Maria Salomè, furono arrestate ed imbarcate su una nave senza remi e senza vele, la quale, guidata dalla Provvidenza, raggiunse le rive della Provenza, in Francia. Il luogo dello sbarco è ancora oggi ricordato nel paesino di Saintes-Maries-de-la-Mer, dove sor-ge una chiesa a loro dedicata. Il rinvenimento delle pre-sunte reliquie delle tre sante ebbe luogo nel paesino citato, verso la fine della prima metà del XV secolo, alla presenza del legato pontificio cardinale Pietro di Foix, del re di Napoli Renato I e della sua consorte regina Isabella.
Un’altra tradizione racconta che Maria Salomè fuggì via mare con i santi Biagio e Demetrio dopo la decapitazione del figlio Giovanni, avvenuta nel 44 d.C. ad opera di Erode Agrippa I. Ad evitare possibili equivoci mentali, è opportuno spendere qualche parola sulla dinastia erodiana: Erode il Grande è quello citato nei Vangeli per la “strage degli innocenti” e che nell’immaginario collettivo ha assunto la figura della malvagità più efferata. Erode Antipa era figlio di Erode il Grande. A lui si riferiscono due episodi evangelici: la morte di Giovanni Battista (la cui testa fu voluta dalla omonima principessa giudaica Salomè, istigata dalla madre Erodiade, quale compenso per la sua esibizione erotica e passionale di danzatrice): il suo rifiuto di giudicare Gesù inviatogli da Pilato, donde il detto popolare: “Vè da Ròet’ à Pelate” (va da Erode a Pilato), nel significato di scaricare su altri una decisione difficile. Erode Agrippa I era figlio di Aristobulus e Berenice e nipote di Erode il Grande. A lui si deve la decapitazione di Giacomo il maggiore e la prigionia di Pietro. Erode Agrippa II fu l’ultimo rappresentante della dinastia erodiana, nonché giudice di Paolo di Tarso (cfr. Atti degli Apostoli 25,26).
Ma torniamo al racconto della tradizione. Maria Salomè giunse nel Lazio. La santa, stanca del viaggio, chiese alloggio nella casa di un pagano (poi battezzato con il nome di Mauro), a poca distanza dalla città di Veroli (Frosinone), mentre i suoi compagni di viaggio (Biagio e Demetrio) entrarono in città e furono martirizzati. Salomè rimase nella casa di Mauro dedicandosi alla conversione dei pagani alla fede cristiana, e dopo sei mesi morì. Con riverenza Mauro raccolse le spoglie per la sepoltura, le racchiuse in un’urna di pietra, sulla quale incise le parole: “Haec sunt reliquiae Beatae Mariae matris apostolorum Jacobi et Joannis” e la nascose in una grotta. Qualche tempo dopo alcuni pagani trovarono l’urna di pietra e vedendo che conteneva vecchie ossa, gettarono le stesse nella piazza del paese. Un uomo greco, che era riuscito a leggere l’iscrizione sulla cassa, comprendendone l’importanza, decise di salvare il prezioso tesoro e durante la notte si recò in piazza per recuperare le ossa che avvolse in un panno e racchiuse in una nuova urna, nascondendola fuori città presso una rupe. Succes-sivamente un contadino verolano di nome Tommaso, avendo ricevuto in sogno precise indicazioni dalla stessa Maria Salomè circa il luogo ove erano nascoste le sue reliquie, si mise alla ricerca delle stesse e il ritrovamento avvenne il 25 maggio del 1209. Si racconta che mentre il Vescovo del luogo sollevava in aria le ossa per mostrarle alla folla, dalla tibia si vide sgorgare del sangue vivo e tutti gridarono al miracolo. L’urna contenente le reliquie si trova oggi sotto l’altare dell’attuale basilica dedicata alla Santa che fu quindi proclamata patrona di Veroli e viene festeggiata il 25 maggio di ogni anno.
5
ERORIADE e SALOMÈ: due "malefemmine doc”.
     Sono forse le uniche due donne presentate nel Nuovo Testamento in modo drasticamente negativo: sono le “due signore", l’alta aristocrazia di corte, Erodiade e Salomè. Ne parlano gli evangelisti Matteo (14:3-11) e Marco ( 6:17-28), perché hanno avuto a che fare con la morte di Giovanni Battista.
Soprattutto Erodiade è una figura ben conosciuta dalla storiografia: si tratta di una persona autorevole e potente, di una donna corrotta ed è un esempio, molto raro nel Nuovo Testamento di figura di persona rovinata, dedita cioè ad una vita sbagliata senza accenno al cambiamento. In genere, si parla di questo tipo di persone solo per ricordare un loro cambiamento, una conversione; invece, nel caso di Erodiade viene accennato il problema nella sua fredda crudeltà e i dati che il Nuovo Testamento scarnamente riporta coincidono con le notizie che abbiamo da Giuseppe Flavio (“Antichità giudaiche", XVIII, 118-119) e dagli storici latino/greci del tempo. Erodiade era stata la moglie di Erode Filippo, di cui era parente (a quei tempi i parenti si sposavano abitualmente all’interno della stessa famiglia per motivi dinastici e anche di potere e di patrimonio). Poi, aveva abbandonato Erode Filippo per andare a convivere con il cognato, Erode Antìpa. Di fronte a questa situazione, Giovanni Battista aveva avuto parole di rimprovero: uomo coraggioso, capace di dire la verità anche ai potenti, aveva rimproverato pubblicamente questa situazione di adulterio e per questo Erodiade istigò Erode affinché arrestasse il Battista. Questa donna, senza scrupolo alcuno, avrebbe voluto subito eliminare Giovanni; invece Erode ne aveva paura perché era superstizioso e temeva che portasse male uccidere un profeta, per cui lo tenne semplicemente in prigione a Macheronte.
“Venne infine il giorno propizio”. Racconta Marco (6:21-29) che il giorno del compleanno di Erode, durante un festino tenuto alla corte di Macheronte, la figlia di Erodiade, Salomè, danzò in modo affascinante e piacque molto al re ed ai commensali. Il re, forse mezzo ubriaco, si lasciò andare ad una promessa sconsiderata, confermata da giuramento: "Chiedimi quello che vuoi e te lo darò, fosse anche la metà del mio regno", promessa che sembra quasi il ritornello di una favola. La ragazza non sa cosa chiedere e si rivolge alla madre; Erodiade le dà il consiglio tremendo: vuole la testa di Giovanni Battista. La ragazza è della stessa indole della madre e, senza battere ciglio, si presenta al re e come ricompensa non chiede "metà del regno", ma chiede, sopra un vassoio, la testa di Giovanni Battista.
Erode è un pagliaccio, un uomo senza sostanza, un burattino nelle mani di queste donne che lo usano in modo perverso. Erodiade è una figura tremendamente negativa, che ha usato prima Filippo e adesso sta usando Antìpa, sta cercando il potere per sé usando questi uomini della famiglia, per cui la persona forte è lei ed è una donna legata al male, che vive per il male: ella non aveva accettato il rimprovero che il Battista aveva mosso ad Erode, perchè l'aveva messa in cattiva luce (“Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello” (Mc. 6:18)) e si era nutrita di un profondo rancore nei suoi confronti. La sua vendetta arriva alla morte, in modo deciso e violento. Erode se ne dispiace, non vorrebbe giungere a questo, ma non osa venire meno al giuramento, all’impegno che ha preso di fronte ai commensali, per cui preferisce commettere questo atroce delitto e mantenere la promessa che superficialmente aveva fatto: la testa di Giovanni Battista viene portata alla ragazza che a sua volta la consegna alla madre, finalmente contenta perché ha fatto tacere per sempre il .Battista.
6
LA PECCATRICE SENZA NOME che lava i piedi a Gesù con le lacrime.
     Troviamo un caso molto importante, raccontato da Luca al capitolo 7. È un episodio che Luca delinea con grande finezza mettendo in scena una donna peccatrice, senza specificare quale ambito di peccato fosse quello che la caratterizzava e senza dirne né il nome né la condizione, al punto di farla diventare una figura simbolica dell’umanità penitente; questa donna è messa in contrasto con la figura maschile di Simone il fariseo, un uomo integro, osservante della legge, che ha invitato a pranzo Gesù (7:36) e che si trova seriamente imbarazzato di fronte all’intrusione di questa donna. Dobbiamo immaginare una scena di pranzo all’interno di una casa - probabilmente nel cortile con accessi sulla strada per cui è facile anche per un estraneo entrare nella sala del banchetto - : mentre Gesù è ivi a mensa con molti altri, improvvisamente compare la donna che si butta sotto il tavolo. Colui che ha invitato Gesù resta bloccato, si vergogna; del resto, basta mettersi nei suoi panni e provare come si sentirebbe chiunque di noi se, avendo un invitato di riguardo in casa, si vedesse entrare un estraneo, persona di malaffare, che si butta sotto il tavolo; rimarremmo come minimo imbarazzati, immaginando la figura che faremmo e cosa penserebbe l’ospite.
Certamente, la prima idea passata per la testa di Simone fu che con tale donna in casa avrebbe fatto brutta figura di fronte a Gesù. Ma subito dopo si chiese come potesse Gesù lasciarsi toccare da una donna simile ed arrivò a dubitare che il suo ospite fosse realmente un profeta, in grado di capire e di valutare le persone: "A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice»" (Lc. 7:39). Insomma, secondo il fariseo, Gesù non solo non avrebbe dovuto permettere a quella donna di toccargli i piedi, ma avrebbe anche dovuto energicamente allontanarla da sé.
Luca dimostra quindi conosce anche i pensieri di Simone il fariseo: egli sa scrivere bene, per cui presenta al suo lettore anche il pensiero del personaggio. Tuttavia, si può dubitare che si tratti di un fatto realistico, perché quando chiunque di noi assiste ad una scena, difficilmente riesce a capire cosa stia pensando un altro. Questo, perciò, è il classico racconto in cui si dice che il narratore è onnisciente, che sa tutto di tutti, anche i pensieri dei singoli personaggi. Un autore che permette così al lettore di entrare dentro ai cuori e, in questo modo, di svelarne le intenzioni per mettere in evidenza il senso di ciò che sta avvenendo.
Non appena Simone ha pensato "questi non è un profeta, altrimenti non si lascerebbe toccare", Gesù interviene ad alta voce dicendo: "«Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, di’ pure» (7:40). In questo contesto viene collocata una parabola (sappiamo che la parabola è un argomento dialogico, cioè un modo per fare ragionare l’interlocutore affinché prenda posizione e formuli un giudizio) con cui Gesù cerca di farsi comprendere da Simone e gli racconta il caso di due debitori a ciascuno dei quali un tale condonò i debiti: uno ebbe un condono piccolo, mentre l’altro ebbe un cospicuo condono. La domanda finale, quella che coinvolge Simone, è: "«Chi dunque di loro lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, guardando la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi, lei invece mi ha lavato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco ama poco». Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati »" (7:44-50).
Nel discorso di Gesù, facendo un confronto, vince la donna sul fariseo Simone; mentre questi in cuor suo la disprezza e si vergogna della sua presenza, Gesù la elogia, la paragona al padrone di casa e le fa i complimenti: Simone non gli ha dato l’acqua per i piedi, lei con le lacrime glieli ha lavati; lui non l’ha accolto con amicizia, ha mantenuto le distanze, lei non ha smesso di baciargli i piedi.
Il racconto ci lascia perplessi. È una scena strana, decisamente strana: pensiamo a come uno dovrebbe atteggiarsi per bagnare ad un'altra persona i piedi con le lacrime. Per prima cosa bisogna averle le lacrime, bisogna avere veramente da piangere e da piangere abbondantemente, non è così scontato piangere i propri peccati a dirotto. Poi, asciugare i piedi con i capelli porta ad un comportamento umiliante: stare in ginocchio ed in modo decisamente scomposto non è un gesto molto elegante bensì un atto di massima sottomissione in cui si perde la dignità. Il fatto stesso di mettersi sotto il tavolo fa sentire di essere un cane, un animale. Stare in ginocchio, rattrappiti, ai piedi di una persona; mettere gli occhi, il naso, la bocca vicino ai piedi di uno che cammina abitualmente scalzo, non sono gesti gradevoli e fini. Ma possono essere gesti che nascono da un atteggiamento dirompente di chi ha la percezione di avere sbagliato: essi manifestano il dolore dello sbaglio. Questa donna non sa niente di Gesù, lo ha solo sentito parlare e viene da domandarsi che cosa abbia detto Gesù per averle colpito il cuore in questo modo; l’evangelista non lo dice e possiamo solo immaginarlo. È evidente che questa donna ha ascoltato Gesù e qualche sua parola l’ha colpita, l’ha fatta piangere, le ha sconvolto il cuore, l’ha umiliata, ma nello stesso tempo le ha fatto nascere dentro una speranza di perdono; in quei gesti di umiliazione scorgiamo proprio il desiderio del perdono.
Gesù dice: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (7:47). Ci si domanda: allora è meglio peccare tanto? Di certo Gesù rimprovera al fariseo la superficialità, cioè la convinzione superficiale di assenza di colpe, perché gli manca la consapevolezza di una natura corrotta: se fa il bene è convinto che sia merito suo e invece non si rende conto che ha ricevuto tutto in dono; ama poco perché è convinto di avere ricevuto poco: il problema sta tutto qui. Ma facciamo conto che il povero Simone, a cui nessuna colpa si contesta apertamente, sia veramente un’anima pura? La peccatrice sa di non meritarsi niente, quindi può mortificare il suo io e buttarsi sotto la tavola, bagnare i piedi con le lacrime, asciugarli con i capelli. Ella è una "malafemmina" con la piena consapevolezza di un male e il desiderio di un cambiamento. Simone, invece, è un fariseo probabilmente innocente, che ha pensato di avere assolto con l’ invito a pranzo i suoi doveri di ospitalità. Perché lo vogliamo criticare?
7
L’EMORROISSA e la leggenda di VERONICA.
     Nei Vangeli sinottici è presente il racconto di una donna anonima che viene miracolosamente guarita da un flusso di sangue toccando Gesù (Mt. 9:20-22; Mc. 5:25-34; Lc. 8:43-48). A parte questo accenno l'emorroissa non viene citata altrove nel Nuovo Testamento.
Oggi l’emofilia può essere una malattia come un’altra, mentre in quel contesto culturale era una malattia infamante che rendeva impura la donna che ne soffriva; era quasi co-me una lebbra che la metteva permanentemente in uno stato di impurità rituale. La donna dei vangeli si vergogna della propria condizione e Marco, con finezza un po’ ironica, dice che aveva girato molti medici, aveva tentato di tutto, aveva speso tutto quello che aveva, ma non era servito a niente, anzi, era peggiorata. Luca, che è della categoria medica, ricorda lo stesso fatto, ma senza dire che la donna aveva speso tanto e che non era servito a niente: i medici non erano riusciti a guarirla, è cosa che può succedere ed è comprensibile. Marco invece, che non è della categoria medica, può permettersi di fare dell’ironia. Il problema però non è questo; è che i medici non sono riusciti a guarirla e lei non chiede la guarigione a Gesù, si vergogna e si accontenta di toccargli il mantello. Sembrerebbe un gesto di venerazione, invece viene giudicato un gesto indegno: una donna nelle sue condizioni non deve permettersi di toccare il mantello di un maestro. Lei sa di essere impura e toccargli il mantello vuol dire contaminarlo; per di più, farlo di nascosto, dal punto di vista della mentalità legale giudaica, è un atto delinquenziale.
Questa donna tocca Gesù in mezzo alla folla e Gesù, dice Marco, sente una forza uscire da sé e domanda: "Chi mi ha toccato?". Gli apostoli reagiscono dicendo che in mezzo a tanta gente tutti lo stanno toccando, decine o centinaia di persone si accalcano intorno a lui perché vogliono toccarlo per avere un miracolo, quindi non comprendono la domanda. Ma è evidente che Gesù ha sentito un tocco diverso, che non è stato un tocco al corpo bensì al mantello. Gesù ha percepito la singolarità di quel tocco. Il cardinale Martini, anni fa, dedicò una lettera pastorale a questo episodio intitolandola proprio "Il lembo del mantello". È sufficiente toccare il lembo del mantello di Gesù per essere guariti e quella donna sente immediatamente di essere stata guarita; a quel punto, rendendosi conto di essere colpevole, si fa avanti e dice a Gesù tutta la verità, si confessa. Lei temeva fortemente di essere rimproverata, invece Gesù non la rimprovera ma la elogia come persona di fede : “Figlia: la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male” (Mc. 5:34). Un fine gioco di rapporto fra colpevolezza e malattia : si può vedere come anche le figure femminili negative, rientrano nel discorso evangelico come esempi di fede: il loro è l’atteggiamento delle persone che si rendono conto del proprio male e riconoscono che il Cristo le può guarire, le può perdonare, può dargli la capacità di superare il male. Ma se è di tale importanza il simbolismo dell’episodio perché lasciare la protagonista nell’anonimato?
Nell'apocrifo "Vangelo di Nicodemo", scritto originariamente in greco nel II secolo, e pervenutoci in diverse redazioni o recensioni, l'emorroissa ricompare durante il proces-so di Gesù testimoniando inutilmente a suo favore. Nella recensione greca (cap. 7, tr. it.) l'emorroissa è ancora anonima, mentre nel papiro copto di Torino (cap. 5, tr. it.) e nella recensione latina (cap. 7, tr. it.) la donna è chiamata Veronica. Il nome è l'adattamento del greco "Berenice" (Βερενίκη), forma macedone corrispondente al greco classico "Ferenice" (Φερενίκη), significante "portatrice di vittoria" (φέρω = portare + νίκη = vittoria). È probabile che nel passaggio dal greco al latino l'assonanza del nome "Veronica" con “Vera Icon” (= “vera icona-immagine”) abbia progressivamente generato nella fantasia popolare la leggenda della "Vera icona", cioè della "Veronica". In passato si riteneva al contrario che il nome della donna fosse de-rivato dall'immagine.
La leggenda fa la sua prima comparsa in alcuni scritti apocrifi tardi appartenenti al “Ciclo di Pilato” (talvolta erroneamente citato come “Atti di Pilato”): “Guarigione di Tiberio”, “Vendetta del Salvatore” e “Morte di Pilato”. I tre scritti ci sono pervenuti in autonome redazioni latine medievali (rispettivamente del VIII, IX e XIV secolo) che derivano da una versione precedente andata perduta, probabilmente del VI secolo. La trama dei tre apocrifi è sostanzialmente la stessa: l'imperatore Tiberio gravemente ammalato invia a Gerusalemme Volusiano che punisce i responsabili della morte di Gesù, trova una sua immagine in possesso della Veronica, coincidente con l'anonima emorroissa sanata da Gesù (vedi Marco e paralleli), la conduce a Roma e grazie ad essa l'imperatore è guarito. Nel testo più antico della Guarigione di Tiberio (tr. it.), l'immagine di Gesù era usata dalla Veronica come cuscino e questo le procurava una buona salute. Aveva fatto dipingere l'immagine "per amor suo". Dopo la guarigione Tiberio adora l'immagine di Gesù e ordina che "fosse circondata di oro e di pietre preziose". Nella Vendetta del Salvatore (tr. it.) non è specificato se l'origine dell'immagine sul panno di lino sia miracolosa o dipinta. Il panno è conservato avvolto in un tessuto d'oro riposto in uno scrigno, è oggetto di venerazione ed è causa di miracoli. Nella Morte di Pilato (tr. it), il testo più recente, viene specificato invece l'origine miracolosa dell'immagine in possesso della Veronica: "Quando il mio Signore girava predicando, io con molto dispiacere ero privata della sua presenza; volli perciò dipingermi un'immagine affinché, privata della sua presenza, avessi un sollievo almeno con la rappresentazione della sua immagine. Mentre stavo portando un panno da dipingere al pittore, mi venne incontro il mio Signore e mi domandò dove andavo. Avendogli manifestato il motivo del mio viaggio, egli mi richiese il panno e me lo restituì insignito della sua venerabile faccia".
Va aggiunto che nel rito popolare della Via Crucis, sviluppato e consolidato nel basso medioevo, è presente una diversa versione della leggenda: la Veronica incontra Gesù durante la sua salita al Calvario e gli asciuga il volto con un panno di lino. In esso sarebbe rimasta impressa la immagine del Cristo. Questo panno di lino, noto come il "Velo di Veronica", è diventato una preziosa reliquia della cristianità. Considerato per secoli da milioni di cristiani come la vera immagine del viso di Cristo, a partire dal XII secolo (già nel 1300 Dante ne parla nel Canto XXXI del Paradiso, versi 103-111) e fino al 1608 il Velo di Veronica fu conservato ed esposto nella Basilica di San Pietro, in Vaticano. Nel 1608, anno in cui Papa Paolo V ordino' la demolizione della cappella dove era conservata la reliquia, che fu data agli archivi vaticani. Da allora non e' stata piu' vista e il Vaticano non ha mai spiegato la sua scomparsa. La preziosa reliquia e' stata poi ritrovata in un monastero dei frati Cappuccini a Manoppello, sull' Appennino, in provincia di Chieti. Nel 1999 il padre gesuita Heinrich Pfeiffer, docente di Iconologia e di Storia dell' arte cristiana all' universita' Gregoriana di Roma, dopo 13 anni di studi si dichiarò convinto dell’autenticità del Velo della Veronica ed a questo proposito face notare che sul margine inferiore del Velo di Manoppello si può ancora vedere un frammento di cristallo. Secondo altre fonti, la reliquia, di origine ignota, sarebbe giunta a Manoppello nel 1506, portata da uno sconosciuto pellegrino, scomparso senza lasciare traccia subito dopo aver consegnato il Velo al fisico Giacomo Antonio Leonelli, da questi poi donata al Monastero dei Cappuccini. La reliquia è tuttora conservata nel paese abruzzese, nell'omonimo Santuario. Il 1º settembre 2006, papa Benedetto XVI si è recato in visita privata a Manoppello, accolto dal vescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte e dai vescovi della Regione ecclesiastica Abruzzo-Molise, dai sacerdoti della diocesi teatina e da 7000 fedeli; ha fatto visita al santuario per venerare l'immagine, senza peraltro pronunciarsi sul fatto che il Volto possa essere o meno un'immagine acheropita e che possa essere rapportata alla tradizione Veronica. Però, dopo tale visita papa Benedetto XVI ha elevato il santuario a Basilica minore.
Così fatti meramente leggendari, oggetto di credenza popolare, rischiano di diventare fatti storici.
8
MARTA e MARIA DI BETANIA e la diversa indole delle sorelle di Lazzaro.
     Sono citate in tre occasioni: 1) In Luca 10:38-42: “Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta»”. 2) In Giovanni 11:1-46 : le due sorelle mandano a chiamare Gesù perché venga a guarire Lazzaro che si è ammalato, ma Gesù si attarda e quando giunge Lazzaro è già morto. Gesù dialoga con Marta e ottiene da lei una professione di fede: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo». Quindi Gesù si reca al sepolcro e risuscita Lazzaro. 3) In Giovanni 12:1-8 : Lazzaro e le sue sorelle ospitano Gesù a cena; Marta serve a tavola. Durante la cena Maria cosparge i piedi di Gesù con un unguento molto prezioso e li asciuga con i propri capelli. Il fatto è riportato anche da Matteo (Mt. 26:6-13) e da Marco (Mc. 14:3-9), che però non nominano le due sorelle e situano la cena in casa di Simone il lebbroso.
La prima pagina in cui si incontra la famiglia di Betania è quella di Luca, al capitolo 10. Ed è quella che ci permette di delineare subito la contrapposizione caratteriale delle due sorelle La prima attrice ad entrare in scena è Marta. Da come si comporta ella sembra essere la sorella maggiore, dato che si presenta come la padrona di casa. A lei il primo grande merito: quello di accogliere un viandante, un uomo in cammino, Gesù. La sua disponibilità ad offrire il calore e la quiete di una mensa ad uno sconosciuto, fanno di lei un autentico modello di sensibilità e prossimità al bisognoso: il paradigma incarnato del perfetto ospite. L’ospitalità consiste, infatti, non solo nella Bibbia, ma in tutto il Vicino Oriente Antico, principalmente nell’accoglienza, nell’apertura verso lo straniero. Donna di pietà, di compassione, di misericordia, pronta ad accogliere, Marta si mostra capace di assolvere al sacro dovere dell’ospitalità ed a tutti i servizi che essa richiedeva. “Marta si dava da fare, in molto servizio” (10:40). Ella ha solo il suo lavoro nella testa. Crede che solo quello sia necessario. Non pensa che il suo servizio. Perciò esige che sua sorella l’ aiuti. Cos’altro avrebbe da fare? È una donna come lei e alle donne sono riservati i lavori domestici, in special modo quando c’è un ospite. Marta conosce le regole e pretende che sua sorella le rispetti. Non solo pretende che le rispetti Maria, ma persino Gesù. “Fattasi avanti disse: «Signore non ti curi che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?»” (10:40). In quel suo deciso movimento e in quelle sue asciutte parole c’è, innanzitutto, un latente rimprovero per Gesù. Come mai non si accorge delle omissioni della sorella? Perché ci si mette anche Lui a farle perdere tempo? “Dille dunque che mi aiuti” (10:40). Marta non richiama direttamente sua sorella, ma esige che sia un uomo a farlo, qualcuno che può vantare autorità su una donna. E veniamo a Maria. Essa viene ritratta ai piedi di Gesù (10:38). La immaginiamo accovacciata, con le braccia che gli abbracciano le ginocchia. E subito emerge la differenza con Marta: quella in piedi che non si ferma un minuto; questa seduta e assolutamente assorta, che solleva lo sguardo verso gli occhi di Lui: proprio come Abramo quando ricevette la visita dei tre uomini a Mamre: “alzò gli occhi guardò e vide tre uomini che stavano in piedi presso di lui” (Gn. 18:2). Dunque, quella un simbolo di vita attiva, questa un simbolo di vita contemplativa. Si dice che Maria non compia un gesto di sottomissione, piuttosto si ponga nella posizione di chi ascolta e di chi, ascoltando, arde ed apre il desiderio della sua anima.
In Giovanni, al capitolo 11, la differenza dei comportamenti trova una chiara conferma. Ritroviamo una Marta addolorata per la morte del fratello Lazzaro. Ormai conosce Gesù e lo aspetta con ardore, ora che Lazzaro, suo fratello è morto. Saputo che Gesù, stava arrivando ella, infatti: “andò incontro a Gesù”(11:20). E sarà lei ad avvisare Maria della venuta di Gesù dicendole “Il Maestro è qui e ti chiama” (11:28). Ma quale gesto di ospitalità presta invece Maria, ora che suo fratello Lazzaro è morto? Mentre Marta esce incontro a Gesù lei “se ne stava seduta in casa” (11:20) e soltanto quando Marta le disse che Gesù era arrivato e la chiamava ella “si alzò in fretta ed andò da lui” (11:29). Seguiamo il racconto: “Maria visto dov’era Gesù si gettò ai suoi piedi dicendo «Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto»” (11:32). Su quei piedi ella versò una liturgia di lacrime, finché non piansero anche i Giudei che erano venuti e Gesù. Quelle lacrime sull’orrore della morte, quel pianto di Maria, di Gesù e di tutti i Giudei (11:33-38), quel segno inconfondibile di amore, presero forma nel grido di Gesù davanti al sepolcro scoperto: “Lazzaro vieni fuori” (11:43). E Maria si prende il merito della resurrezione di suo fratello ed è chiamata ad essere testimone ed apostolo del miracolo: “Molti dei Giudei, infatti, che erano venuti da Maria, alla vista di quel che Egli aveva compiuto, credettero in Lui” (11:45).
Ma vi è di più. In Giovanni, capitolo 12, assistiamo alla cena che Gesù ed i suoi apostoli consumano, proprio a Betania, sei giorni prima della Pasqua, a casa dei tre amici: Marta, Maria e Lazzaro risorto (12:1). Vediamo come si svolse : “Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo “(12:2-3). Marco e Matteo, nel testo parallelo, parlano di unzione “del capo di Gesù”, dato che sul capo venivano unti i re. Giovanni invece parla di unzione dei piedi. Era una pratica di ospitalità quella di ungere i polsi ed i piedi dell’ospite, dopo averli confortati di una lavanda calda. Ancora i piedi. Quegli stessi piedi ai quali ella, in Luca, capitolo 10, sedeva ascoltando la sua parola. Ma sempre di piedi si tratta, tant’ è che Giuda Iscariota, uno dei discepoli, non può trattenersi dall’osservare: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?” Ora, lasciando stare che Giovanni esclude che l’intervento di Giuda sia provocato da un amore sincero verso i poveri, perché, da ladro e da cassiere del gruppo, quale egli era, soleva impossessarsi di tutto ciò che entrava in cassa, non mi sembra che la risposta di Gesù manifesti un’appro-vazione incondizionata della condotta di Maria. Egli infatti dice: “Lasciala fare, che questo unguento conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avrete sempre con voi, ma non sempre avrete me” (12:4-8).
A questo punto v’è da tirare le somme. Marta e Maria sono state entrambe santificate dalla Chiesa, ma la nostra simpatia a chi deve andare? A Marta ed al suo attivismo pratico o a Maria ed al suo spiritualismo estatico?
In Luca Marta e Maria entrano chiaramente in conflitto di fronte a Gesù: entrambe vogliono servirlo, sebbene in maniera diversa. Marta ha accolto Gesù, però quella che in realtà gli dedica la maggiore attenzione e tutto il suo tempo è Maria. Marta è distratta con tante cose da fare, Maria invece è concentrata sulle parole di Gesù. Quindi l’infor-mazione del narratore presenta una connotazione negativa: in certe occasioni il troppo servizio può anche essere dispersivo. La reazione di Marta è immediata e si lamenta direttamente con il Signore, perché si trova a dover fare tutto il lavoro da sola. Essa è distratta non per volere suo, ma perché deve portare tutto il peso del lavoro. In un certo modo, Marta ha ragione. Se il lavoro è condiviso, diventa più leggero e si finisce prima. Se Marta è distratta è per colpa di Maria che l’ha lasciata sola. “Dille dunque che mi aiuti”, dice a Gesù, però questi non accede alla sua richie-sta e nvece di rivolgersi a Maria per rimproverarla a causa della sua negligenza, Gesù risponde a Marta: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno”. Una risposta sorprendente, come quella data alla donna che aveva fatto un bel elogio di sua madre: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc. 11:28). Una cosa sola è necessaria: cercare il Regno di Dio (Lc. 12:31). E per trovarlo bisogna lasciare tutto. Gesù è dalla parte di Maria e la povera Marta è implicitamente rampognata. A parer nostro ingiustamente, perché senza il suo instancabile indaffararsi in casa la stessa Maria non avrebbe avuto l’opportunità di dedicarsi interamente ad ascoltare alla parola del Signore. E, poi, non era stato Gesù stesso che, qualche giorno prima, spiegando ad un dottore della legge chi fosse il prossimo da amare come se stesso, aveva raccontato la parabola del buon Sama-ritano (10:25-37), cioè di colui che aveva operosamente soccorso il viandante aggredito dai briganti e lo aveva curato ed assistito in tutti i modi? Il buon Samaritano non era uno che aveva fatto del bene e la carità offrendo un concreto aiuto allo sfortunato, non limitandosi ad averne solo compassione? Con il racconto Gesù non aveva voluto dire che il “fare” viene prima dell’ “ascoltare”? Ora, perché, contraddittoriamente, non elogia anche l’alacrità di Marta? Vogliamo ignorare che qualche secolo dopo, il pragmatismo monastico dissentirà apertamente da Gesù imponendo la regola del “Ora et labora”?
Inoltre, in Giovanni, capitolo 11, Marta si afferma non solo come donna di iniziativa e di azione, che sa come si gestisce l’ospitalità, come si amministra la misericordia e come si prepara una casa dove si possa ospitare Gesù, ma anche come donna di fede provata. Lazzaro si ammala e Marta e Maria gli mandano a dire : “Signore, ecco, il tuo amico è malato”. Esse lo chiamano, ma Gesù se la prende comoda: Lazzaro deve morire ed i discepoli devono constatare che Lui lo risveglierà, affinchè possano credere (11:1-15). Gesù giunge a Betania con i discepoli quattro giorni dopo la morte di Lazzaro. Marta non appena sa che Gesù è arrivato gli va incontro. Marta, donna realista, si muove subito, Maria, donna di ascolto e di adorazione, se ne resta seduta ad aspettare. L’incontro tra Gesù e Marta è un dialogo teologico. Marta, è diretta ed esplicita, non piange, non prega (come farà in seguito Maria), ma constata una realtà : “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Aggiunge però una seconda parte dove emerge la sua speranza. Lei confida pienamente in Gesù: “Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. Marta pone la sua fede nelle mani di Gesù, nella sua intercessione. Gesù risponde con una frase ambigua: “Tuo fratello risusciterà” e Marta, da buona credente, ribatte: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Gesù non lascia passare l’occasione e aggiunge motivi nuovi affinché la fede di Marta possa continuare il suo processo di personalizzazione. Ed insiste: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo?”. Una domanda che mostra il rispetto di Gesù verso Marta, verso il suo processo di fede, verso la sua libertà. E finalmente Marta fa la sua confessione di fede in prima persona: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (11:21-27). La fede prima ha avuto luogo nella comunicazione e poi nel segno. Marta ha creduto prima del miracolo. Gesù si è rivelato a Marta, e Marta nella sua confessione di fede ha rivelato chi è Gesù per lei. Non solo, Marta dice a Gesù anche quello che lui non ha detto di se stesso.
Dunque, alla fine, è Marta (in aramaico antico il nome Marta significa "maestra"), e non Maria, la vera discepola di Gesù. Lei sa accogliere l'ospite come si conviene, ma a differenza di Maria che sa solo ascoltarla, Marta sa anche interpretare, come una teologa, la parola di Gesù.
9
La SAMARITANA vis-a-vis con Gesù il giudeo: un incontro-confronto “bipartisan”.
     Così racconta Giovanni in 4:1-42: “ I farisei avevano sentito dire che Gesù battezzava e faceva più discepoli di Giovanni - sebbene non fosse Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli - Quando Gesù lo seppe, lasciò il territorio della Giudea e se ne andò verso la Galilea. Per andare in Galilea, Gesù doveva attraversare la Samaria. Così arrivò alla città di Sicar. Lì vicino c'era il campo che anticamente Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe, e c'era anche il pozzo di Giacobbe. Gesù era stanco di camminare, e si fermò seduto sul pozzo. Era circa mezzogiorno. I discepoli entrarono in città per comperare qualcosa da mangiare. Intanto una donna della Samaria viene al pozzo a prendere l'acqua. Gesù le dice: «Dammi un po' d'acqua da bere». Risponde la donna: «Perché tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono samaritana?» I Giudei infatti non avevano buoni rapporti con i samaritan. Gesù le dice: «Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva». La donna osserva: «Signore, tu non hai un secchio, e il pozzo è profondo. Dove la prendi, l'acqua viva? Non sei mica più grande di Giacobbe, nostro padre, che usò questo pozzo per sé, per i suoi figli e per le sue bestie, e poi lo lasciò a noi». Gesù risponde alla donna: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete. Invece, se uno beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; l'acqua che io darò diventerà per lui sorgente per l'eternità». La donna dice a Gesù: «Signore, dammela quest'acqua, così non avrò più sete e non dovrò più venire qui a prendere acqua». Gesù dice alla donna: «Và a chiamare tuo marito e torna qui». La donna gli risponde: «Non ho marito». Gesù le fa: «Giusto. E' vero che non hai marito: ne hai avuti cinque di mariti, e l'uomo che hai ora non è tuo marito». La donna esclama: "Signore, vedo che sei un profeta! I nostri padri samaritani  adoravano Dio su questo monte; voi in Giudea, dite che il posto per adorare Dio è a Gerusalemme»: Gesù le dice: «Voi samaritani adorate Dio senza conoscerlo; noi in Giudea lo adoriamo e lo conosciamo, perché Dio salva gli uomini cominciando dal nostro popolo. Ma credimi: viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme, viene un'ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio". La donna gli risponde: "So che deve venire un Messia, cioè il Cristo, l'inviato di Dio. Quando verrà, ci spiegherà ogni cosa». E Gesù: «Sono io il Messia, io che parlo con te»”. A questo punto il dialogo si interrompe perché giungono i discepoli e si meravigliano che egli stesse a discorrere con una donna. Intanto questa lascia la brocca, va in città ed invita la gente ad andare a vedere un uomo che forse è il Messia. “Molti samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo»”.
L'episodio della Samaritana costituisce il più lungo dialogo riportato da tutti i Vangeli. Ed è importante perchè a parlare con Gesù sia una donna, e perchè l'interlocutrice riunisce in sé una triplice irregolarità: è donna, poi è samaritana, quindi malvista; la sua vita, infine, non è stata irreprensibile (è stata sposata cinque volte e adesso è una con-cubina). Soprattutto non si deve dimenticare che tra Ebrei e samaritani non correva buon sangue da quando quest’ ultimi si erano formati un regno ed un culto autonomo. Erano degli scismatici, e per di più mescolati con coloni stranieri (assiri) praticanti culti pagani. I rapporti erano improntati ad ostilità. Perciò, la donna si meraviglia che un giudeo le chieda dell'acqua. Essi appartengono a due popoli diversi ed antagonisti. Inoltre Gesù dichiara che chi le ha chiesto da bere è un giudeo che può farle dare molto da Dio e che se ella sapesse sarebbe lei a chiedergli da bere ed egli le darebbe “acqua viva”.
Tralascio il significato teologico che gli esegeti cattolici conferiscono a tutto l’episodio. Mi piace invece rilevare con quanto virtuosismo dialettico la Samaritana cerca di indurre Gesù a chiarire la sua personalità : "Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?" La domanda della donna ha una curiosità motivata dal fatto che giudei e samaritani discutevano molto su quel punto. Sennonchè, Gesù si serve della domanda per fare una rivelazione più importante. La domanda della donna è racchiusa nel pas-sato, Gesù la costringe a guardare al futuro e a prendere coscienza che nel mondo è arrivata la novità tanto attesa e che questa rinnova il problema dalle fondamenta: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete”. Allora, la donna diventa stringente: ”So che deve venire il Messia: quando egli verrà ci annunzierà ogni cosa”. Gesù è costretto a rivelarsi: “Il Messia sono io che ti parlo”. Poco prima le aveva dimostrato di conoscere i suoi precedenti coniugali poco edificanti: “…infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito”, per cui ella può riconoscergli le qualità del profeta e dire alla sua gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia egli il Messia?".
La Samaritana, se ben ci pensiamo, è rea confessa e nulla è detto di un perdono concessole. Soltanto ha il merito di non mentire quando ammette di non avere marito. Possiamo supporre non avesse il senso del peccato; nessun accenno o gesto in merito. E sicuramente le manca il fondo religioso: lo si comprende dalla problematica che imposta e dal fatto che al sopraggiungere dei discepoli, mossa dalla rivelazione e da un inizio di pentimento, va a fare "pubblica confessione" ai concittadini: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?” e li invita a chiarire un pro-blema tanto importante. Il chiarimento avviene: i Samaritani credettero in Gesù sia per le parole della donna, sia per le parole dello stesso Salvatore.
10
L’ADULTERA, una peccatrice che se la cava grazie ad un’ispirata provocazione di Gesù.
     Nel capitolo 8 di Giovanni gli scribi ed i farisei del tempio portano a Gesù una donna scoperta in flagrante adulterio, la pongono in mezzo e chiedono a Gesù, per metterlo alla prova, cosa pensava doversi fare dal momento che Mosè aveva ordinato di condannare donne di tal genere alla lapidazione. Gesù prima si distrae mettendosi a scrivere per terra con il dito, poi, sollecitato a dare una risposta, interviene con una battuta sapienziale: "Lapidatela pure, però cominci chi di voi è senza peccato!"; e, chinatosi nuovamente, si rimette a scrivere per terra. L’autore del brano non ci dice che cosa abbia scritto e stia scrivendo con quel dito; è un’immagine enigmatica ed una domanda alla quale non possiamo dare alcuna risposta perché non abbiamo alcun elemento per trarre delle conclusioni. Tuttavia è evidente che Gesù, davanti alla drammaticità della situazione (è in gioco la vita di una donna), assume ostentatamente un atteggiamento di "nonchalance", quasi a voler intendere : “La decisione è vostra. Io vi ho suggerito solo un criterio di giudizio”. Di fatto gli accusatori se ne vanno, non resta più nessuno, rimane soltanto Gesù con la donna là nel mezzo e Gesù, come sorpreso dal dileguamento degli accusatori, evidentemente non meno peccatori dell’adultera, le dice: "Donna, nessuno ti ha condannata?". Alla risposta “Nessuno Signore” le dice: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (8:11).
È importante quel vocativo "donna" che ricorre in altre occasioni nel Vangelo di Giovanni. A Cana di Galilea Gesù parla con la Madre chiamandola "donna": "Che c’è tra te e me, donna? (Gv. 2:4)"; alla samaritana rivolge la stessa parola: "Credi a me, donna!" (Gv. 4:21). Adesso, a questa adultera rivolge la domanda: "Donna, nessuno ti ha condannata?". Anche per le circostanze in cui è pronunciata nella parola “donna” par quasi di udire un tono di insofferenza o di malcelata sufficienza. Indubbiamente, c’è il persistere in Gesù di una convinzione comune al mondo ebraico: l’inferiorità della donna e la sua poca considerazione nella vita pubblica. Lo dimostra quello scarso iniziale interessamento del Messia alla vicenda ed, alla fine, anche il perdono da Lui facilmente elargito perché non preceduto da una manifestazione di effettivo pentimento. Un perdono che l’adultera non sembra aver meritato; un perdono, insomma, guadagnato a buon mercato.
APPUNTO FINALE
Quello di Luca è il vangelo che narra in maggior numero storie di donne. È l’unico che ci racconta la storia di Elisabetta, moglie di Zaccaria (1:5-45): di Maria di Nazaret (1:26-56); di Anna la profetessa (2:36-38); della vedova di Naim (7:11-17); di Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode (8:1-3); di una certa Susanna (8:1-3); della donna curva, guarita dallo spirito che la possedeva (13:10-17); della donna che cerca la moneta perduta (15:8-10); della vedova insistente che attende ed ottiene giustizia (18:1-8) e delle donne che piangono Gesù in cammino verso il Calvario (23: 26-31). Sono tutte esclusive narrazioni di Luca, anche se nel suo vangelo troviamo altre storie di donne che hanno la loro parallela comparsa nei vangeli di Marco e di Matteo, come ad esempio la storia della suocera di Simone in preda alla febbre(4:38-39); della figlia di Giairo che muore e che Gesù fa risorgere (8:40-56); della donna che impasta il pane (13:20-21); della vedova povera che dona tutto quanto ha (21:1-4). Ma sono tutte storie minori.
◘ ◘ ◘














































































martedì 14 maggio 2013

STORIE DI DONNE NELL'ANTICO TESTAMENTO

"Lilith, la diavolessa" - John Collier, 1892


INTRODUZIONE
Scrive Alfonso Maria Di Nola, antropologo e storico delle religioni : “L’uomo è santo, la donna è demonio” (cfr. A. M. Di Nola : “Storia delle religioni”). È vero, ma solo da un certo punto in poi. C’è stato infatti il tempo della Grande Madre, della Madre Terra, quando le prime forme di organizzazione sociale, cosiddette “tribali”, e le religioni che le rispec-chiavano erano strutturate su base matriarcale, cioè sul potere familiare, politico e religioso della donna.
Gli è che “Dio e la religione sono una rappresentazione simbolica della società” (cfr. Emile Durkeime: “Le forme elementari della religione”). Cioè, bisogna sempre avere presente che è la cultura delle comunità etnico-territoriali a condizionare il fatto religioso e non viceversa, vale a dire che le religioni traggono i loro valori dalle concezioni e dalle pratiche dei luoghi in cui si formano, traducendoli in precetti. Nei popoli antichi, in particolare, la religione era l’espressione più completa della cultura e della mentalità di quei popoli. L’uomo percepiva il proprio essere e la propria esistenza, collettiva ed individuale, come inserita ed immersa nel rapporto con il soprannaturale: ogni sua azione, dalla nascita alla morte, in pace come in guerra (la migrazione, la transumanza, la semina, il raccolto, la trebbiatura, la tosa delle pecore) era posta sotto gli auspici della o delle divinità.
Perciò, come esattamente fa osservare Johan Jacob Bachofen, storico svizzero (cfr. J. J. Bachofen: “Il matriarcato. Ricerca …”), il passaggio dalle società “ginecocratiche” a quelle “androcentriche” o “fallocratiche”, avvenuto quando la pacifica cultura agricola dei primi raggruppamenti umani fu soppiantata, soprattutto ad opera delle popolazioni danubiane, dalla cultura della caccia e della guerra come attività economica di predazione, coincide con il passaggio dalle religioni matriarcali a quelle patriarcali, nelle quali cominciarono a predominare le figure divine maschili. Allora ai culti “lunari”, esclusivamente femminili, subentrarono quelli “solari”, prettamente maschili, e sui miti di Magna Mater, Demetra, Cibele, Gea prevalsero quelli di Brahama (indiano) Anu (sumerico), Ra (egiziano), Zeus (greco), Giove (romano), Buri (germanico), Ahura (iranico).
Ma è fuor di dubbio che la grande sterzata maschilista e misogina si è avuta con l’avvento delle grandi religioni monoteiste. Se nelle religioni politeiste accanto alla figura di un dio maschio dotato di indiscussa supremazia convivevano molteplici divinità femminili, anch’esse degne di venerazione, nell’Ebraismo, nel Cristianesimo e nell’Islamismo Dio è unico ed inconfutabilmente maschio, come si ricava dalle stesse Scritture. Lo è Jahvè, il Dio dell’Antico Testamento, come attesta Isaia in 62:1-5 che lo proclama “creatore e sposo” della nuova Sion; lo è, ovviamente, il Dio del Nuovo Testamento, perché egli è “il padre nostro” (Matteo, 6: 9-13); lo è Allah del Corano, in quanto egli è “il Signore del creato”, “il Clemente”, “il Misericordioso”, “il Padrone del dì del giudizio”, tutti attributi volti al maschile (I Sura Aprente, 2-4).
Le religioni monoteiste non amano le donne, anzi sono contro di esse (cfr. Vittoria Haziel: “E Dio negò la donna. Come la legge dei padri perseguita da sempre l’universo femminile”). Queste religioni, al di là di qualche particolarismo confessionale, faranno a gara a chi avrà più irriverenza e disprezzo per la donna


LA DONNA NELL’ANTICO TESTAMENTO
All’origine della misoginia religiosa c’è la Bibbia vetero-testamentaria. Essa attribuisce alla donna il primo peccato, rende sospette tutte le figlie di Eva e le vota, sin dalla nascita, ad un marchio d’infamia. Eva ha introdotto il peccato nel mondo, la maledizione e la morte: «È causa della donna che è iniziato il peccato ed è a causa sua che noi moriamo tutti» (Sir. 25:24). Non a caso quando nella Bibbia dell’Antico Testamento si vuole umiliare qualcuno lo si definisce “figlio della donna” (Giob. 15:14).
In tutto l'Antico Testamento la funzione della donna rimane limitata ed, in generale, subalterna al maschio. In casa i suoi diritti sembrano uguali a quelli del marito, per lo meno nei confronti dei figli che essa educa; ma la legge la mantiene sempre al secondo posto. La donna non ha partecipazione ufficiale al culto; se anch'essa può gioire pubblicamente durante le feste (Es.15:20-21; Det. 12:12; Giud. 21:21; 2Sam. 6), non esercita alcuna funzione sacerdotale. Solo gli uomini sono tenuti ai pellegrinaggi d'obbligo (Es. 23:17). Tra quelli che sono rigorosamente obbligati a osservare il sabato (Es. 20:10), la sposa non è nominata. D’altra parte, questo era stato appunto l’anatema pronunciato dal Signore contro la donna all’epoca della sua cacciata dall’Eden: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen. 3:16). Il Signore stesso, quando Miriam e Aronne pongono sotto accusa il fratello Mosè per avere egli sposato una donna etiope, punisce, con la lebbra ed un isolamento di sette giorni fuori dell’accampamento, solo la donna che aveva osato “parlare contro il suo servo di fiducia” (Numeri, 12).
Gli è che la donna getta scompiglio non solo nel paradiso terrestre, ma anche nel regno dei cieli dove gli angeli cantano le lodi di Dio. Infatti, un giorno fatale, i figli di Dio vedono «che le figlie degli uomini erano belle» (Gen. 6:2) ed, allora, addio Signore, eccoli sulla terra ad unirsi con loro. Da questa conquista folgorante nacque una razza di giganti. E da quel tempo in poi, arricchite dalle loro esperienze, le figlie di Eva ne fanno di cotte e di crude.
Ai tempi dell’Antico Testamento, gli Ebrei conducevano una vita nomade con una economia prevalentemente agricola, per cui la nascita di un figlio, senza distinzione di sesso, rappresentava per la famiglia due braccia in piu' che avrebbero certamente fatto comodo nel lavoro quotidiano. Dalla Bibbia possiamo vedere che la giovane donna svolgeva determinati compiti, come custodire il gregge (Gen. 29:6), attingere l'acqua al pozzo (Gen. 24:15), spigolare nei campi (Ruth, 2:2).
Dopo la messa al mondo d’un bambino «l’impurità della madre dura 7 giorni; 14 per una bambina. La sua purificazione esige 33 giorni per un maschio, ma per una femmina 70» (Lev. 12:2-6). Di solito, le femmine contano così poco che non si menzionano mai in una discendenza.
Ma il maggior interesse per gli Ebrei era assicurarsi una discendenza, quindi la giovane donna, oltre ai compiti già elencati, doveva diventare anche una "moglie" e principalmente una madre potenziale, valori questi in cambio dei quali un uomo avrebbe "donato" un gran prezzo. Queste considerazioni ci spiegano in parte l'importanza che Israele attribuiva alla verginita' di una ragazza, la quale doveva ben guardarsi nel valutare con superficialita' questo aspetto del suo corpo. La legge prevedeva delle severe punizioni per quelle ragazze che usavano impropriamente il proprio corpo, concedendosi ad un uomo senza essere legata da vincolo matrimoniale, oppure nei casi di violenza, seduzione e fornicazione (Es., 22:16-17; Deut. 22:28-29; 22:23-27). Le esperienze sessuali, dovevano essere vissute nell'ambito del matrimonio, esse erano qualcosa di estremamente intimo ("sacro") nella coppia, da non profanare assolutamente con la fornicazione, anche in relazione alla santita' di Jahvè (Lev. 19:1-2; 20:26; 21:3) che esige anche dall'uomo la santita', ossia la separazione dal profano.
Le figlie dipendevano totalmente dal padre, se non erano sposate, e il padre si occupava, generalmente, di trovare lo sposo per la figlia (Gen. 24:33-53; 29:18; 19:33). Inoltre il padre poteva "vendere" la propria figlia: cio' avveniva in caso di indigenza. Infine, in caso di ingiuria contro una ragazza, al padre spettava il risarcimento dei danni (Es. 21).
Il fidanzato compra la prescelta dal padre: «gli passa al naso un anello e la porta via» (Gen., 24:47). Da quel momento è di sua proprietà: «Tu non desidererai la donna del tuo vicino, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né niente che gli appartenga» (Es. 20:17; Deut. 5:21). Rinunciando anche alla propria identità, ella dice allo sposo: «La tua gente sarà la mia gente e il tuo Dio sarà il mio Dio» (Ruth, 1:16). Dal tempo di Lamech (Lemek), gli ebrei erano poligami e potevano ripudiare le proprie spose con il minimo pretesto, per esempio un cibo troppo cotto o troppo salato. Si lapidava la donna adultera e «la giovane sposa trovata non vergine» (Deut. 22:21).
La donna che si sposava lasciava i suoi genitori e entrava a far parte del clan del marito. La moglie era elencata tra le possessioni del marito, come il suo servo, il suo bue, il suo asino (Es. 20:17). Il marito e' definito il Ba'al della moglie, a cui la Bibbia dà il significato di "padrone" o "possessore", come per dire padrone di un terreno o di un asino. Quindi il matrimonio era un vero e proprio atto di compravendita; cioe' il marito per avere la moglie pagava una somma di denaro (il "mohar", che troviamo in Gen. 34:12; Es. 22:16; 1Sam.18:25).
La misoginia biblica è una vera chicca: «la donna è frivola, stupida e ignorante» (Prov. 9:13). Ma l’avversione nei confronti della femmina è implacabile : “Trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma il peccatore ne resta preso ” (Eccles. 7:26). E ancora: “Moralmente vale più la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna” (Sir. 42:14). E il Talmud commenta che “tanto vale spezzare le tavole della legge piuttosto che spiegarle alla donna”. Altre volte questa avversione diventa disumana, crudele, orribile: “Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purchè non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all’ombra del mio tetto” (Genesi, 19:8). E ancora: “Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro. Essi la presero e abusarono di lei tutta la notte fino al mattino” (Giud. 19:25). Qui, per salvare il “sedere” agli ospiti, i padroni di casa offrono rispettivamente le figlie vergini e la concubina allo stupro dei sodomiti.

DONNE FAMOSE DEL POPOLO ELETTO

EVA, la progenitrice; LILITH, la diavolessa. Meglio soprassedere su Eva. Anche perché l’episodio della sua resa davanti alla tentazione del serpente, cioè del demonio, è una costruzione tarda testamentaria (I secolo a.C.?) e, quindi, posticcia rispetto alla tradizione del Pentateuco. Sembra quasi messa lì per giustificare l’esistenza di Satana e le malefatte che gli si attribuiscono. E poi Eva, come prima moglie di Adamo, deve ancora superare la concorrenza di LILITH. Chi è Lilith?
Lilith (secondo la radice linguistica proto-semitica : ”Essere femminile della notte”) compare una sola volta nella Bibbia ebraica (ISO 259): “pagšu ṣiyyim et-ʾiyyim w-saʿir ʿal-rēʿhu yiqra ʾakšam hirgiʿah lilit u-maṣʾah lah manoḫ “. Nella Vulgata (V secolo d.C. circa) la frase e` stata tradotta usando il termine "lamia" (figura femminile della mitologia greca, in parte umana, in parte animalesca: "...et occurrent daemonia onocentauris et pilosus clamabit alter ad alterum ibi cubavit lamia et invenit sibi requiem"). L’edizione CEI della Bibbia del 1974, in Isaia 34:14, dove si descrive la “desolazione di Edom”, traduce “lilit” con la parola "civette": “Gatti selvatici si incontreranno con iene, i satiri si chiameranno l’un l’altro: vi faranno sosta anche le civette e vi troveranno tranquilla dimora”. Infatti, in ebraico la parola "civette" suona appunto "lilith".
La Lilith del mito ebraico è la trasposizione dell'omonima dea sumera ovvero di un notturno demone babilonese. E nello “Zohar”, che è un corpo cabalistico ebraico, la figura di Lilith ripresa dai miti babilonesi è presente come prima moglie di Adamo. Qui Lilith è la prima donna creata con la stessa polvere di cui Dio si era servito per creare Adamo, mentre altri esegeti parlano di sterco (evidente allusione alle qualità morali della donna). Perciò ella legittimamente si considera pari ad Adamo in una sorta di auto proclamazione e si rifiuta di giacere sotto di lui, suscitandone le ire. Per il contrasto che ne segue (Adamo, a sua volta, ritiene non dignitoso giacere sotto la compagna), Lilith fugge dall’Eden bestemmiando e, dirigendosi verso il Mar Rosso, abbandona il compagno. Lilith è dunque una specie di demone, pur essendo, in apparenza, una donna bella e seducente. Ella si congiungerà con altri demoni. Tuttavia, non avendo mangiato dall’albero e non avendo subito la “cacciata”, resterà immortale.
A questo punto Dio avrebbe creato Eva, stavolta dalla costole di Adamo, in tal modo rendendola, per forza di cose, subordinata all’uomo. Ma Eva mangia dall’albero e mette nei guai il genere umano (Gen. 3:1-7). Bene fece Adamo ad accusarla immediatamente dicendo al Signore: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero ed io ne ho mangiato” (Genesi, 3:12). In effetti, una tesi difensiva che avrebbe meritato migliore fortuna: uno, perché la creazione di Eva fu personale iniziativa del Signore (Adamo non gliela aveva chiesta); due, perché il Signore poteva farla meno pruriginosa.

SARA, la matriarca di ferro, moglie di Abramo, e AGAR, la schiava fiera e ribelle. Sara ha circa dieci anni meno di Abramo quando lo sposa mentre si trova nella città di Ur (Gen. 11:28-29). È una donna molto bella nonostante la sua età. Per il timore di essere ucciso da qualcuno che desidera avere sua moglie Abramo spinge Sara a dichiarare a chiunque glielo chieda di essere sua sorella e non sua moglie. Di conseguenza, una prima volta Sara diventa amante del Faraone, (Gen. 12:11-20) e, una seconda volta, notata da Abimelec, re di Gerar, il quale pure manda a prenderla, poco ci manca che abbia un’altra relazione extraconiugale (Gen. 20).
Sara è, inoltre, sterile e quando ha 75 anni circa consiglia al marito di giacere con la sua schiava Agar perché partorisca per lei un figlio. Sara non agisce soltanto per generosità. Al suo orgoglio materno frustrato, ciò che più occorre è un figlio. Siccome non può partorirlo lei, sa che legalmente le appartiene anche ogni eventuale figlio della schiava. La schiava, in quel tempo - e molti millenni ancora - è veramente una "cosa", e anche i suoi figli" sono "cose" che appartengono al padrone e alla padrona. Perciò Sara pensa soprattutto alla propria utilità e al proprio prestigio: ciò che non le è venuto dall'amore, le verrà dal diritto. Avrà comunque un figlio. Ed infatti Agar, la schiava egiziana, darà un figlio ad Abramo, Ismaele, e lei, bianca, avrà un figlio nero e selvaggio. Ma non importa. Importa che, sotto quella tenda ricca, dove echeggiano soltanto grida di schiavi e attorno alla quale pascolano a migliaia i pingui armenti, squillino anche le risate ristoratrici di un bambino (Gen. 16).
Il nome originale di Sara è “Sarai”, che probabilmente significa "litigiosa". Quando compie 90 anni Dio le cambia il nome da Sarai in Sara, che significa "Principessa”, “Signora", promettendole che avrebbe concepito miracolosamente un figlio. Sara rise ascoltando la promessa e, disse, che chi avrebbe udito di una novantenne che partorisce avrebbe ugualmente riso (Genesi, 17:15 e 21:5-6). Comunque, “visitata” dal Signore, a 95 anni effettivamente partorisce Isacco, che pure significa “risata”. Poco dopo, per tutelare gli interessi dinastici del figlio legittimo, convince il marito a liberarsi della schiava Agar e del figlio spurio Ismaele (Gen. 21: 8-14).
Le Sacre Scritture non danno particolare peso ai non pochi lati oscuri della esistenza di Sara, probabilmente ritenendole debolezze umane da giudicarsi nel contesto dei tempi: tempi di imperfezioni. Comunque, ciò non ci impedisce di formulare serie riserve sulla figura della donna. Fra i suoi aspetti che suscitano riprovazione cito: l’accondiscendenza con cui ella si adattò a farsi passare per la sorella di Adamo, pur sapendo che in tal modo sarebbe finita nell’ harem del Faraone e nel letto del re di Gerar, e poi l’atteggiamento persecutorio verso la sua emula, Agar, trasgredendo così le leggi del tempo secondo cui era vietato allontanare la seconda moglie dopo che la prima aveva generato figli. Sara dubitò, per altro, della promessa di Dio di vincere la sua vecchiaia e la sua sterilità e di donare ad Abramo la posterità.
Pietro, nei sacri scritti a lui attribuiti, censisce Sara tra le sante donne che speravano in Dio e che pur adornandosi erano comunque soggette ai loro mariti ed operavano il bene coltivando la loro spiritualità interiore; e considera Sara madre di tutte le credenti, come Abramo lo è per gli uomini (I Lettera, 3:6). L’apostolo Paolo menziona Sara in più passi ed in particolare nella Lettera ai Galati, ove sottolinea il tipico significato di Sara ed Isacco, Agar ed Ismaele (Galati, 4:21-31). Giudizi di convenienza, non condivisibili. Sotto il profilo morale Sara non può non sconcertarci: in tutti i suoi atti ci appare donna lasciva, moglie prepotente e dominante, padrona crudele, credente di poca fede.
La storia di AGAR, la schiava egiziana, s'innesta in quella di Sara e di Abramo. Ma è anche una storia a sé, piena di dolore e insieme di fierezza e di speranza: la storia attualissima di una donna che in condizioni di inferiorità sociale assoluta ha saputo difendere la propria dignità, la propria creatura. Bruna, forse nera, coi riflessi blu dei veri egiziani originari, altera nel fisico anche se umiliata dalla condizione di servaggio, Agar fa da contrappunto drammatico a Sara, la "principessa", la padrona assoluta che potrebbe disporre della sua vita, come infatti, a un certo momento, farà. Per molti anni, sotto la ricca tenda d'Abramo, il dramma pende positivamente dalla parte di Agar e negativamente dalla parte di Sara. Dopo aver giaciuto con Abramo ed essere rimasta incinta e prima ancora che Ismaele sia nato (Gen. 16:1-4), Agar è orgogliosa di sé, sente d'aver finalmente raggiunto la tappa più incredibile della propria vita di schiava: quella di contare più della padrona per il solo fatto d'essere, a differenza di lei, feconda e madre. L'Antico Testamento, come tutte le storie dei popoli antichi, è pieno di questi casi di schiave che insuperbiscono e finiscono col dominare le padrone; com'è piena la storia d'ogni tempo di belle sguattere, di graziose cameriere che riescono a farsi sposare dal padrone, e dopo non le tiene più nessuno. L'ordito della storia di questo "trio" biblico - Abramo, Sara, Agar - è, in realtà, quello classico comune anche alla commedia borghese dell'Ottocento. Ma occorre tener conto che questa umana e sgradevole storia è inserita nel libro di Dio, e dietro i fatti non sempre edificanti nessuno può dimenticare che Dio, all'insaputa degli stessi protagonisti, trama la salvezza del mondo secondo il proprio amore e la propria sapienza, cioè, come intuisce il grande predicatore francese Jacques Benigne Bossuet,  «scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini». Sara si lamenta immediatamente col marito dell'impudenza provocatoria della schiava: «Tu mi fai torto; io ti ho messo fra le braccia la mia schiava, ed essa, accorgendosi d'aver concepito, mi disprezza: il Signore giudichi fra me e te» (Gen. 16: 5). Sara si riduce al livello di Agar: eccole ambedue gelose l'una dell'altra, tese ormai a escludersi a qualunque costo. Ora, in una situazione del genere è concepibile che la peggio toccasse alla schiava, a colei che anche per legge era priva di ogni diritto. Abramo amava Sara; inoltre non poteva difendere giuridicamente Agar, nel contesto del diritto e delle usanze del tempo. Con docile remissività, accetta subito di porsi contro la schiava. Risponde: «Ecco, la tua schiava è in tuo potere: fa' di lei quello che ti piace». Non sappiamo cosa abbia fatto la bella "principessa" alla schiava umiliata, si sa semplicemente che “la maltrattò tanto che quella si allontanò” e che soltanto il fermo intervento dell’ Angelo del Signore e la di lui promessa «Io moltiplicherò grandemente la tua posterità che, da quanto sarà numerosa, non potrà essere contata», con la precisazione  “Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio al quale porrai nome Ismaele, perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione. Egli sarà come un onagro, un uomo feroce; le sue mani contro le mani di tutti, e le mani di tutti contro le mani di lui: egli abiterà in faccia a tutti i suoi fratelli», convinceranno Agar al ritorno sotto la tenda di Abramo (Gen. 16: 6-18).
Ma l'illusione e la speranza durano poco. Appena nasce Isacco, il figlio legittimo, il sereno scompare. L' incidente si verifica il giorno stesso in cui il piccolo Isacco viene svezzato: Abramo, per festeggiare il divezzamento, ha indetto un grande convito. Davanti a tutta la gente, però, Ismaele, più grande e già «feroce», come l'angelo l'aveva definito prima che nascesse, si mette a prendere in giro il fratellastro più piccolo e debole. Sara scatta e chiede ad Abramo: «Caccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non deve essere erede col mio figlio Isacco». A queste parole Abramo si sente infelice. Li ama ambedue i suoi figli, ma Sara non deflette, e Dio gli placa la coscienza rivelandogli che dove la crudeltà di una donna semina ingiustizia, Egli saprà seminare il riscatto e la consolazione. Allora Abramo si piega a cuore stretto. Ecco Agar di nuovo nel deserto, sola con il suo ragazzo. Il pane e l’acqua dell’otre finiscono presto. Il bambino ha fame e sete, forse morirà. Agar si dispera, però Dio non si dimentica di lei e tutto finirà bene: “E Dio fu con il fanciullo che crebbe ed abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco. Egli abitò nel deserto del Paran e sua madre gli prese una moglie del paese d’Egitto” (Gen. 21: 8-21). Si capice: mogli e buoi dei paesi tuoi. Ismaele sarebbe diventato il capostipite della grande nazione araba.
Come la sua padrona Sara, anche Agar non è stata uno stinco di santa. Ma, a differenza di Sara, ha sofferto ed espiato duramente e tutto il suo destino di schiava si è consumato nella vocazione del figlio.

REBECCA, sposa di Isacco, moglie e madre falsaria. Morta la consorte Sara, Abramo, che si trovava ad Ebron, nel paese di Canaan, si prodiga a cercare una moglie per suo figlio Isacco. Questo compito lo affida al servo Elizer - il più anziano della casa, amministratore dei beni della famiglia - raccomandandogli di non sceglierla tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abitava, ma di recarsi al suo paese, nella sua patria, dove dimora il fratello. Il servo giunge in prossimitá di un pozzo che si trova nella città di Nahor, dove incontra una giovane donna dal nome Rebecca, che poi si rivela la figlia di un fratello di Abramo, Betuel l’Arameo, da Paddan-Aram. Rebecca presenterá Elizer alla sua famiglia ed a suo fratello Labano e, alla fine, sceglierà di seguirlo e di diventare sposa del cugino Isacco (Gen. 24). Per un lungo periodo di tempo Rebecca rimane senza eredi, ma successivamente porta alla luce due gemelli. La sua gravidanza sará difficile in quanto i gemelli che porta in grembo si rivoltano l'un con l'altro, segno promonitore della discordia che nascerá tra di loro e tra le nazioni che da loro discenderanno (Gen. 25:21-23). Nascono due gemelli, prima Esaù e poi Giacobbe. I fanciulli crescono ed Esaù diviene abile nella caccia, un uomo della steppa, forte e peloso come un animale, mentre Giacobbe si conserva un uomo tranquillo, che dimora sotto le tende. Isacco predilige Esaù, perché la cacciagione era il suo piatto preferito, mentre Rebecca predilige il più mite Giacobbe, una sorta di mammone (Genesi, 25:24-28). E questa sua predilezione portò alle estreme conseguenze, aiutando il figlio Giacobbe ad usurpare presso il padre Isacco, vecchio, malato e cieco, la “benedizione” (una sorta di investitura successoria riservata al primogenito) che spettava al fratello Esaù. Vero è che precedentemente Esaù, sul punto di morire di fame, aveva ceduto la primogenitura a Giacobbe che lo aveva ricattato con un piatto di lenticchie (Gen. 25:29-34), ma vero è anche che alla “benedizione” Esaù ci tiene molto ed Isacco è pronto a conferirgliela quando Rebecca porta a termine una frode diabolica. Isacco morente chiama il figlio maggiore e gli chiede di cacciare per lui della selvaggina e di preparargli una piatto di suo gusto; subito dopo lo avrebbe "benedetto". Partito Esaù per la caccia, Rebecca, che tutto aveva udito, mette a cucinare due capretti per farne un piatto a gusto di Isacco, fa indossare a Giacobbe i vestiti del fratello e con le pelli dei capretti ammazzati gli riveste il collo e le braccia poiché Isaù era molto peloso ed Isacco, benché cieco, toccandolo si sarebbe potuto accorgere della sostituzione. Quindi lo manda dal padre con il piatto che aveva preparato. Isacco cade nell’inganno, “benedice” Giacobbe credendolo Esaù e quando questi ritorna dalla caccia, poiché la “benedizione” era un istituto irrevocabile, non può che assistere alla disperazione del figlio defraudato ed ascoltare le sue intenzioni omicide nei confronti del fratello minore che gli aveva carpito sia la “primogenitura” che la “benedizione”. Ma "cosa fatta capo ha" : Isacco manda Giacobbe a Carran presso la famiglia del fratello in attesa che l’ira di Esaù si plachi (Genesi, 27),
S'impone qualche commento. Elizer, il servo al quale Abramo aveva dato incarico di trovare moglie al figlio Isacco, sapeva che il padrone desiderava una donna scelta da Dio e pensa di averla trovata quando incontra Rebecca ed il Signore gli invia segnali positivi (Genesi, 24:12-27). Ma forse deve esserci stato un malinteso, perché Rebecca, alla prova dei fatti, dimostrò di essere una donna imbrogliona, irrispettosa della tradizione e con pochi scupoli perché pronta ad assumere su di sé la maledizione che poteva ricadere sul capo di Giacobbe (Genesi, 27:12-13). Rebecca fece torto al marito, organizzando l’inganno, ma anche al figlio maggiore, dandogli il pretesto per odiare il fratello e la religione. E non consultò Dio nel realizzare il suo progetto. Potrebbe, a sua discolpa, ricordare che Dio, da lei consultato durante la difficile gravidanza dei gemelli, aveva predetto che “Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grambo si disperderanno; un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore (cioè Esaù) servirà il più piccolo (cioè Giacobbe)” (Genesi, 25:23). Ma resta che ella non ebbe fiducia nella predizione del suo Dio e ritenne che senza il suo aiuto fraudolento la promessa da lui fatta in favore di Giacobbe non sarebbe stata adempiuta.
Un’altra considerazione a sfavore di Rebecca : secondo i principi della Torah, l’uomo è il capo della famiglia ed è responsabile della donna. Egli deve amarla e deve guidarla secondo la parola di Dio, deve onorarla perché è il vaso più debole, ma la donna deve adattarsi al marito, deve essere sottomessa e seguire la sua guida. Purtroppo, Rebecca non agì secondo questi principi. Approfittò dello stato di inferiorità fisica di Isacco e della buona fede di Esaù, e tradì entrambi. La sua azione perversa procurò grande dolore a Isacco ed Esaù perse il rispetto per sua madre. Inoltre, Rebecca, come Sara, fu incapace di prevedere gli effetti duraturi della sua azione: l’odio sorto nel cuore di Esaù fu trasmesso alle generazioni future, sicchè per molti secoli gli edomiti, discendenti di Esaù, furono grandi nemici dagli israeliti, discendenti di Giacobbe.

RACHELE, seconda sposa di Giacobbe, una “gatta morta”. Il nome Rachele deriva dall'ebraico Rahel che significa "pecorella", quindi “mite”, per cui, secondo la tradizione, i figli di Giacobbe e Rachele avrebbero dato origine agli allevatori di ovini. Un'altra interpretazione lo traduce come "pecora di Dio": tutti i nomi ebraici che terminano in 'ele' come anche Daniele, Gabriele, Emmanuele ed altri hanno 'Dio' come suffisso (dall'ebraico E-L contrazione di E-lohim, Dio).
Si dice che questa donna colpisce per la sua dolcezza e che è la donna, la madre, la matriarca che più ha sofferto perché ha dovuto aspettare lo sposo per 14 anni e poi è stata colpita dalla sterilità. Però Rachele nella vicenda biblica che la riguarda tanto “pecorella” non lo fu davvero. Vediamone la storia.
Quando Giacobbe si rifugia presso lo zio per fuggire da Esaù, si innamora di Rachele e lavora sette anni presso lo zio per averla in moglie. Ma lo zio Labano, il padre di Rachele, riesce a fargli sposare prima Lia, la sorella maggiore. Andò cosi (Gen. 29). La sera delle nozze, secondo l’usanza, la sposa veniva condotta dallo sposo nella tenda nuziale, completamente velata. Ebbene, nell’oscurità della notte a Giacobbe portano Lia anziché Rachele. La mattina dopo Giacobbe si accorge dell’inganno. Per di più, Lia non è della stessa bellezza di Rachela. Alle rimostranze di Giacobbe, il padre delle ragazze si giustifica, evocando l’uso locale di sposare per prima la figlia maggiore. Accade così che Giacobbe, che aveva ingannato il padre Isacco ed il fratello Esaù in occasione della “benedizione”, resta, a sua volta. vittima di un raggiro, operato proprio da un parente più furbo di lui. Labano gli disse allora: “Finisci la settimana nuziale di costei, poi ti darò anche quest’altra, per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni”(Gen. 29:27). In effetti l’uso della poligamia era ampiamente praticato nell’antico Vicino Oriente, per cui Giacobbe non resta che accettare: quindi nuova settimana nuziale e il suo lungo sogno finalmente si avvera : “Si unì anche a Rachele e l’amò più di Lia” (Gen. 29:30).
Inizia così una relazione a tre con le inevitabili tensioni. Lo scrittore del sacro testo però si preoccupa che la giustizia sia assicurata: Lia trascurata è feconda, Rachele amata è sterile. Lia partorisce quattro figli: normale che Rachele diventi gelosa della sorella per i figli che dà a Giacobbe, mentre lei non può. Afflitta grida al marito la sua disperazione: “Dammi dei figli se no muoio”. A ciò Giacobbe reagisce duramente, ricordandole che la vita è un dono divino. L’afflizione esagerata di Rachele, si spiega considerando che a quei tempi, la donna era vista soprattutto come generatrice di figli e quindi di braccia per i duri lavori dei campi e dell’allevamento di mandrie e greggi.
E, allora, ecco che Rachele, la “mite pecorella”, ricorre allo stratagemma già posto in essere da Sara : offre a Giacobbe la propria schiava Bila, cosicché possa avere un figlio tramite lei. E dalla schiava Bila riceve così due figli (Gen. 30:1-8). A questo punto il racconto biblico diventa comico per la nostra mentalità: le due mogli di Giacobbe entrano in gara a dare dei figli al futuro patriarca che orami era in età matura. Lia, visto che Giacobbe non si accostava più a lei perché non l’amava, prese la sua schiava Zilpa e, allo stesso modo di Rachele, l’offre al marito per avere altri figli. Così la schiava Zilpa genera due figli. Viene poi il tempo della mietitura del grano, e Ruben, figlio primogenito di Lia, trova delle mandragore (pianta velenosa a cui erano attribuite proprietà guaritrici della sterilità) e le porta alla madre. Rachele saputo ciò, induce la sorella a cedergliela e in cambio concede che Giacobbe trascorra un’altra notte con lei. Questo Giacobbe, sballottato da una donna all’altra, ci fa sorridere: i suoi atti d’amore, dovevano essere utilizzati per soddisfare le esigenze generazionali delle due mogli, anche attraverso le due schiave; sembra quasi un sultano nel suo harem, ma qui egli non sceglie, ma gli viene imposta una donna di volta in volta. A Lia quindi nasce un quinto figlio e poi ancora un sesto e inoltre una figlia. Dice la Bibbia che a questo punto Dio “si ricordò” di Rachele, la esaudì e la rese feconda; essa concepì e partorì un figlio proprio e lo chiamò Giuseppe (Gen. 30:9-24).
Ma anche nel prosieguo del racconto Rachele mostra furbizia, sagacia, disposizione a farsi valere anche ricorrendo a sotterfugi e menzogne (Genesi, 31). Deciso a lasciare la casa di Betel e Labano, Giacobbe convoca le due mogli ed espose il suo progetto di lasciare quelle terre di Mesopotamia per ritornare a Canaan, anche perché i rapporti con il suocero erano cambiati e diventati più difficili. Rachele e Lia acconsentono, giacché il padre le aveva trattate come straniere, vendendole e mangiandosi la loro dote. Prima di partire di nascosto, Rachele si appropria degli idoletti che appartengono al padre (sorta di statuette indicanti le divinità familiari, il cui possesso forse sanciva un diritto all’eredità), per portarseli con sé, quali segni di protezione o di memoria del passato, nella terra sconosciuta dove stava recandosi.  E ancora sa abilmente destreggiarsi e mentire quando Labano, avendo raggiunto la carovana di Giacobbe, partito a sua insaputa, dopo aver rimproverato il genero di portar via da lui le figlie e i nipoti, lo accusa di aver rubato i “terafini” (gli idoletti) dalla sua casa. L’ignaro Giacobbe lo invita a guardare nelle tende per assicurarsi che non c’erano. Giunto alla tenda di Rachele, trova costei seduta sulla sella del cammello. All’entrata del padre, lei si scusa di non potersi alzare perché indisposta, “come avviene regolarmente alle donne”. Sotto la sella naturalmente vi erano i preziosi “penati” della famiglia. Così Labano si ritira niente avendo trovato. E Rachele, la furbacchiona, vince ancora.

DEBORA, "la madre di Israele" e GIAELE, la donna killer. La storia di Debora è raccontata due volte in due capitoli differenti (4 e 5) del Libro dei Giudici. Il primo è scritto in prosa, il secondo è in forma di cantico ed è comunemente riconosciuto come uno dei più antichi esempi di poesia ebraica. Stupisce di trovare una donna alla guida del popolo eletto, una donna che assomma i ruoli di profetessa, giudice e guerriera. Tale è Debora (che significa "ape"), definita la «madre di Israele» perchè seppe risvegliare l'orgoglio militare e religioso del suo popolo (Giud. 5:7). Una donna che indubbiamente non brilla per riflesso di luce maschile, quale moglie o sorella di un uomo illustre. Semmai è lei che getta luce sugli Israeliti, compreso il generale Barak, il «raggio» di sole. Il Libro dei Giudici introduce Debora, il cui nome significa "ape", come la moglie di Lappidot. Ma del marito non sappiamo altro che il nome. Egli non ha un particolare ruolo da giocare, mentre lei è una donna famosa prima ancora di prendere in mano le redini del governo e diventare «madre di Israele», salvatrice della patria. È famosa anzitutto come profetessa e donna saggia che giudica e dirime le controversie degli Israeliti.. È una donna ispirata, in un rapporto di particolare intimità con il Santo d'Israele: è la profetessa, bocca di Dio per il suo popolo. E gli Israeliti andavano numerosi a consultarla. Salivano sulle montagne di Efraim, tra Rama e Bete, ed essa li accoglieva all'aperto, seduta sotto una palma.
Debora è una profetessa audace che non teme il confronto con i potenti. Ella convoca Barac ordinandogli di radunare una armata raccolta dalle tribù di Neftali e di Zabulon per vincere i Cananei di Sisara, giovane condottiero al servizio Iabin, re di Canaan. Inoltre profetizza, secondo l’oracolo divino, che l'onore di uccidere Sisara in persona non sarebbe toccato a Barac, ma ad una donna. Costei è GIALE.
Giaele compare nella storia di Debora. Ed è appunto il comportamento di questa donna, Giaele, che sconcerta nel racconto di Debora, sulla quale ultima  nulla da eccepire come giudice e come profetessa, perché tutto avviene come lei aveva previsto. Barac sconfigge le truppe di Sisara e questi cerca asilo presso Giaele, moglie di un certo Eber. Nella versione in prosa, la donna accoglie il fuggiasco e gli mette a disposizione un letto, ma dopo che Sisara cade addormentato lo colpisce alla tempia con un piolo (Giud. 4:17-23). Nella versione poetica invece (Giud. 5: 24-27) Sisara viene ucciso da Giaele mentre è ancora sveglio e in piedi. Ma sia nell’una che nell’altra versione la condotta della donna è odiosa, cinica, efferata più di quella di un guerriero sanguinario. Leggiamo l’episodio nella versione prosastica. Il povero Sisara è in fuga alla ricerca di un riparo e si dirige verso la tenda di Eber il Kenita, poichè vi era pace con la casa di costui. Giaele gli va incontro e lo invita a fermarsi ed a non temere: infatti lo fa entrare nella tenda, lo nasconde con una coperta, lo disseta con del latte, lo rassicura sul fatto che a nessuno avrebbe rivelato la sua presenza, ma poi, quando, sfinito, lui si addormenta profondamente, prende un picchetto della tenda e glielo conficca nella tempia “fino a farlo penetrare in terra”. E così lo presenta a Barac, quando questi sopraggiunge.
Sapete perché Giaele, che non aveva alcun motivo di risentimento verso Sisara, fa questo? Perché Dio, quel giorno, aveva deciso di umiliare Iabin, re di Canaan, davanti agli Israeliti (Giud. 4:23).

DALILA, un’amante abile, venale e traditrice. Sansone aveva già sposato una filistea, l’aveva ripudiata e l’aveva ancora inutilmente richiesta quando si innamora di Dalila, una donna della valle di Sorek. Allora i capi dei Filistei le offrono mille e cento sicli d'argento ciascuno per sedurlo e farsi rivelare il segreto della sua forza in modo da poterlo vincere. A ogni incontro Dalila interroga Sansone su come può essere legato, ma Sansone la inganna: la prima volta parla di sette corde d'arco fresche, la seconda di funi nuove, la terza di tessere le sue sette trecce nell'ordito e di fissarle al pettine del telaio. Di volta in volta Dalila esegue le sue indicazioni, ma Sansone si libera facilmente dai legami. Dalila allora lo tormenta fino alla noia e alla fine Sansone le rivela il suo segreto: se il suo capo fosse rasato, perderebbe tutta la forza. Dalila comprende che questa volta Sansone le ha detto la verità e quindi chiama i capi dei Filistei. Questi le portano il denaro e si mettono in agguato. La notte Dalila fa addormentare Sansone sulle sue ginocchia, chiama un uomo adatto e gli fa radere le sette trecce. Persa la forza, Sansone viene sopraffatto dai Filistei: gli cavano gli occhi, lo portano a Gaza, lo legano con catene di rame e lo mettono a girare la macina della prigione. Mentre i capelli cominciano a ricrescergli, i Filistei celebrano un grande sacrificio in onore del loro dio Dagon per ringraziarlo di aver permesso la cattura del loro nemico; e chiamano lo stesso Sansone affinchè li intrattenesse con dei giuochi. Ma Sansone, cui i capelli erano ricresciuti, al fanciullo che lo tiene per mano chiede di lasciarlo e di fargli toccare le colonne portanti della casa per appoggiarsi. Nella casa vi sono tutti i capi dei Filistei e sulla terrazza assistono allo spettacolo tremila persone. Allora Sansone invoca il Signore per vendicarsi dei suoi occhi, si mette tra le due colonne portanti e, gridando «Che io muoia insieme con i Filistei!», con tutta la forza fa crollare la casa. Con lui muoiono più persone di quante ne abbia uccise in tutta la sua vita. Poi i suoi fratelli e familiari prendono il suo corpo e lo seppelliscono nel sepolcro di Menoach, suo padre, tra Zorea ed Estaol (Giud. 14 e 16).
Il nome di Dalila è con tutta probabilità un epiteto ("traditrice"), più che un nome proprio. A parte quanto dice il testo biblico, non sappiamo nulla di questa donna, né del tipo di unione che la legò per qualche tempo a Sansone. Potrebbe essere stata una prostituta, così come una donna che non ebbe nulla in contrario a convivere con Sansone. In genere si pensa che fosse filistea, ma potrebbe essere anche israelita.
Certamente Dalila è l’emblema della donna che vende il suo uomo e ne determina la rovina. È il simbolo del tradimento femminile e della conseguente caduta, della schiavitù e della morte di un uomo fisicamente potente, ma moralmente debole. Pur essendo capace di squartare un leone (Giud. 14), Sansone non era capace di combattere le sue concupiscenze. Poteva spezzare delle ossa ma non le sue abitudini. Poteva piegare i filistei ma non le sue passioni! Dunque, Dalila ne ha buon gioco: ella usa il suo fascino personale per indurre un uomo alla sua distruzione fisica e spirituale e si erge come la più infima delle donne della Bibbia, il Giuda, al femminile, dell'Antico Testamento. Di una persistenza malefica e di una falsità diabolica, usò tutte le sue qualità (fascino, padronanza di sè e sangue freddo) per raggiungere un solo scopo, il danaro.
La sua figura rimane nei tempi come un avvertimento : uomini state attenti al fascino e alle astuzie di una donna malvagia e manipolatrice!

RUT E NOEMI, una nuora e una suocera che si amano. Il libro di Rut descrive la storia, ambientata nella Giudea del tempo dei Giudici (XI secolo a.C.), della gentile (cioè non ebrea, in quanto moabita) Rut, modello di pietà e bisnonna del futuro re Davide. Il racconto si sviluppa sulla storia di questa giovane donna, Rut, che ha sposato un ebreo emigrato nel suo Paese, e che, rimasta vedova, a sua volta immigra in terra di Israele, dove incontra un parente del marito, Bòaz, che inaspettatamente è disposto a sposarla per riscattarla dalla disperazione. Filo conduttore di questi eventi è il fortissimo legame che esiste tra la giovane vedova e sua suocera Noemi, a sua volta vedova, un legame che farà sì che le due donne non si separino neanche nel momento più disperato, e che la giovane sacrifichi le sue ultime possibilità di rifarsi una vita nel suo Paese di origine pur di rimanere con la suocera. La vicenda va vista più da vicino.
Una famiglia di Betlemme (Elimèlekh, la moglie Noemi, e i figli Malon e Chilion), spinta dalla carestia si trasferisce nel paese di Moàv. I figli sposano due donne moabite, Rut e Orpà, ma sia Elimèlekh sia Malon e Chilion muoiono in terra moabita. Dopo dieci anni, Noemi decide di far ritorno alla sua antica patria: Orpà rimane nella sua terra, mentre Rut decide di seguire la suocera, rinunciando al proprio popolo e ai propri dèi (Rt. 1: 1-22). In Betlemme, mentre Rut è intenta a spigolare in un campo, viene notata dal proprietario, Bòaz, un parente di Noemi. Quest'ultima consiglia Rut di indurre Bòaz a prenderla in moglie: «Noemi, sua suocera, le disse: 'Figlia mia, non devo io forse cercarti una sistemazione, così che tu sia felice?'» (Rt. 3:1), cosa che effettivamente avviene dopo che un altro parente, più prossimo rispetto a Bòaz, ha rinunciato ad averla in sposa. Rut genererà quindi con Bòaz un figlio, Ovèd, che sarà padre di Iesse, che a sua volta sarà padre di Davide (Rt. 4:1-17). Quali sono i contenuti del libro meritevoli di menzione?
In un contesto in cui il giudaismo era tentato di vedere il rapporto con gli stranieri soltanto come il pericolo di una contaminazione religiosa, in primo luogo l’annuncio che la salvezza sarebbe giunta per Israele proprio attraverso la discendenza di una donna straniera (si tenga presente che si è Ebrei se si è figli di madre ebrea): Rut, infatti, appartiene al popolo di Moàv, uno dei due nemici "storici" di Israele (l’altro è Ammon). Ebbene, quel Messia discendente di Davide, che sarebbe venuto per dare salvezza a Israele, è un ebreo con in sé il sangue di Moàv. In secondo luogo, l'amore di Rut per Noemi; un amore che sceglie la povertà, la fame, la disperazione in cui era precipitata la suocera e che diventa un modello per il popolo di Israele. Ed è proprio quest'ultimo il contenuto del racconto che ci incuriosisce di più: il sentimento di amore e di dedizione che unisce le due donne.
Noemi sperimenta il dolore, il disincanto: lei, ebrea che si fidava fino in fondo di Dio, arriva ad affermare: «El Shadday (l'Onnipotente), mi ha dato molte amarezze». È interessante notare come Noemi perda addirittura il nome, diventando semplicemente "la donna", dopo avere perduto tutti i maschi della sua famiglia (Rt. 1:5). Ma saprà osservare, saprà essere spettatrice della "redenzione", della "risurrezione" di Rut, e proprio "osservando" la storia di un'altra persona prenderà atto che si può ancora sperare in Dio. Il "corpo" di Rut viene salvato dalla fame e dalla marginalizzazione, e l' "anima" di Noemi viene salvata dalla disperazione e dal cinismo.
A sua volta, Rut decide di seguire Noemi in una terra straniera: invece della sicurezza che le offre la permanenza nel contesto sociale di apparteneza (Orpà, l’altra nuora di Noemi, non ha dubbi in proposito: lascia la suocera e se ne torna a Moav) ella sceglie la fedeltà a Noemi rischiando una vedovanza lunga e difficile, perché Noemi non ha più famiglia e non ha più alcun figlio che. secondo la legge del levirato, possa sposarla, (Rt. 1:10-13). Rut stringe un’ alleanza indissolubile con Noemi, un'alleanza tra due donne, di età molto diverse, di religioni diverse, di popoli diversi.
Questo amore che Noemi e Ruth si dichiarano è un amore assai profondo che sa riconoscere la libertà dell’altra. Noemi libera sua nuora dal seguirla nel suo difficile cammino, la invita a rinunciare a lei e a tornare a casa dai suoi genitori, dove può sentirsi più sicura. Non vuole trattenerla, farla sua, non ha nulla da offrirle se non il suo amore senza nome. Per questo motivo le chiede di andarsene dandole un bacio (Rt. 1:14). Noemi sapeva bene che il suo destino le chiedeva di abbandonare le sue speranze, di lasciar libera la donna che aveva tanto condiviso con lei. Ma Rut risponde senza pensarci sopra, pur comprendendo molto bene quello che avrebbero affrontato insieme. Lasciare la sua casa, il suo popolo, farsi unico corpo con Noemi, fino a che la morte non le avesse separate, rinunciare a quello che era più sacro, incluso il dio che aveva precedentemente conosciuto, questa fu la sua decisione.
Come è accaduto per la relazione tra Davide e Gionatan (1Sam. 18), anche in questo caso alcuni commentatori contemporanei hanno voluto vedere un paradigma di amore omosessuale. Naturalmente, il testo non dice affatto che l'amore tra le due donne avesse una componente erotica. È vero però che i versetti 16-17 del capitolo 1 («Rut rispose: 'Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io, e là sarò sepolta. Il Signore mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!») colpiscono per quanto in effetti richiamano l'alleanza matrimoniale. Questo è un dettaglio notevole e importante, perché in tutta la Bibbia si nota una progressiva tensione a scardinare il linguaggio dell'alleanza in senso militare (molto maschilista) per sostituirlo con il linguaggio dell'alleanza in senso sponsale, in cui l'amore gioca un ruolo centrale.

MIKAL, una sposa fedele e gelosa, costata duecento prepuzi di filistei. Mikal, la figlia più giovane di re Saul si invaghisce di Davide. Saul, sempre più irritato per la crescente fama di Davide, decide di dargliela in sposa “senza prezzo nuziale” a patto che uccida cento filistei e gli porti come prova i loro prepuzi : così facendo pensava che egli sarebbe andato incontro a morte sicura. Ma Davide superò la prova, uccise duecento filistei e riportò i prepuzi a Saul. Così prese in sposa Mikal (1Sam. 18:20-29). Dopo un’altra grande vittoria di Davide contro i filistei, Saul decise di ucciderlo: Mikal lo aiutò a fuggire, facendolo calare da una finestra e mettendo un idolo nel letto per fare finta che egli, malato, stesse riposando (1Sam. 19:8-17). Mentre era in fuga, Saul diede Mikal in sposa a Pati, figlio di Lais. Nel frattempo anche Davide prende altre due mogli: Abigail e Ainoam (1Sam. 25:39-44). Successivamente, mentre a nord Is-Bàal, fratello di Mikal e figlio di Saul, regnava sulle tribù di Israele, Davide che regnava a sud sulla Giudea chiese che Mikal tornasse da lui, in segno di alleanza tra i due regni: Is-Bàal acconsentì.
Qualche tempo dopo che era tornata e che Davide era diventato re d’Israele, Mikal lo critica e lo disprezza perché lui aveva ballato parzialmente nudo durante una processione religiosa, mentre portava l’Arca dell'Alleanza a Gerusalemme, appena conquistata: “Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla”. Velenosa la risposta di Davide : “L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore; anzi, mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, sarò onorato” (2Sam. 6:16-22). Evidentemente Mikal aveva oramai dimenticato la fatica immensa che era costata a Davide, costretto a tagliare duecento prepuzi per averla, e Davide di questa moglie, passata di mano al tempo della sua fuga da Israele, ne aveva le scatole piene. Mikal morì senza aver avuto figli con Davide. .

BETSABEA, l’adultera regale. Betsabea (in ebraico significa "settima figlia" o "figlia del giuramento") fu dapprima la moglie di Uria l'Ittita, il fedele soldato, e più tardi del re Davide, al quale partorì due figli, il secondo dei quali fu Salomone.
La Bibbia parla di lei soprattutto nel Secondo libro di Samuele e nel Primo libro dei Re. Narrano le Sacre Scritture che un giorno il re Davide, passeggiando sulla terrazza del suo palazzo, vede Betsabea che sta facendo il bagno. Anche se è a conoscenza che essa è moglie di Uria, uno dei suoi soldati attualmente impegnato in guerra, Davide si invaghisce di lei, la invita a casa sua ed ha una relazione con lei. Betsabea rimane incinta ed informa della cosa il re. Davide, allarmato, richiama il marito dalla guerra perché egli dorma con la propria moglie, ma Uria si rifiuta di dormire a casa propria. Il re comanda allora al suo generale di sferrare un attacco e di far mettere Uria in prima fila. Il comandante ubbidisce e Uria muore durante quest'attacco. Così Davide resta libero di prendere in moglie Betsabea. A questo punto interviene il profeta Natan, inviato da Dio, che rimprovera Davide per il peccato commesso nel provocare la morte di Uria per poter prendere in moglie Betsabea. Davide si pente del male fatto e chiede perdono a Dio, il quale perdona Davide, ma non perdona il figlio della colpa, che muore dopo pochi giorni dalla nascita. Davide e Betsabea avranno un secondo figlio, Salomone (2Sam. 11, 12, 13). Questo figlio diventa il figlio prediletto di Davide e gli succederà sul trono, nonostante il tentativo del fratellastro Adonia, figlio di Agghit, maggiore di lui, di impossessarsi del trono (1Re, 1). Questa, in breve, la storia.
Una storia torbida, alla fine della quale un figlio innocente paga con la morte prematura il peccato dei genitori e questi vengono perdonati e gratificati con un altro figlio che diventa il nuovo re di Israele. Una storia di miserie umane, sebbene a livello regale. Tutta colpa della bellezza di Betsabea e dei pruriti di un re passionale e privo di scrupoli, benché timoratissimo di Dio: re Davide, il quale non solo induce la donna di cui si era invaghito a commettere adulterio, ma si macchia anche di un crimine terribile nei confronti del di lei marito. Il fatto è che Betsabea giace con Davide nel periodo di fertilità (“si era appena purificata dalla immondezza”) ed esce incinta mentre il marito è lontano in guerra. Che fa Davide? Escogita un piano che gli permette di scagionarsi dal guaio che ha causato sperando che il tradimento non venga scoperto: manda a chiamare il marito di Betsabea, Uria l'Hittita, dal campo di battaglia e lo invita a casa. Il soldato orgoglioso dell’invito, si precipita immediatamente dal suo re. Arrivato Uria, Davide si informa dell’andamento della guerra, delle sue truppe e infine lo invita a tornare a casa, da sua moglie. Spera che dopo la lunga assenza egli giaccia con lei, così da poter giustificare la gravidanza. "Scendi a casa tua e lavati i piedi" gli ordina il re. Ma Uria esce dalla reggia e disattende l'ordine: dorme alla porta della reggia con tutti i servi del suo signore e non scende a casa sua. La sua onestà e fedeltà alla legge della guerra santa, gli impedisce di avere rapporti sessuali in tempo di guerra, non vuole sentirsi un vigliacco, anche se il re in persona glielo ha ordinato! Mangiare, bere e dormire in un bel letto, con la sua bella moglie, mentre i suoi soldati stanno nel campo di battaglia: no! Non può. Nemmeno quando Davide, nei giorni seguenti, lo fa mangiare e bere con sé e lo fa ubriacare al fine di affievolire la sua resistenza. Davide allora scrive una lettera a Ioab, il comandante di Uria, e gliela manda per mano dello stesso Uria. Nella lettera aveva scritto così: "Ponete Uria in prima fila, dove più ferve la mischia; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia" Così è fatto: Uria è mandato proprio dove il nemico ha gli uomini più valorosi e muore. Ora Davide ha la strada spianata per sposare Betsabea.
La storia non dice fino a che punto Betsabea è stata consenziente al piano diabolico di Davide, dice solo che saputo della morte di Uria la donna fa il lamento per il suo uomo (2Sam. 11:26).. Un lamento che è ipocrisia bella e buona, tant’è che, passati i giorni del lutto, Davide la manda a prendere e l'accoglie nella sua casa. Rilevo che Betsabea - che a differenza di Davide non manifesta la minima apprensione ed il minimo dolore quando il Signore, per punire le malefatte del re, colpisce il bambino che aveva partorito - si comporta in tutta la vicenda in modo deprecabile. Ella è quella che è: una donna «spaventosamente bella», passivo oggetto di desiderio, che si lascia prendere e plasmare, fino ad assumere la piena consapevolezza di sé, del proprio potere e della propria volontà e diventare colei che decide, che regge le fila di trame e destini, con l’ineluttabile determinazione e la travolgente forza della sua femminilità.

JEZABEL, una regina pagana che sa morire con onore. Jezebal (Gezabele, in italiano) è una principessa fenicia, figlia del Re Et Baal e sposa del re d’Israele Acab. Jezabel aveva convertito Acab al culto del Dio Baal, il celebre vitello d'oro che contendeva a Jhavè il culto degli ebrei. Ciò aveva fatto si che molti ebrei si erano convertiti al Dio Baal e al Signore la cosa non andava tanto bene (1Re, 16:29-32), tant'è che guidò il profeta Elia da Acab in Samaria, dove imperversava una grande carestia. Qui Elia dimostrò agli Israeliti che il Signore e non Baal era il vero Dio, così potè dire loro : "Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!". Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò”. Poi il Signore fece cadere la pioggia (1Re, 18:1-46). A Jezabel che (diciamolo) non aveva fatto nulla contro i credenti di Jhavè la strage dei profeti di Baal non andò molto giù, infatti quando venne a sapere dell'accaduto inviò un messaggero ad Elia per dirgli : "Gli dei mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest'ora non avrò reso te come uno di quelli". Ed Elia, impaurito, se la squagliò in direzione di Bersabea di Giuda (1Re, 19:1-3). In seguito, Acab sconfigge Ben-Adad, re di Aram, che voleva impossessarsi di tutti i suoi averi, donne e figli compresi, ed in questa impresa riceve il sostegno reiterato del Signore (1Re, 20). Ma poi, desiderando di possedere la vigna di un certo Nabot di Izreel, che si trovava vicina al palazzo reale ed avendo il proprietario rifiutato di cedergliela, nonostante l’offerta di uno scambio con una vigna migliore o del pagamento in denaro del suo valore, commette l’errore di mettere nelle mani della moglie la soluzione del caso. Jazebel, che era donna molto spiccia, “scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai capi, che abitavano nella città di Nabot. Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate sedere Nabot in prima fila tra il popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l'accusino: Hai maledetto Dio e il re! Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia"  (1Re 21:8-10). Gli uomini della città di Nabot, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele, ossia come era scritto nelle lettere che aveva loro spedite. Bandirono il digiuno e fecero sedere Nabot in prima fila tra il popolo. Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero fuori della città e lo uccisero lapidandolo. Quindi mandarono a dire a Gezabele: "Nabot è stato lapidato ed è morto". Appena sentì che Nabot era stato lapidato e che era morto, disse ad Acab: "Su, impadronisciti della vigna di Nabot di Izreèl, il quale ha rifiutato di vendertela, perché Nabot non vive più, è morto". Quando sentì che Nabot era morto, Acab si mosse per scendere nella vigna di Nabot di Izreèl a prenderla in possesso” (1Re, 21:11-16).
Brutta storia. Il Signore manda subito Elia a smascherare Acab e ad annunciargli che per l’assassinio di Nabot egli pagherà con il suo sangue (“Gli riferirai…Nel punto ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue”). Acab ammette, ma non addossa le colpe alla compagna, come biblicamente fece Adamo, dice solo: "Mi hai dunque colto in fallo". Quindi, quando Elia profetizza che la sciagura si abbatterà anche sulla sua casa e su tutti i maschi di Israele, nonché sulla moglie Jezabel, che sarà divorata dai cani, si umilia davanti al Signore ed ottiene una dilazione della pena (1Re, 21: 17-29).
Sta di fatto che Acab morì in battaglia (1Re, 22: 29-40) e quando suo figlio Ioram divenne re e perpetuò il culto a Baal il Signore mandò un messaggero a Ieu dicendogli che lo avrebbe unto Re d'Israele, ma che prima doveva sterminare la famiglia di Acab e possibilmente doveva far sbranare dai cani Jezabel e nemmeno seppellirla. Insomma il Dio di infinita bontà in quei tempi non era molto ecumenico e con i credenti delle altre religioni non andava molto per il sottile.
Ieu prese il suo esercito e si recò a Izreel dove incontrò Ioram che gli venne incontro solo e che lo accolse con un amichevole e ingenuo: "Tutto bene, Ieu?" Ieu  rispose ironicamente : "Sì, tutto bene, finché durano le prostituzioni di Gezabele tua madre e le sue numerose magie". (2Re, 9:22). Ioram ha tempo solo di gridare ad Acazia, Re di Giuda, il tradimento prima che Ieu con una freccia scoccata dal suo arco gli trafigga il cuore. Ieu entrò quindi in Izreel da vincitore senza mai aver vinto una battaglia e qui la nostra eroina diventa protagonista: “Ieu arrivò in Izreel. Appena lo seppe, Gezabele si truccò gli occhi con stibio, si acconciò la capigliatura e si mise alla finestra. Mentre Ieu entrava per la porta, gli domandò: "Tutto bene, o Zimri, assassino del suo padrone?".
Ieu alzò lo sguardo alla finestra e disse: "Chi è con me? Chi?". Due o tre eunuchi si affacciarono a guardarlo. Egli disse: "Gettatela giù". La gettarono giù. Il suo sangue schizzò sul muro e sui cavalli. Ieu passò sul suo corpo, poi entrò, mangiò e bevve; alla fine ordinò: "Andate a vedere quella maledetta e seppellitela, perché era figlia di re". Andati per seppellirla, non trovarono altro che il cranio, i piedi e le palme delle mani. Tornati, riferirono il fatto a Ieu, che disse: "Si è avverata così la parola che il Signore aveva detta per mezzo del suo servo Elia il Tisbita: nel campo di Izreèl i cani divoreranno la carne di Gezabele. E il cadavere di Gezabele nella campagna sarà come letame, perché non si possa dire: Questa è Gezabele" (2Re, 9:30-37)
La fine di Jezabel è sconvolgente e racchiude molti dei tabù cristiani. Saputa della morte del figlio e dell'arrivo del nemico si trucca gli occhi e si acconcia la capigliatura. Molti commentatori hanno visto nell'atteggiamento di Jezabel vanità e il tentativo di ammaliare con la sua bellezza Ieu. Da qui e per millenni Jezabel diventa il prototipo della prostituta tanto da venir citata con violenza nella Apocalisse nelle lettere ai 7 angeli delle Chiese (2:20). Tuttavia, la mia impressione è che Jezabel non si trucca per sedurre Ieu ma per prepararsi alla sua morte: sa di non avere scampo e da figlia di Re fa in modo di non avere un aspetto disonorevole nel momento in cui si compirà il suo destino. Jezabel mostra carattere, lei donna ormai sola esce retta alla finestra, affronta il suo nemico senza chiedere di aver salva la vita, anzi accusa Ieu di aver tradito e aver ucciso il suo Re. Dall'altro Ieu non mostra nessuna pietà e Jezabel diventa la prima defenestrata dalla storia da parte di due suoi servitori che la tradiscono e che la gettano giù dalla balconata facendo schizzare il suo sangue sulle mura del palazzo e sui cavalli dei vincitori. Ieu con sdegno la calpesta e se ne va a festeggiare il buon esito del suo colpo di stato lasciandola in pasto ai cani randagi. Finita la festa chiede di seppellirla ma oramai di lei sono rimasti solo il cranio, i piedi e i palmi e il sacro scrittore la paragona al letame.

GIUDITTA, la bella virago. Il Libro di Giuditta è un testo contenuto nella Bibbia cristiana (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo. Ci è pervenuto in una versione greca di circa fine II secolo a.C., sulla base di un prototesto ebraico perduto composto in Giudea attorno a metà II secolo a.C. Consta di 16 capitoli descriventi la storia dell'ebrea Giuditta, ambientata al tempo di Nabucodonosor (605-562 a.C.), "re degli Assiri" [sic].
La storia è dunque ambientata cronologicamente durante il regno di Nabucodonosor (qui presentato come re assiro, in realtà babilonese) di cui narra la guerra contro i Medi. Conclusa vittoriosamente la prima campagna di guerra, il "Grande re" affidò al suo generale Oloferne la campagna d'occidente, durante la quale questi incontrò il popolo di Israele.
Ecco la città giudea di Betulia sotto assedio da parte di Oloferne, generale assiro.  Ridotti allo stremo per fame e sete, dopo 34 giorni gli israeliti avrebbero voluto arrendersi, e il loro capo, Ozia, a fatica riuscì a convincerli ad aspettare ancora cinque giorni. Qui entra in scena Giuditta, ricca vedova, bella, giovane e di indiscussa virtù : « Giuditta era rimasta nella sua casa in stato di vedovanza ed erano passati gia tre anni e quattro mesi. Si era fatta preparare una tenda sul terrazzo della sua casa, si era cinta i fianchi di sacco e portava le vesti delle vedove. Da quando era vedova digiunava tutti i giorni, eccetto le vigilie dei sabati e i sabati, le vigilie dei noviluni e i noviluni, le feste e i giorni di gioia per Israele. Era bella d'aspetto e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manàsse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché temeva molto Dio. » (Gdt. 8: 4-7). Alla notizia dell'intenzione di resa, Giuditta convoca gli anziani, rimprovera loro la scarsa fede, ne ottiene la fiducia e, invocata per sé la protezione del Dio di Israele, si veste in gran pompa e si presenta ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi. Condotta alla presenza del generale viene assai ben accolta, e gli fa credere di poter avere la rivelazione dei peccati del suo popolo a causa dei quali l'Eterno lo darà in mano al nemico, permettendogli di giungere vittorioso fino alla conquista di Gerusalemme. Oloferne accetta entusiasta l'offerta e la lascia pregare ogni notte il suo Dio per avere la promessa rivelazione. Dopo tre giorni la invita al suo banchetto, credendo di poterla anche possedere. Ma quando viene lasciato solo con la donna è perdutamente ubriaco. Allora, Giuditta « Fermatasi presso il divano di lui, disse in cuor suo: «Signore, Dio d'ogni potenza, guarda propizio in quest'ora all'opera delle mie mani per l'esaltazione di Gerusalemme. È venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio piano per la rovina dei nemici che sono insorti contro di noi». Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: «Dammi forza, Signore Dio d'Israele, in questo momento». E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt'e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città. » (Gdt. 13: 4-10). Giuditta ricavò dal suo atto eroico grandi onori e anche ricchezze, levò un salmo di ringraziamento all'Eterno, e visse fino a 105 anni, libera e assai rispettata dalla sua gente, rifiutando ogni proposta di nuove nozze. La storia di Giuditta, trattata con grande ampiezza nella Bibbia cattolica, ha avuto grande successo come fonte di ispirazione letteraria ed iconografica.
Non si può negare che colpisce, nel racconto, l'entrata in scena di questa figura di donna bella, libera e ricca (posizione di per sé inquietante, in una società arcaica), che pungola lo scarso coraggio degli uomini della sua comunità ai quali dovrebbe per tradizione essere soggetta. E non c'è dubbio che l'uccisione di Oloferne evochi anche la vendetta della donna contro il maschio violento e violentatore. Ma come ha potuto un racconto che ribadisce che le armi della femmina contro il maschio sono quelle tradizionali - la seduzione e l'inganno - avere tanta fortuna in società patriarcali? La parola-chiave sembra essere "patriottismo", cioè “valore”, come indica la parola stessa, tipicamente patriarcale. Il fatto è che da una parte nel racconto si ribadisce che le armi femminili sono proprio quelle, ma dall'altra esse vengono qui utilizzate a beneficio del gruppo (patriarcale) di appartenenza. Ciò consente la promozione di Giuditta al ruolo di eroe - anzi, di eroina.
Sì, eroina della storia ebraica e simbolo della lotta del suo popolo contro gli antichi oppressori nel Vicino Oriente. Ma nessuno può cancellare la sua immagine mentre regge la testa recisa di Oloferne (del resto, essa così è prevalentemente raffigurata nella iconografia dei tempi). Insomma una donna avvenente e pur tuttavia provvista dei requisiti maschili di un guerriero, come la forza, il coraggio, la risolutezza a mozzare la testa del nemico. Di questa complessità psicologica ben si accorse Freud, quando nella sua Psicologia della vita amorosa, citò la figura di Giuditta come una di quelle donne la cui verginità è protetta da un tabù, facendo riferimento ad una tragedia di Friedrich Hebbel che dava per non consumato il suo primo ed unico matrimonio.

La SULAMITA, una bruna sensuale a luci rosse. Il Cantico dei Cantici è un libro dove si parla della meraviglia dell’amore, soprattutto di quello profano, cioè fisico. Attribuito al re Salomone, celebre per la sua saggezza, per i suoi canti e anche per i suoi amori, il Cantico dei Cantici fu composto non prima del IV secolo a.C. ed è uno degli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia, addirittura un secolo dopo la nascita di Cristo, col sinodo rabbinico di Iadne. È composto da 8 capitoli contenenti poemi d'amore in forma dialogica tra un uomo ("Salomone") e una donna ("Sulammita").
Il nome del libro, con la ripetizione della parola "cantico", secondo il modo di costruire le frasi degli antichi ebrei, è da considerarsi come un superlativo e andrebbe reso come "il più sublime tra i cantici".
Si sostiene anche che il Cantico dei Cantici sia un testo laico, di scrittore anonimo del IV sec. a.C., derivato e copiato da alcuni poemi della Mesopotamia: sarebbe un canto nuziale entrato nel canone biblico "a furor di popolo". La parola "Dio" non è mai menzionata ed è lontano dalla visione moralista di Jhavè. Come "Cantico di Salomone" la tradizione ebraica vuole che sia coevo alla costruzione del Tempio di Gerusalemme.
Nei secoli, molteplici sono state le interpretazioni del testo, sia da parte della dottrina canonica ebraica che cristiana, a riprova della grande considerazione che il Cantico ha sempre avuto nelle due religioni. Tra le interpretazioni allegoriche più diffuse abbiamo, nel primo caso, quella dell'amore del creatore per il suo popolo (Israele), nel secondo caso dell'amore tra Cristo e la Chiesa.
È uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre scritture. Racconta in versi l'amore tra due innamorati, con tenerezza ma anche con un ardire di toni ricchi di sfumature sensuali e immagini erotiche.
I primi versi del Cantico (1:1-6) narrano la sofferenza che la giovane donna è costretta a subire: veniva infatti maltrattata dai fratelli che la mettevano a guardia delle vigne. Il suo colorito, sempre esposto al sole caldo, è scuro, forse era di colore e lei stessa si definisce, con gentile fierezza: “Bruna sono, ma bella”. Ecco allora che le guardie del re, avendo notata questa bellissima creatura libanese, la conducono alla reggia dove re Salomone, alla sua vista, si inebria e dichiara la sua passione. Ma la Sulamita è presa da un giovane pastore, suo promesso sposo, di cui non si conosce il nome, e quando parla di amore con Salomone (le sue sono descrizioni forti del desiderio che prova per il giovane pastore) non fa che acuire le voglie del vecchio re libertino che le chiede di danzare e lei non si rifiuta.
Insomma, vi sono due uomini che si sono innamorati della stessa donna: uno di essi è il re Salomone figlio di Davide, l’altro è il giovane pastore con cui la donna è fidanzata. Le ricchezze sono una grande tentazione, è ovvio, e così gli onori e tutto ciò che un ambiente regale può offrire alla donna: lei viene dalla campagna e nel palazzo del re sarebbe diventata certamente la sua preferita. Ma preferisce il vero amore, quello, seppur povero, del gagliardo amante. Un amore così grande e immenso di cui si dirà: “le grandi acque non possono spegnere l’amore e i fiumi non possono travolgerlo” (Ct. 8:7).
La Sulamita, è ricca dei doni di Dio, l’esemplare bellezza, la grande dolcezza e nobiltà d’animo e un fascino tale da incantare il re Salomone, che di donne belle ben s’intendeva, avendone tante (più di mille cita il testo) e tante altre ancora avrebbe potuto avere. Ma qui c’è qualcosa di diverso, di incantevole, è una bellezza che parte anche dall’interno, da una capacità di seduzione che non tutte le donne possono avere e che non si consuma col passare degli anni; e poi c’è una gentilezza, una sorta di fragilità indifesa che ne accresce il fascino.
Certo è che il pastorello non è disposto a perdere l’amata e così, mettendo a rischio la propria vita, la segue ed è pronto a tutto pur di non lasciarla mai sola. Sembra una storia da fotoromanzi. Al termine del Cantico (8:6-9) ella dichiara il suo ardente amore per il suo promesso sposo e dice: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio: insaziabile come morte è amore”. E Salomone, davanti ad un amore così intenso “forte come la morte”, cede e la lascia partire per le nozze campagnole.

ESTER, una “favorita” patriottica e pia, ma anche una donna di potere astuta e crudele. Il Libro di Ester si presenta come la leggenda eziologica della festa del Purim, la più gioiosa tra le festività ebraiche, quella più amata dai bambini, omologa del carnevale cattolico. Cade a metà del mese ebraico di Adar e ricorda il sovvertimento delle “sorti” e il conseguente scampato pericolo per il popolo ebraico (in ebraico Purim significa appunto "sorti"), accadimenti risalenti a circa 2500 anni fa.
Il Libro di Ester fa parte del canone biblico ed in occasione del Purim si legge pubblicamente. È un testo contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh) e cristiana (Vulgata). È scritto originariamente in ebraico e, secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata verso la fine del II secolo a.C. in Mesopotamia, probabilmente a Babilonia. È composto da 10 capitoli descriventi la storia dell'ebrea Ester, ragazza orfana, nipote di Mardocheo (Est 2:15), che diventa moglie del re persiano Assuero (V secolo a.C.) e salva il popolo ebraico dai complotti del malvagio ministro Aman. La traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta contiene una versione del libro ebraico, redatta probabilmente ad Alessandria nel II-I secolo a.C., con alcune aggiunte di carattere meraviglioso/miracoloso.
L'opera si apre "nell'anno secondo del regno di Assuero, il Gran Re", identificato dai commentatori con Serse I, benché siano state proposte da alcuni anche altre ipotesi.
Il prologo, conservato solo nel testo greco, introduce la figura di Mardocheo, giudeo della tribù di Beniamino che vive a Susa, capitale dell'impero persiano e residenza invernale dei Re dei Re a partire dal regno di Dario I. Egli sogna due draghi che con il loro sibilo inducono i popoli a combattere contro il "popolo dei giusti". Questo sogno premonitore lascia intendere come sui Giudei stia per abbattersi una grave sciagura.
Nel primo capitolo il re Assuero manda a chiamare la sua sposa, la regina Vasti, personaggio di cui non si hanno notizie al di fuori della Bibbia, ma questa è intenta a festeggiare nel gineceo e non obbedisce. Allora Assuero la ripudia e si cerca una nuova sposa. La scelta cade sulla giudea Adassa, di cui Mardocheo è tutore, essendo figlia di un suo zio. Ma Assuero ignora che ella appartiene al popolo di Giuda, e la conosce come Ester e la elegge regina (Est. 2). Per i Giudei si avvicina uno dei momenti peggiori della loro storia, giacché Aman, il perfido ministro del re, di stirpe Agaghita, odia Mardocheo per il fatto che non vuole prostrarsi a lui né rendergli omaggio. Nel terzo capitolo del libro Aman concepisce un piano mostruoso: adoperando il sigillo imperiale che il sovrano gli ha affidato, firma un editto che ordina lo sterminio totale di tutti i Giudei che si trovino all'interno del regno di Assuero. Nel quarto capitolo, Mardocheo viene a sapere del complotto, si straccia le vesti e si lamenta con alte grida. Passato il momento della disperazione, tuttavia, chiede ad Ester, la giudea di più alto grado in tutto l'impero, di intercedere presso il sovrano affinché ritiri l'editto. Ma nessuno, pena la morte, può presentarsi al re senza prima essere convocato (l'usanza registrata in Est. 4:11 non è un'invenzione biblica, anche se appare improbabile che venisse applicata anche alla sposa reale). Allora Ester, dopo aver chiesto a Mardocheo che tutti i Giudei digiunino per lei per tre giorni, si veste a lutto e prega il suo Dio di venirle in soccorso; la lunghissima preghiera è riportata nel testo greco, ed insiste sul peccato commesso da Israele, che avrebbe scatenato la giusta punizione divina. Alla fine, nel capitolo quinto, Ester si presenta ad Assuero in tutta la sua bellezza. Il re, abbagliato, la tocca con lo scettro d'oro e le salva la vita; ella così può presentare la sua richiesta, che consiste in un invito a cena nei suoi appartamenti con il ministro Aman. Aman nel frattempo, con l'appoggio di amici e della moglie Zeres fa già innalzare il patibolo sui cui spera di far impiccare Mardocheo il giorno successivo. Nel capitolo sesto, Aman è costretto ad onorare pubblicamente l'odiato Mardocheo, dopo aver creduto di essere colui cui era destinato il pubblico trionfo. Ma gli eventi precipitano quando Ester, nel corso del banchetto, accusa Aman di aver condannato a morte tutti i Giudei, e quindi anche lei. Il sovrano monta su tutte le furie ed ordina di appendere Aman a quello stesso patibolo che aveva fatto innalzare per Mardocheo. Nel capitolo ottavo il tutore di Ester giunge al culmine degli onori, poiché viene fatto ministro al posto di Aman e gli viene consegnato il sigillo reale. Allora Mardocheo promulga un nuovo editto secondo cui ai Giudei è concesso di difendersi contro coloro che li attaccheranno, e spinge i Giudei a celebrare con banchetti lo scampato pericolo. Anche in questo caso il testo dell'editto è conservato solo nella versione greca. Nel capitolo nono avviene l'eccidio dei persecutori dei Giudei, perpetrato, con l'aiuto dei funzionari del re, in quello stesso giorno che era stato decretato per la loro rovina: il 13 di Adar. Da allora, secondo i dettami di Mardocheo, questo giorno viene ricordato dagli Ebrei come la festa di Purim, da Pur una parola non ebraica ma accadica (parlata dagli antichi babilonesi), cioè "oggetto per tirare a sorte", perché Aman aveva scelto tramite il lancio di questi oggetti il giorno in cui si sarebbe dovuto portare a termine il suo piano. Lo sterminio è presentato con numeri iperbolici; cadono vittime anche i dieci figli di Aman. Il tutto si conclude con un grande banchetto. Secondo le istruzioni di Ester, la validità dell'editto è prolungata di un giorno per poter completare l'opera di sterminio; ciò serve a giustificare perché nelle città la festa dei Purim era celebrata dal 13 al 15 di Adar, nelle campagne solo dal 13 al 14. Oggi la festa di Purim è celebrata con feste in maschera e, come già detto, corrisponde al nostro carnevale. Il capitolo decimo contiene l'epilogo del racconto.
Questa è la storia. Ma, ora, cerchiamo di capire meglio Ester. Secondo il Libro questa fanciulla di origini ebraiche si chiama Hadassa, nome ebraico che significa "mirto" (Est. 2:7). Quando entra nell'harem del re riceve il nome di Ester, che in assiro-babilonese significa "stella", "astro". Un Targum della tradizione ebraica spiega che ella era assai più bella della stella della notte. Questo nuovo nome deriva forse da un modo di chiamare il mirto da parte dei Medi (il nome è molto vicino alla radice della parola che indica la pianta in curdo o in persiano; inoltre il mirto produce un fiore a forma di stella). Altri studiosi lo fanno derivare dal nome della dea Isthar. In ebraico Estèr significa "io mi nasconderò". Infatti Estèr nasconde la sua vera identità di ebrea, per rivelarla al momento opportuno, quando si tratta di salvare gli Ebrei dalla strage fatta ordinare da Aman.
Ester è la figlia di Abicàil (Est. 2:15) della tribù di Beniamino, una delle due tribù che costituivano il Regno di Giuda prima della sua distruzione da parte dei babilonesi e la deportazione, nel 597, dell'elite del regno nelle province dell'impero persiano. Alla morte dei genitori è adottata dal cugino Mardocheo il quale occupa una importante funzione amministrativa nel palazzo reale a Susa.
Ester appare nella Bibbia come una donna di grande pietà, caratterizzata dalla sua fede, dal suo coraggio, dal suo patriottismo, dalla sua prudenza e dalla sua risolutezza. Ella è fedele e obbediente a suo zio (o cugino) Mardocheo e compie il suo dovere di rappresentare il popolo giudaico e di ottenerne la salvezza. Nella tradizione giudaica è vista come "strumento" della volontà divina di impedire la distruzione del popolo giudaico, per proteggerlo e per assicurargli la pace durante l'esilio. Ma c’è qualcosa in lei che stride con un siffatto benevolo profilo: un opportunismo, un’astuzia, una crudeltà che sono propri delle donne che aspirano al potere e che quando lo hanno raggiunto sanno come non lasciarselo sfuggire. Sono tre gli episodi che ce la svelano completamente.
1. Avendo sentito che il re Assuero (normalmente identificato con il re persiano Serse) cerca una nuova sposa, Mardocheo fa partecipare la cugina Ester alle selezioni. “Egli aveva allevato Hadassa, cioè Ester), figlia di un suo zio, perché essa era orfana di padre e di madre. "La fanciulla era di bella presenza e di aspetto avvenente; alla morte del padre e della madre, Mardocheo l'aveva presa come propria figlia” (Est. 2:7). Non si poteva mai sapere: una giudea a corte, nella veste di favorita del re o addirittura di regina, avrebbe consolidato la sua posizione di funzionario ed avrebbe meglio garantito la sicurezza del suo popolo. I rituali di preparazione della selezione sono lunghi: “Quando veniva il turno per una fanciulla di andare dal re Assuero alla fine dei dodici mesi prescritti alle donne per i loro preparativi, sei mesi per profumarsi con olio di mirra e sei mesi con aromi e altri cosmetici usati dalle donne, la fanciulla andava dal re e poteva portare con sé dalla casa delle donne alla reggia quanto chiedeva. Vi andava la sera e la mattina seguente passava nella seconda casa delle donne, sotto la sorveglianza di Saasgaz, eunuco del re e guardiano delle concubine. Poi non tornava più dal re a meno che il re la desiderasse ed essa fosse richiamata per nome”. E il racconto prosegue: “Ester attirava la simpatia di quanti la vedevano. Ester fu dunque condotta presso il re Assuero nella reggia il decimo mese, cioè il mese di Tebèt, il settimo anno del suo regno. Il re amò Ester più di tutte le altre donne ed essa trovò grazia e favore agli occhi di lui più di tutte le altre vergini. Egli le pose in testa la corona regale e la fece regina al posto di Vasti” (Est. 2:15-18). Ester viene quindi scelta e diventa la sposa di Assuero. Ma è credibile che fu tutto merito della sua bellezza e delle sue capacità amorose? È verosimile che, com' è scritto, nessuno sapesse della sua parentela con Mardocheo, il prestigioso funzionario di Assuero? Non è vero, forse, che “la fanciulla piacque ad Egai”, l’eunuco preposto al raduno ed alla sorveglianza delle molteplici fanciulle che aspiravano al posto di favorita del re, e che “entrò nelle buone grazie di lui” (Est. 2:8-9); e che quando venne il suo turno di presentarsi al re si comportò esattamente come l’eunuco le aveva consigliato (Est. 2:15)? Ciò non fa pensare che nell’ambiente di corte la candidata Ester sia stata trattata come un “pacco raccomandato” e che il solo re ignorasse che fosse la figlia adottiva di Mardocheo?
2. Quando il primo ministro Haman decide di sterminare tutti i giudei del regno, Mardocheo, che ha sempre vegliato su Ester, la esorta a presentarsi al re per intercedere in favore dei propri connazionali. Ecco come entra in azione Ester. Inanzitutto prega il Signore e si procaccia il suo appoggio con un digiuno di tre giorni, durante i quali castiga i suoi costumi ed il suo corpo (Est. 4:17). Poi, sebbene fosse proibito con pena di morte accedere al re senza essere chiamati, depone le vesti da schiava che aveva indossato per la preghiera, “si copre di tutto il fasto del suo grado diventando splendente di bellezza”, prende con lei due ancelle e si presenta a lui, agendo con grande civetteria ed astuzia: “Su di una (delle ancelle) si appoggiava con apparente mollezza, mentre l'altra la seguiva tenendo sollevato il mantello di lei. Appariva rosea nello splendore della sua bellezza e il suo viso era gioioso, come pervaso d'amore, ma il suo cuore era stretto dalla paura. Attraversò una dopo l’altra tutte le porte, si trovò alla presenza del re. Egli era seduto sul trono regale, vestito di tutti gli ornamenti maestosi delle sue comparse, tutto splendente di oro e di pietre preziose, e aveva un aspetto molto terribile. Alzò il viso splendente di maestà e guardò in un accesso di collera. La regina si sentì svenire, mutò il suo colore in pallore e poggiò la testa volse a dolcezza lo spirito del re ed egli, fattosi ansioso, balzò dal trono, la prese fra le braccia, sostenendola finché non si fu ripresa, e andava confortandola con parole rasserenanti, dicendole: «Che c'è, Ester? Io sono tuo fratello; fatti coraggio, tu non devi morire. Il nostro ordine riguarda solo la gente comune. Avvicinati!». Alzato lo scettro d'oro, lo posò sul collo di lei, la baciò e le disse: «Parlami!». Gli disse: «Ti ho visto, signore, come un angelo di Dio e il mio cuore si è agitato davanti alla tua gloria. Perché tu sei meraviglioso, signore, e il tuo volto è pieno d'incanto». Ma mentre parlava, cadde svenuta; il re s'impressionò e tutta la gente del suo seguito cercava di rianimarla. Allora il re le disse: «Che vuoi, Ester, qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, l'avrai!». Ester rispose:«Se così piace al re, venga oggi il re con Aman al banchetto che gli ho preparato». Il re disse: «Convocate subito Aman, per far ciò che Ester ha detto». Il re andò dunque con Aman al banchetto che Ester aveva preparato” (Est. 5:1-7). Un capolavoro di arte scenica il malessere e lo svenimento! Il re ci casca, anche perché l’accettazione di un invito conviviale gli pare poca cosa rispetto a mezzo regno che le aveva offerto. E ci casca anche Aman, che si sente lusingato dell’invito che il re gli ha prontamente girato. Ma il piano di Ester è raffinato : durante la cena ancora non dice al re, che reitera la generosa offerta della metà del regno, quali sono il suoi desiderata: promette invece di rivelarli in un nuovo banchetto che preparerà loro per l’indomani. Vuole mantenere alta la tensione. Ed infatti, durante il secondo banchetto, nel momento più euforico (“mentre si beveva il vino”) avviene la rivelazione. Seguiamo il testo: “Il re e Aman andarono dunque al banchetto con la regina Ester. Il re anche questo secondo giorno disse a Ester, mentre si beveva il vino: «Qual è la tua richiesta, regina Ester? Ti sarà concessa. Che desideri? Fosse anche la metà del regno, sarà fatto!». E finalmente Ester corona il sogno di rivelare l’imbroglio di Aman: “Allora la regina Ester rispose: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, o re, e se così piace al re, la mia richiesta è che mi sia concessa la vita e il mio desiderio è che sia risparmiato il mio popolo. Perché io e il mio popolo siamo stati venduti per essere distrutti, uccisi, sterminati. Ora, se fossimo stati venduti per diventare schiavi e schiave, avrei taciuto; ma il nostro avversario non potrebbe riparare al danno fatto al re con la nostra morte». Subito il re Assuero disse alla regina Ester: «Chi è e dov'è colui che ha pensato di fare una cosa simile?». Ester rispose: «L'avversario, il nemico, è quel malvagio di Aman». Allora Aman fu preso da terrore alla presenza del re e della regina. Il re incollerito si alzò dal banchetto e uscì nel giardino della reggia, mentre Aman rimase per chiedere la grazia della vita alla regina Ester, perché vedeva bene che da parte del re la sua rovina era decisa” Ad aggravare la situazione il re rientra e vede che: “Aman si era prostrato sul divano sul quale si trovava Ester. Allora il re esclamò: «Vuole anche far violenza alla regina, davanti a me, in casa mia?». Non appena questa parola fu uscita dalla bocca del re, posero un velo sulla faccia di Aman (un simbolo di morte)” (Est. 7:1-8). Ed ecco il finale: “Carbonà, uno degli eunuchi, disse alla presenza del re: «Ecco, è stato perfino rizzato in casa di Aman un palo alto cinquanta cubiti, che Aman ha fatto preparare per Mardocheo, il quale aveva parlato per il bene del re». Il re disse: «Impiccatevi lui!». Così Aman fu impiccato al palo che aveva preparato per Mardocheo. E l'ira del re si calmò” (Est. 7: 8-10). Naturalmente la cosa non finisce lì. Ester riceve Immediatamente in regalo la casa di Aman, Mardocheo, finalmente noto come parente di Ester, viene fatto primo ministro al posto di Aman, Assuero revoca l’editto contro i giudei e li autorizza a difendersi con le armi in ogni luogo del suo regno contro qualsiasi popolo assalitore (Est. 8: 1-12). Ma quanta tempestività e sottile arguzia politica di Ester nel far percepire al re il danno che egli avrebbe subito dalla morte di tutti i suoi sudditi di etnia ebrea.
3. Oramai i Giudei, ricevendo man forte dai capi, dai governatori e dai satrapi del re, avevano fatto, in un solo giorno, gran strage dei loro nemici in tutte le province di Assuero : ne avevano passato a fil di spada cinquecento nella sola cittadella di Susa. Anche i dieci figli di Aman erano stati messi a morte. Lo stesso Assuero lo aveva comunicato ad Ester e le aveva chiesto : “Ora che chiedi di più? Ti sarà dato. Che altro desideri? Sarà fatto” (Est. 9:1-12). Una qualsiasi altra donna di indole pacifica avrebbe risposto “Basta allo sterminio, allo scorrimento del sangue, sia pace”. E invece Ester: “Se così piace al re, sia permesso ai Giudei che sono a Susa di fare anche domani quello che era stato decretato per oggi; siano impiccati al palo i dieci figli di Aman”. E fu una nuova strage. I figli di Aman furono appesi al palo, a Susa furono uccisi altri trecento uomini, nelle province altri settantacinquemila (Est. 9: 13-16). Ester, da sanguinaria, volle fare piazza pulita dei nemici, Poi furono gioia, banchetti e feste.

SUSANNA, una moglie casta, ma impudica ed imprudente. Così il capitolo 13 (1-64) del libro di Daniele racconta la storia di Susanna: “A Babilonia viveva un uomo che si chiamava Ioakìm. Egli sposò una donna di nome Susanna, figlia di Chelkìa, molto bella e timorata del Signore. I suoi genitori erano giusti e avevano educato la loro figlia secondo la legge di Mosè. Ioakìm era molto ricco e possedeva un giardino attiguo alla sua casa; presso di lui si riunivano i Giudei, perché era il più ragguardevole di tutti. In quell'anno erano stati designati giudici due anziani del popolo: erano di quelli di cui il Signore ha detto: «È uscita l'empietà da Babilonia da parte dei giudici anziani, che solo all'apparenza governano il popolo». Essi frequentavano la casa di Ioakìm e tutti coloro che avevano qualche causa venivano da loro. Quando poi il popolo sul mezzogiorno si ritirava, Susanna usciva per passeggiare nel giardino di suo marito. I due anziani la vedevano ogni giorno quando usciva a passeggiare e furono presi dalla passione per lei. Essi persero la testa e abbassarono gli occhi in modo da non veder più il cielo e da non ricordarsi più dei suoi giusti giudizi. Ambedue erano dunque presi di lei, ma non si comunicavano l'un l'altro il proprio affanno, perché avevano vergogna a manifestare il loro desiderio di accoppiarsi con lei, ma ogni giorno spiavano libidinosamente l'occasione di vederla. Una volta dissero l'un l'altro: «Andiamo a casa, che è ora del pranzo!». E usciti, si separarono. Ma tornati sui loro passi, si ritrovarono allo stesso posto e cercando di spiegarsene il motivo confessarono la propria passione. Allora di comune accordo fissarono il momento quando avrebbero potuto trovarla sola. Or avvenne che, mentre attendevano un giorno opportuno, Susanna entrò come al solito, con due sole fanciulle, desiderando di fare il bagno nel giardino, perché faceva caldo. Ora, quando le fanciulle furono partite, i due vecchi sbucarono fuori, corsero da lei e dissero: «Ecco, le porte del giardino sono chiuse, nessuno ci vede e noi ti desideriamo. Acconsenti dunque e datti a noi. Altrimenti noi testimonieremo contro di te che con te c'era un giovane e che per questo hai fatto uscire le fanciulle». Susanna sospirò e disse: «Per me non c'è scampo da nessuna parte! Ma per me è preferibile cadere nelle vostre mani piuttosto che peccare davanti al Signore!». Susanna gridò a voce alta, ma gridarono anche i due vecchi contro di lei; poi uno andò di corsa ad aprire le porte del giardino. Quando i vecchi ebbero raccontato la loro storia, i familiari rimasero molto addolorati, perché mai era stata raccontata una cosa del genere riguardo a Susanna. Il giorno seguente, quando il popolo si radunò in casa di suo marito Ioakìm, vennero anche i due vecchi, fermi nell'iniquo proposito contro Susanna per mandarla a morre. Alzatisi in mezzo al popolo, posero le mani sopra la sua testa, mentre ella, piangendo, volse lo sguardo verso il cielo, poiché il suo cuore aveva fiducia nel Signore. I vecchi dissero: «Mentre passeggiavamo soli nel giardino, costei entrò con due ancelle, poi chiuse le porte, dopo aver fatto uscire le fanciulle. Allora si avvicinò a lei un giovane, che era nascosto e si adagiò accanto a lei. Di questo noi siamo testimoni!». L'assemblea credette loro, perché erano anziani del popolo e giudici e la condannarono a morte. Ma Susanna gridò a gran voce e disse: «Dio eterno, che conosci quello che è nascosto e sai tutte le cose prima che avvengano, tu sai che costoro hanno testimoniato il falso contro di me!». Il Signore intese la sua voce. E mentre costei veniva condotta via per essere uccisa, Dio suscitò il santo spirito di un giovanetto, di nome Daniele, che a gran voce gridò: «Siete così stolti, figli d'Israele? Senza aver istruito il processo e senza aver conosciuto la verità, avete condannato una figlia d'Israele! Tornate al luogo del giudizio! Essi infatti hanno testimoniato il falso contro costei!». Allora tutto il popolo in fretta tornò indietro. Daniele disse loro: «Teneteli molto distanti l'uno dall'altro e io li interrogherò!». Quando furono separati l'uno dall'altro, ne chiamò uno e gli disse: «o uomo invecchiato nel male, se hai visto costei, di': Sotto quale albero li hai visti discorrere insieme?». Quello rispose: «Sotto un'acacia!». Dopo averlo rimandato indietro, ordinò di far venire l'altro. Gli disse: «Stirpe di Canaan e non di Giuda, la bellezza ti ha traviato e la passione ha pervertito il tuo cuore. Così facevate alle figlie d'Israele ed esse per paura avevano rapporti con voi. Ma una figlia di Giuda non ha subito la vostra iniquità. Or dunque, dimmi: Sotto quale albero li hai sorpresi a discorrere insieme?». Egli rispose: «Sotto un pruno!». Daniele aggiunse: «Anche tu hai mentito contro la tua stessa testa!». Allora tutta l'assemblea alzò un grido e benedisse Dio che salva coloro che confidano in lui. Poi si rivolsero verso i due vecchi, perché Daniele liaveva convinti dalla loro stessa bocca di aver testimoniato il falso, e fecero loro quello che essi avevano ordinato contro il prossimo. Per eseguire la legge di Mosè li uccisero e così in quel giorno fu salvato sangue innocente. Chelkìa e sua moglie resero grazie a Dio per la figlia Susanna insieme con il marito Ioakìm e tutti i suoi parenti , per non aver trovato in lei nulla di che men onesto. Da quel giorno in poi Daniele divenne grande di fronte al popolo”.
Susanna è la bellezza, la chiude in sé, come un fiore il suo profumo, è il “giglio” (shûshan, in ebraico), di cui porta il nome, che odora in purità, ma ciò che emana da lei può accecare e bruciare. Come donna bella è oggetto del desiderio maschile dei due anziani giudici, ed è perciò contrattata, ricattata, accusata, condannata. La bellezza di Susanna è esca per un fuoco che non è spirituale e nasce nel grembo del desiderio sessuale. Lo ignora Susanna? È lei del tutto priva di malizia ed è totalmente innocente?
Il racconto di Susanna è un testo greco composto verso la metà del II secolo a.C. da un autore ebreo anonimo e rappresenta un aggiunta al testo del Libro di Daniele della Septuaginta, conservato poi nella Vulgata e nella tradizione cattolica. Il testo però non è tratto dalla fonte diretta, ma da scrittori intermediari, quale ad esempio un tale Teodozio. Ebbene, costui – un proselito giudeo di Efeso, personaggio colto e scrittore al tempo dell'imperatore Commodo – è tra i primi ad enfatizzare con accenti erotici la vicenda di Susanna (sottolinea, per esempio, il bagno che Susanna fa nell’ora più calda del giorno). Più tardi, Lucrezia Tornabuoni, moglie di Pietro de’ Medici e madre del grande Lorenzo, scrisse un poemetto in cui riporta con molta malizia l’incontro di Susanna con i due anziani giudici. Questo poemetto influenzò moltissimo la rappresentazione pittorica che nel Cinquecento e nel Seicento, ad opera dei grandi maestri del pennello, si esercitò sull’episodio in un fiorire di sguardi, nudità, ammiccamenti, visi bavosi. Orbene, tutto ciò prova che nel racconto originario si avverte un’atmosfera di diffusa sensualità. Perché mai? Perché Susanna, che è indubbiamente moglie onorata e madre sacra, che è donna timorata di Dio, che è sposa che ha abbracciato la pratica della “castità coniugale” (consistente, secondo S. Agostino, nella virtù di giacere con il marito osservando temperanza e continenza) è anche donna di “rara bellezza”, “delicata” ed “avvenente di forme”, abituata agli agi della sua ricca casa, dotata di giardino esclusivo, dove ella ama passeggiare e fare il bagno nuda, quando il popolo, verso mezzogiorno, sbrigati gli affari giudiziari, se ne va; e nel compiacersi di tali abitudini non si preoccupa minimamente che qualche guardone possa spiarla e caricarsi di voglie audaci. Leggerezza o civetteria? Di certo l’avremmo preferita più cauta e più guardinga. Se con maggiore avvedutezza si fosse comportata, i “vecchioni” del racconto, per legge di natura deboli e vulnerabili davanti alle candide procaci grazie di una giovane donna, non avrebbero ceduto alla cupidigia e non si sarebbero macchiati dell’abietta macchinazione. Meno male che il Signore, tramite Daniele, ci mise una pezza e riuscì a far revocare la sua condanna a morte.