martedì 26 febbraio 2013

LA VERA STORIA DELLA CASTA SUSANNA


«Posso resistere a tutto tranne che alla tentazione. Il solo mezzo per liberarsi dalla tentazione è cederle».
Così ironizzava (ma non troppo) lo scrittore inglese Oscar Wilde (1854-1900) esplicitando a parole un comportamento che molti nascostamente praticano e praticavano anche in tempi meno sospetti. Come dice Gianfranco Ravasi, soltanto Cristo seppe resistere nel deserto alle tentazioni di Satana senza cedimenti di sorta. E come vorrebbe dimostrare una vicenda biblica che voglio riproporre: essa è narrata in una pagina di straordinaria vivacità letteraria, che vede come protagonista e vittima una splendida donna ebrea, Susanna (è il nome di un fiore, tra l'altro caro al Cantico dei cantici, da alcuni identificato con il giglio rosso, da altri con l'anemone o persino con il loto).

La storia è da leggere nel testo del capitolo 13 del libro ve-terotestamentario di Daniele, una pagina che ci è giunta solo nella versione greca della Bibbia.

"1 Abitava in Babilonia un uomo chiamato Ioakìm, 2 il quale aveva sposato una donna chiamata Susanna, figlia di Chelkìa, di rara bellezza e timorata di Dio. 3 I suoi genitori, che erano giusti, avevano educato la figlia secondo la legge di Mosè. 4 Ioakìm era molto ricco e possedeva un giardino vicino a casa ed essendo stimato più di ogni altro i Giudei andavano da lui. 5 In quell'anno erano stati eletti giudici del popolo due anziani: erano di quelli di cui il Signore ha detto: «L'iniquità è uscita da Babilonia per opera di anziani e di giudici, che solo in apparenza sono guide del popolo». 6 Questi frequentavano la casa di Ioakìm e tutti quelli che avevano qualche lite da risolvere si recavano da loro. 7 Quando il popolo, verso il mezzogiorno, se ne andava, Susanna era solita recarsi a passeggiare nel giardino del marito. 8 I due anziani che ogni giorno la vedevano andare a passeggiare, furono presi da un'ardente passione per lei: 9 persero il lume della ragione, distolsero gli occhi per non vedere il Cielo e non ricordare i giusti giudizi. 10 Eran colpiti tutt'e due dalla passione per lei, 11 ma l'uno nascondeva all'altro la sua pena, perché si vergognavano di rivelare la brama che avevano di unirsi a lei. 12 Ogni giorno con maggior desiderio cercavano di vederla. Un giorno uno disse all'altro: 13 «Andiamo pure a casa: è l'ora di desinare» e usciti se ne andarono. 14 Ma ritornati indietro, si ritrovarono di nuovo insieme e, domandandosi a vicenda il motivo, confessarono la propria passione. Allora studiarono il momento opportuno di poterla sorprendere sola.15 Mentre aspettavano l'occasione favorevole, Susanna entrò, come al solito, con due sole ancelle, nel giardino per fare il bagno, poiché faceva caldo. 16 Non c'era nessun altro al di fuori dei due anziani nascosti a spiarla. 17 Susanna disse alle ancelle: «Portatemi l'unguento e i profumi, poi chiudete la porta, perché voglio fare il bagno». 18 Esse fecero come aveva ordinato: chiusero le porte del giardino ed entrarono in casa dalla porta laterale per portare ciò che Susanna chiedeva, senza accorgersi degli anziani poiché si erano nascosti. 19 Appena partite le ancelle, i due anziani uscirono dal nascondiglio, corsero da lei e le dissero: 20 «Ecco, le porte del giardino sono chiuse, nessuno ci vede e noi bruciamo di passione per te; acconsenti e datti a noi. 21 In caso contrario ti accuseremo; diremo che un giovane era con te e perciò hai fatto uscire le ancelle». 22 Susanna, piangendo, esclamò: «Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me; se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani. 23 Meglio però per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore!». 24 Susanna gridò a gran voce. Anche i due anziani gridarono contro di lei 25 e uno di loro corse alle porte del giardino e le aprì.26 I servi di casa, all'udire tale rumore in giardino, si precipitarono dalla porta laterale per vedere che cosa stava accadendo. 27 Quando gli anziani ebbero fatto il loro racconto, i servi si sentirono molto confusi, perché mai era stata detta una simile cosa di Susanna.28 Il giorno dopo, tutto il popolo si adunò nella casa di Ioakìm, suo marito e andarono là anche i due anziani pieni di perverse intenzioni per condannare a morte Susanna. 29 Rivolti al popolo dissero: «Si faccia venire Susanna figlia di Chelkìa, moglie di Ioakìm». Mandarono a chiamarla 30 ed essa venne con i genitori, i figli e tutti i suoi parenti. 31 Susanna era assai delicata d'aspetto e molto bella di forme; 32 aveva il velo e quei perversi ordinarono che le fosse tolto per godere almeno così della sua bellezza. 33 Tutti i suoi familiari e amici piangevano.34 I due anziani si alzarono in mezzo al popolo e posero le mani sulla sua testa. 35 Essa piangendo alzò gli occhi al cielo, con il cuore pieno di fiducia nel Signore. 36 Gli anziani dissero: «Mentre noi stavamo passeggiando soli nel giardino, è venuta con due ancelle, ha chiuse le porte del giardino e poi ha licenziato le ancelle. 37 Quindi è entrato da lei un giovane che era nascosto, e si è unito a lei. 38 Noi che eravamo in un angolo del giardino, vedendo una tale nefandezza, ci siamo precipitati su di loro e li abbiamo sorpresi insieme. 39 Non abbiamo potuto prendere il giovane perché, più forte di noi, ha aperto la porta ed è fuggito. 40 Abbiamo preso lei e le abbiamo domandato chi era quel giovane, ma lei non ce l'ha voluto dire. Di questo noi siamo testimoni». 41 La moltitudine prestò loro fede poiché erano anziani e giudici del popolo e la condannò a morte. 42 Allora Susanna ad alta voce esclamò: «Dio eterno, che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, 43 tu lo sai che hanno deposto il falso contro di me! Io muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me». 44 E il Signore ascoltò la sua voce.45 Mentre Susanna era condotta a morte, il Signore suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele, 46 il quale si mise a gridare: «Io sono innocente del sangue di lei!».47 Tutti si voltarono verso di lui dicendo: «Che vuoi dire con le tue parole?». 48 Allora Daniele, stando in mezzo a loro, disse: «Siete così stolti, Israeliti? Avete condannato a morte una figlia d'Israele senza indagare la verità! 49 Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di lei».50 Il popolo tornò subito indietro e gli anziani dissero a Daniele: «Vieni, siedi in mezzo a noi e facci da maestro, poiché Dio ti ha dato il dono dell'anzianità». 51 Daniele esclamò: «Separateli bene l'uno dall'altro e io li giudicherò». 52 Separati che furono, Daniele disse al primo: «O invecchiato nel male! Ecco, i tuoi peccati commessi in passato vengono alla luce, 53 quando davi sentenze ingiuste opprimendo gli innocenti e assolvendo i malvagi, mentre il Signore ha detto: Non ucciderai il giusto e l'innocente. 54 Ora dunque, se tu hai visto costei, di': sotto quale albero tu li hai visti stare insieme?». Rispose: «Sotto un lentisco». 55 Disse Daniele: «In verità, la tua menzogna ricadrà sulla tua testa. Già l'angelo di Dio ha ricevuto da Dio la sentenza e ti spaccherà in due». 56 Allontanato questo, fece venire l'altro e gli disse: «Razza di Canaan e non di Giuda, la bellezza ti ha sedotto, la passione ti ha pervertito il cuore! 57 Così facevate con le donne d'Israele ed esse per paura si univano a voi. Ma una figlia di Giuda non ha potuto sopportare la vostra iniquità. 58 Dimmi dunque, sotto quale albero li hai trovati insieme?». Rispose: «Sotto un leccio». 59 Disse Daniele: «In verità anche la tua menzogna ti ricadrà sulla testa. Ecco l'angelo di Dio ti aspetta con la spada in mano per spaccarti in due e così farti morire».60 Allora tutta l'assemblea diede in grida di gioia e benedisse Dio che salva coloro che sperano in lui. 61 Poi insorgendo contro i due anziani, ai quali Daniele aveva fatto confessare con la loro bocca di aver deposto il falso, fece loro subire la medesima pena alla quale volevano assoggettare il prossimo 62 e applicando la legge di Mosè li fece morire. In quel giorno fu salvato il sangue innocente. 63 Chelkìa e sua moglie resero grazie a Dio per la figlia Susanna insieme con il marito Ioakìm e tutti i suoi parenti, per non aver trovato in lei nulla di men che onesto. 64 Da quel giorno in poi Daniele divenne grande di fronte al popolo."

La Storia di Susanna è un racconto in greco composto verso la metà del II secolo a.C. da un autore ebreo anonimo, forse basato su un prototesto ebraico perduto. Rappresenta un' aggiunta del testo del Libro di Daniele della Septuaginta rispetto alla versione ebraica del testo masoretico, conservata poi nella Vulgata e nella tradizione cattolica. È, quindi, un testo deuterocanonico, non compreso nella Bibbia ebraica e protestante che lo considerano del tutto apocrifo.
Nel III secolo, Origene di Alessandria scrisse che il racconto di Susanna era «presente in ogni chiesa di Cristo nella copia greca che è in uso presso i Greci». Nel momento in cui Origene scrisse questo, tuttavia sembra che non molti ebrei leggessero Susanna, almeno non come Sacra Scrittura. Anche se il racconto aveva chiaramente fatto parte della prima forma semitica del libro (probabilmente scritta in aramaico più che in ebraico, come per la maggior parte del libro di Daniele) che è stato tradotto dai Settanta, esso non è contenuto in nessuna delle sette copie semitiche di Daniele scoperte tra i rotoli del Mar Morto. Inoltre, non si trova né negli scritti di Giuseppe Flavio del I secolo, né nella traduzione del II secolo delle Scritture ebraiche da parte dell’ebreo Aquila. Abbiamo l’ulteriore testimonianza di Girolamo, che parlava di un critico ebreo che considerava la storia di Susanna un frutto della narrativa greca.
Quanto al perché il racconto di Susanna non fosse più presente nel canone rabbinico delle Sacre Scritture, Ippolito a Roma e Origene in Egitto esprimevano una comune visione cristiana del III secolo, avanzando una spiegazione piuttosto semplicistica. La ragione per cui la storia di Susanna non era stata inclusa nel canone, dicevano, era che il canone più recente era stato stabilito dagli anziani ebrei, i quali non avrebbero visto di buon occhio un racconto che dipingeva come cattivi due di loro!

Una delle vittime della decisione di Lutero di limitare i libri dell’Antico Testamento a quelli contenuti nel canone rabbinico fu certamente la drammatica e avvincente storia di Susanna.. Per i protestanti, la storia di Susanna, insieme a tutti gli altri brani dell’Antico Testamento non contenuti nel canone ebraico/aramaico, fu messa in quelli che divennero noti come “testi apocrifi”, facendo in modo che molti cristiani, in epoche successive, l’avrebbero presa meno sul serio e l’avrebbero letta, probabilmente, meno spesso. Non è esagerato dire che tutte le generazioni di cristiani prima di Lutero e la maggior parte dei cristiani, anche dopo di lui, erano a conoscenza del racconto biblico.
V’è da aggiungere che la fonte originaria della storia di Susanna non è conosciuta con certezza. Forse esisteva anche uno scritto ebraico dedicato a Susanna, ma allo stato attuale il testo è tratto da scrittori intermediari, quale Teodozio. Di questo personaggio colto si conosce poco; era probabilmente un proselito giudeo di Efeso, autore al tempo di Commodo - poco prima della fine del II secolo - di una revisione della Bibbia greca dei Settanta (che era utilizzata da ebrei e cristiani). È tra i primi a enfatizzare con accenti erotici il racconto di Daniele: sottolinea, per esempio, il bagno nell' ora più calda del giorno, indulge sulle grida della donna quando i due anziani fanno le loro richieste e così di seguito. Va detto che il nome di Susanna (la Sousánna greca dei Settanta) ha già il destino nella sua radice: deriverebbe dall' ebraico shûshan, che significa giglio, vale a dire il simbolo della purezza (per essere precisi occorre notare che il fiore era shûshanna, forse forma aramaizzata in na). Inoltre gli anziani del racconto, che soprattutto la tradizione pittorica raffigurerà come dei vecchi («Susanna e i vecchioni» diventa una frase ricorrente anche nel parlato comune), sono stati intesi come dei libidinosi avanti negli anni, pur essendo dei notabili che sedevano nelle assemblee, autorevoli e ascoltati. Insomma «perfidi anziani », ma vere guide delle comunità ebraiche esiliate: così, per esempio, si rileva in alcuni passi del profeta Ezechiele (Ez, 8,1; 14,1; 20,1).
Dopo che Origene, nel suo famoso "Hexapla", mise la traduzione piuttosto recente di Daniele fatta da Teodozio (fine II secolo) in parallelo con quella dei Settanta, i lettori cristiani iniziarono a confrontare le due traduzioni e preferirono quella di Teodozio. Così, nonostante l’autorità tradizionale e venerabile di cui la Septuaginta goda nella Chiesa, la traduzione di Teodozio venne a prevalere tra i copisti cristiani quando trascrissero il Libro di Daniele.
La versione di Teodozio fu poi adottata come versione di Daniele nel lezionario liturgico bizantino e la traduzione latina (Vulgata) del Daniele di Teodozio fu incorporata nel lezionario romano. Fu talmente grande il dominio di Teodozio che l’antica traduzione che i Settanta fecero di Daniele quasi scomparve e non se ne conosceva alcuna copia fino alla scoperta del Christianus Codex nel 1772. Allo stesso modo, fu la traduzione teodoziana di Daniele a essere tradotta in quasi tutte le altre versioni cristiane antiche (siriaco peshitta, copto boharico e sahidico, etiope, armeno, arabo e slavone). Stessa cosa accadde con quasi tutte le traduzioni moderne. Inoltre, se i due racconti sono messi a paragone, quello di Teodozio è estremamente più colorito e dettagliato. Quindi, non c’è da meravigliarsi che i copisti cristiani preferissero la resa teodoziana di Susanna.

Nel Quattrocento Lucrezia Tornabuoni, moglie di Pietro de’ Medici e madre del grande Lorenzo, scrisse, tra l'altro, cinque poemetti a sfondo biblico ("Le storie sacre"): uno di essi fu dedicato al racconto malizioso dell’incontro fra Susanna e i due vecchioni. La continua diffusione di quest’opera negli ambienti umanistici e rinascimentali ha deteminato una vasta e riconoscibile influenza sui modi della rappresentazione pittorica della vicenda in essa raccontata. Soprattuto, l’immaginario della seduzione e della castità o, meglio, del contrasto intrigante fra eros e santità, che il poemetto ha finito col suscitare, si è riverberato a lungo attra-verso una trama sottile di suggestioni fantastiche e di connessioni culturali iconografiche.
Per il suo carattere edificante ed il lieto fine che lo caratterizza, l'episodio della casta Susanna era già divenuto un tema ricorrente fin dalla primissima iconografia catacombale (a significare la salvezza e la resurrezione finali dei credenti). Sulle pareti delle catacombe romane si trovano sei icone murali tratte dalla storia di Susanna, la prima delle quali risale all’ inizio del II secolo. Inoltre, sono state ritrovate sette scene riguardanti la stessa storia operate in bassorilievo sui sarcofagi cristiani dei primi secoli in Italia e in Gallia.
Dopo la pubblicazione del poemetto della Tornabuoni la iconografia della vicenda esplode fra i grandi pittori del XVI e nel XVII, forse anche perché, oltre all'esempio di virtù, permetteva di mostrare un nudo femminile.
Indubbiamente l'arte ha soprattutto immortalata Susanna nuda durante il bagno, sotto lo sguardo pieno di voglia dei due vecchioni. D' altra parte, quella scena, pur non isolata dal resto dei fatti, colpì già coloro che ci lasciarono il più antico ciclo pittorico della storia, vale a dire le due lunghe pareti della cosiddetta Cappella Greca nel cimitero di Priscilla a Roma. Certo, l' episodio dei guardoni nel Cinquecento e nel Seicento diventa il più dipinto, a cominciare dagli affreschi del Pinturicchio (fine secolo XV) realizzati nell' appartamento Borgia di Palazzo Vaticano. Poi fu tutto un rifiorire di sguardi, di nudità, di ammiccamenti, di voglie, di visi bavosi: da Lorenzo Lotto a Jacopo Tintoretto, da Paolo Veronese a Rubens, da Jacopo Bassano a Guido Reni, da Gherardo delle Notti ad Artemisia Gentileschi, fino alla versione ottocentesca di Francesco Hayez, che elimina del tutto i vecchioni per lasciare solo il nudo. Impossibile elencarli tutti.
E la musica, anche se mai conobbe un vero capolavoro dedicato alla più celebre calunniata della storia, ha lasciato a sua volta innumerevoli opere, a cominciare da "La Susanna" di Giovan Battista Borri (Bologna tra il 1665 e il 1688) all' omonimo oratorio di Händel, dall' operetta ammiccante "Suzanne et les vieillards" di Charles Moulins (Saint-Quentin, dicembre 1893) alla farsa "Susanne im Bade" di Fritz Redl (Mannheim 1911), via via sino al dramma "Susannah" di Carlisle Floyd (Tallhassee, Florida 1955), che è una rielaborazione in chiave moderna e in ambiente americano della vicenda biblica, dove la donna, alla fine dei fatti, rimane però sola e amareggiata con il fucile in mano.
La storia di Susanna diventerà anche il tema di una canzone, che fu in voga mezzo secolo fa, diffusa in Italia con strofe rimate e con un celebre ritornello: «Oh Susanna non piangere perché/ ho lasciato l' Alabama/ per restare accanto a te». Della vicenda biblica queste semplici parole conservano un riflesso: una lacrima, una gioia che si intravede, una promessa, forse quella redenzione terrena che acco-stiamo alla bellezza.

La vicenda di Susanna, nell'epoca della secolarizzazione o della desacrazione del sacro, merita di essere riletta e, forse, completata con il senno della post-modernità..
Come si è visto, Susanna è divenuta sin dai primi secoli del cristianesimo emblema di castità. La sua figura viene utilizzata da Ambrogio per offrire un supporto scritturistico alle tematiche della speculazione filosofica neoplatonica, incentrate sull'emanazione dell'anima dall'Uno e sul suo ricongiungimento con l'Uno attraverso il silenzio.
Nell'ermeneutica ambrosiana la figura biblica di Susanna, in armonia con la tradizione, conserva la funzione di esempio di castità nella sfera etica e si arricchisce della connotazione dell'exemplum all'interno della visione neoplatonica. È proprio in questa nuova dimensione che si può constatare lo sforzo fatto da Ambrogio per trasformare in senso cristiano i dati fondamentali della cultura classica.
Girolamo la chiamò la donna “nobile nella fede”, e fu descritta da Cromazio di Aquileia come “quella donna nobilissima”. Ad ornarle i capo – disse Ippolito – erano “fede, castità e santità.” Fedele ai voti del suo matrimonio, fu ripetutamente presa da Ambrogio e da altri come genuino modello della castità matrimoniale.
Zeno di Verona affermò che Susanna considerava la castità più preziosa della sua stessa vita. Temeva la vergogna più della morte; invero, la sola morte che temeva era la morte dell’anima a causa del peccato, scrisse Girolamo. Teodoreto di Ciro la esaltò per aver scelto saggiamente e coraggiosamente con coscienza. «Nel senso evangelico», scrisse Ippolito «Susanna disprezzò coloro che potevano uccidere il corpo, in modo che potesse salvare la sua anima dalla morte». Così, Stefano di Grandmont osservò che Dio, salvando Susanna dal peccato, le mostrò una grazia ancora maggiore rispetto al salvarla dalla morte.

Ora, c'è da domandarsi : perchè il personaggio Susanna ha conservato nel corso dei secoli questa fama di "castità", enormemente enfatizzata dall'apologetica cristiana? E' una fama la sua veramente meritata?
Intanto, osservo che alla stregua del testo biblico ella è definita "donna di rara bellezza e timorata di Dio" (Dn, 13, 1), ovvero "delicata di aspetto e molto bella di forma" (Dn, 13, 31): dunque, è testualmente raccontata come una donna molto avvenente e, senza dubbio, "pia" e "virtuosa", ma non anche "casta". L'anonimo ebreo di lingua greca evidentemente sapeva ciò che scriveva. Non poteva infatti attribuire a Susanna la condizione di donna casta, perché il sostantivo greco "agnòtes" e l'aggettivo "agnòs", entrambi derivati dal verbo "àzomai", esprimevano il concetto di "purezza" e "innocenza", di certo in riferimento alla pratica del sesso; e non potevano essere perciò usati nei confronti di una donna molto avvenente, sposata e con figli (Dn, 13, 30).
Gli è che per i cristiani cattolici si è "casti" non solo quando si pratica l'astinenza dal sesso fuori dal matrimonio, ma anche quando nel matrimonio la donna pratica il sesso con temperanza e continenza, e. soprattutto, con assoluta fedeltà verso il proprio sposo. Per i cattolici, infatti, tutti sono chiamati alla castità, non solo i monaci, le suore ed i preti, ma anche chi non abbia contratto matrimonio o chi l'abbia contratto. Un grande pasticcio, una grande confusione di idee e principi, probabilmente scaturita dal pensiero del grande Agostino che nello scritto "Dignità del matrimonio" affermò che “una casta sposa cristiana può  ereess santa nel corpo".

Ma c'è dell'altro che, a mio avviso, mette in crisi la supposta purezza ed innocenza di Susanna. D'altra parte il sospetto che Susanna la sapesse più lunga di quel che mostrava deve aver attraversato anche la mente dei grandi artisti del pennello che - lo si è già detto - insistentemente la ritrassero in pose abbastanza difformi da quelle che può assumere una donna "casta" e "timorata di Dio"; pose, ammiccanti e lascive, rappresentate con dovizia di anatomie intime. Ad esempio, nel quadro di Alessandro Allori (1561) Susanna appare addirittura compiacente verso i due viziosi vecchioni (v. immagine in alto).
Vediamolo quest' "altro", come lo si rileva da una più attenta ermeneutica del passo biblico.
In primis, quella costante abitudine di andare a passeggio nel giardino di casa, quando i giudici ed il popolo, dopo aver deliberato sulle liti giudiziarie, verso mezzogiorno se ne andavano. Ora, può darsi che quello fosse il momento più idoneo della giornata per godersi le piacevolezze di quel giardino, ma è anche ragionevole pensare che Susanna non poteva non essersi accorta che due vecchioni solevano attardarsi nei paraggi, rivolgendole la loro morbosa attenzione: ciò, infatti, accadeva "ogni giorno" (Dn, 13. 6-10). Quindi, sta a vedere che Susanna, bella e formosa, e naturalmente consapevole della sua avvenenza,  era anche un tantino civetta e si dilettava a provocare i giudici sporcaccioni, magari sculettando più del lecito nel suo incedere.
In secundis, la vecchiaia dei guardoni concupiscenti. Essi dovevano essere molto brutti e decrepiti di membra, se la donna potette dichiarare, al momento dell'ignobile ricatto, "Se cedo è la morte per me" (Dn., 13, 22). Morte dell'anima per aver aver disobbedito alla legge di Mosè o, piuttosto, morte del corpo, causata dal disgusto di una duplice congiunzione carnale indesiderata? Possiamo dirci certi che se si fosse trattato di un bel giovanetto, come appunto doveva essere Daniele, anziché degli sgradevoli vegliardi, Susanna si sarebbe rifiutata con altrettanta veemenza di "peccare davanti al Signore" (Dn, 13, 23)? Mettiamola così: un rifiuto a petto delle insinuanti proposte di un uomo giovane e piacevole avrebbe maggiormente avvalorato la cosiddetta castità di Susanna.
Infine, la di lei condotta processuale. A me pare che la sentenza di condanna inflittale in primo grado sia stata del tutto giusta. La moltidudine, cioè il popolo riunito in giuria, che era all'oscuro dei fatti, a fronte della testimonianza circostanziata degli accusatori ed a fronte dell'inspiegabile silenzio di Susanna, quale diversa decisione avrebbe potuto prendere? Susanna non dice una sola parola per difendersi, soltanto piange e prega dentro di sé. Alzerà la voce in preghiera solo dopo la pronuncia della sua condanna a morte (Dn, 13, 35, 41-42). Checché ne abbia pensato Ambrogio ("Rimanendo in silenzio ella vinse") ed il solito S. Agostino ("Mantenne il silenzio ma gridava di dolore nel cuore"), è mia opinione che Susanna abbia voluto rischiare troppo riponendo la sua sorte nelle mani del "Dio eterno" che conosceva sì la verità, ma i cui criteri di giustizia non sono mai stati molto lineari ed univoci nell'Antico Testamento.

Oppure Susanna sapeva di poter contare su Daniele? A questo punto, il discorso si fa più complesso.
Chi era Daniele? Molti biblisti dubitano della sua effettiva esistenza, considerandolo un personaggio meramente leggendario. Comunque, pare che sia stato l'ultimo dei quattro profeti detti maggiori. Giudeo, nato probabilmente a Gerusalemme da famiglia nobile, forse imparentata coi re di Giuda, appena adolescente sarebbe stato deportato a Babilonia da Nabucodonosor, insieme con altri giovani dello stesso rango sociale, nell'anno terzo o quarto di Ioakin, re di Giuda (606-605 a.C), dove, per la sua saggezza avrebbe conquistato la fiducia del re babilonese e sarebbe diventato funzionario di corte ed interprete dei sogni dello stesso re. Ma dal testo che si commenta si evince che la sua grandezza di uomo saggio e profetico si sia affermata dopo la vicenda di Susanna, poiché si legge che al tempo del processo a lei intentato Daniele era un giovanetto che il Signore volle ispirare e che soltanto dopo essere riuscito a salvare Susanna dalla ingiusta pena di morte divenne "grande di fronte al pololo" (Dn, 13, 45, 64).
Quindi, nel momento in cui dichiara di essere "innocente del sangue di lei" e spinge il popolo a tornare in tribunale perché i pefidi anziani "avevano deposto il falso contro una figlia d'Istraele", Daniele non era nessuno; era soltanto un giovanetto il cui "santo spirito" era stato "suscitato" dal Signore (Dn, 13, 43-46). Si badi: il Signore nulla dice a Daniele su come i fatti che erano stati portati al giudizio tribunalizio si erano realmente svolti. Si limita a suscitargli il "santo spirito", cioè, secondo il significato attribuito all'espressione dall'ermeneutica cristiana, il carisma profetico di cui il giovane Daniele era dotato.
Mi sembra strano: le profezie (dal greco ‘propheteia’) dell' Antica Alleanza  erano discorsi emanati su divina ispirazione che dichiaravano lo scopo di Dio, sia per rimproverare o ammonire i malvagi o per confortare gli afflitti, o per rivelare cose nascoste, specialmente per pronosticare i futuri eventi. Indub-biamente, il profeta ebraico aveva il compito, assegnatogli da Jahvè, di predire, di preconizzare l'avvenire. Daniele stesso nel capitolo 2 del libro a lui dedicato parla dei regni che avrebbero controllato e governato il Mediterraneo e le terre attorno ad esso (2, 31), e nel capitolo 9 predice la venuta del "Messia il Condottiero" indicando il tempo del suo avvento (9, 25). E mi sembra poco verosimile che il Signore, avendo ascoltato la preghiera di Susanna, si preoccupasse di stimolare le virtù profetiche di Daniele, anzi-ché illuminarlo sulla canagliata perpetrata dai vecchioni. Non era una profezia che necessitava in quel drammatico frangente, bensì una voce, una testimonianza capace di confutare la vile menzogna degli accusatori. Perciò, ritengo che quel “suscitargli il santo spirito” può meglio voler dire “risvegliare in lui la coscienza del giusto", "fargli sentire il santo dovere di rivelare una verità conosciuta".

Ma allora Daniele sapeva e Susanna sapeva che egli sapeva, donde in lei la fiducia che alla fine Daniele con la sua testimonianza l'avrebbe salvata? Perché no! Il giovane, appartenendo ad illustre famiglia giudea ed avendo l'ambizione di occupare durante la cattività babilonese un ruolo sociale all'altezza del suo rango, era certamente un frequentatore della casa del ricco Ioakim, attrezzata a tribunale. Pertanto, non è da escludere che godesse di una certa familiarità nell'ambiente e che questa gli consentisse di avere libero accesso al giardino di Susanna, più di quanto l'avesse il popolo chiamato a giudicare. Allo stesso modo, non mi sembra che possa escludersi che anche Daniele, vigoroso ed ardente adolescente giudeo, attratto dalle grazie di Susanna, si dilettasse a sbirciarla quand'ella andava a passeggio e, forse, a guardarla quando si bagnava nuda nella vasca del giardino. Va de sé supporre che Susanna si fosse ben accorta degli sguardi ammirati del giovane giudeo.

Dunque. è ben credibile che Daniele, quel giorno sfortunato, si trovasse nel giardino di casa Ioakim e che abbia visto, non visto, le ignobili manovre dei vecchioni. Da dove, se no, la sua certezza sulla non colpevolezza di Susanna? È parimenti credibile che egli, timoroso dello status di giudici e dell'autorità che godevano i perfidi vecchioni nella comunità ebrea in esilio, non se la sia sentita di insorgere contro di loro e di smentirli nel corso del giudizio. Non bisogna dimenticare che Daniele al tempo del processo era ancora un ragazzo da poco venuto a contatto con le alte sfere di quella comunità e che, quindi, benché destinato da Dio a grandi cose, non deve aver avuto il coraggio di denunciare quei maggiorenti. Perciò, solo dopo la condanna, incalzato dal rimorso che il Signore gli aveva suscitato, non resistette più e lanciò quel grido liberatorio: "Io sono innocente del sangue di lei".
Ma perché Daniele si proclama "innocente"? E' chiaro: egli si sente innocente rispetto all’iniquo comportamento dei giudici. Egli era stato preso dalla bellezza di Susanna e come loro l’aveva spiata, ma non aveva partecipato all’infame congiura da essi imbastita contro di lei. Interpretazione diversa non ap-pare possibile. Infatti, non risulta dalla narrazione che Daniele non abbia votato in assemblea, insieme a tutto il popolo, la condanna a morte di Susanna o che si sia astenuto dal votare: ne consegue che la sua proclamazione di innocenza non può riferirsi a un siffatto comportamento, il cui grande rilievo, qualora ci fosse stato, non sarebbe sfuggito all'autore del racconto. Per altro, anche ammettendo, per via di semplice ipotesi, la grave distrazione dell' autore del racconto, l'insussistenza di tale comportamento è confermata dalla sorpresa che la dichiarazione di Daniele solleva nella gente intervenuta all'assemblea: "Che vuoi dire con le tue parole?" (Dn, 13, 47).
Tutto ciò che accade in seguito supporta ampiamente quanto sopra considerato. Alla domanda della gente Daniele risponde non spiegando il significato della sua innocenza, ma facendo intendere che il giudizio emesso faceva torto alla verità e che, pertanto, bisognava tornare il tribunale per la revisione del processo (Dn, 13, 47-49). Ed il popolo torna in tribunale, dove gli anziani lo invitano a sedere accanto a loro ed a fargli da maestro.
Come se la cava Daniele quando gli anziani gli riconoscono il "dono dell'anzianità" e prende in mano il capo della matassa (Dn, 13, 50-51)? Capisco che oramai egli non può più agire come persona a conoscenza dei fatti: testimoniare adesso e dare conto delle ragioni che l'avevano indotto a tacere nel processo di prima istanza lo avrebbe compromesso per sempre davanti alla sua gente e gli avrebbe pregiudicato la carriera. Ma devo dire che anche come giudice se la cava piuttosto male. In primo luogo, perché, senza nulla avere ancora provato, in sede di interrogatorio separato, assale brutalmente, con evidente intento intimidatorio, i due vecchioni, definendo il primo "invecchiato male", "datore di sentenze ingiuste", "oppressore di innocenti", "assolutore di malvagi", "uccisore di giusti"; ed il secondo "razza di Canaan e non di Giuda" (cioè: "bastardo", ndr), "pervertito", "violentatore delle donne d'Israele" (Dn,13,53-57). Ahimè, una condotta giudiziale questa deontologicamente assai riprovevole. In secondo luogo, perché la sua strategia processuale mette a rischio il buon esito del giudizio di appello: egli infatti scommette sulla discordanza delle risposte che ciascuno dei due vecchioni avrebbe dato, in assenza del compare, alla domanda: "Sotto quale albero hai visto Susanna e l'amante unirsi?". E se i due perfidi anziani, resi scaltri dal loro mestiere di giudice, avessero preventivamente e prudentemente concordato questo dettaglio al momento della costruzione della falsa accusa, quale sarebbe stato il finale della storia? Chi avrebbe salvato Susanna dalla lapidazione?
Inutile girarci intorno: dalla vicenda Daniele non ne esce bene. Egli è stato il testimone oculare delle manfrine architettate dai vecchioni, ma gli è mancato il coraggio civile di scagionare immediatamente Susanna. Per di più, è stato un giudice sciocco e tecnicamente sprovveduto, poichè ha messo a repentaglio la salvezza di Susanna. E di ciò ben devono essersi avveduti Ioakim, il marito di Susanna, Chelkia, il padre, e la madre ed i parenti tutti, i quali, a bocce ferme, resero grazie a Dio per come si era conclusa la vicenda, ma non una sola parola di gratitudine pronunciarono nei confronti di Daniele. La stessa Susanna, che pure deve avere esultato per il riconquistato onore, non lo abbraccia stretto e non lo bacia a lungo sulla bocca quando "tutta l'assemblea diede grida di gioia e benedisse Dio che salva coloro che sperano in lui". Mi sembra evidente: Susanna si era perfettamente resa conto del grande pericolo cui l’aveva esposta la vigliaccheria e l’ imperizia di Daniele.
Così, tutto il merito della felice conclusione della storia viene ricondotto a Dio (in realtà, deve essere stata veramente la sua mano a far cadere in contraddizione i vecchioni), mentre dalla scena del tripudio finale Daniele, innamorato imbelle e giudice poco accorto, è lasciato interamente fuori. Ben vero è che "da quel iorngo divenne grande di fronte al popolo" (Dn, 13, 60-64), ma - si sa - il popolo è sempre quello che spesso si sbaglia sulla grandezza di coloro che innalza sugli scudi.
Di tale che, mi suona proprio come una mera fantasiosa congettura quella sussurrata da taluni commentatori del brano biblico, secondo cui, in ultimo, Susanna avrebbe premiato Daniele, concedendogli ciò che aveva intensamente bramato nel giardino dei desideri. Anzi, penso proprio che da femmina bella, ma non stupida, si sia lasciata guidare dall’amara esperienza vissuta ed abbia formulato la famosa massima : “Colei che con i ragazzi si mette inguaiata si trova”.













mercoledì 13 febbraio 2013

IL NATURALISMO, IL SENSUALISMO, IL POSITIVISMO

Sotto la denominazione generica di Naturalismo si raccolgono numerose altre correnti filosofiche che si diffusero durante l’Ottocento (sensualismo, materialismo storico, positivismo), diverse tra loro, ma riunite in un motivo comune : la tendenza a considerare la natura come base della loro speculazione. Se l’Idealismo, per trovare il punto in cui “Io” e “non-Io” si fondono cerca di far rientrare il “non-Io” nell’ ”Io”, il naturalismo, per trovare questo stesso punto, cerca di assorbire l’ “Io” nel “non-Io”.

HERBART

Secondo Giovanni Federico HERBART la realtà, la natura, è costituita da una molteplicità di essenze, dette anche “reali”, cioè oggetti, sostanze assolutamente indipendenti dall’Io, le quali sono in sé immutabili, mentre mutano i loro reciproci rapporti.
La conoscenza dei reali ("Metafisica generale") è resa possibile dalla psicologia e dalla filosofia della natura, che ci fanno acquisire cognizioni rispettivamente sulle loro condizioni interne ed esterne.
Quanto esiste è reale, come è reale quanto turba ed influisce sul soggetto al di là che il soggetto riesca ad individuare razionalmente o meno quanto agisce e influisce su di lui. 
Herbart dichiara di essere un "kantiano", ma lo dice con evidente tono polemico per contestare gli sviluppi idealistici della filosofia romantica. In realtà la rivendicazione dell'autorità dell'esperienza e i meriti riconosciuti a Kant per aver impostato il problema delle 'condizioni di possibilità dell'esperienza' mostrando che la cosa in sé non è conoscibile si coniugano con una decisa messa in questione della teoria della conoscenza kantiana, rivolta a colpirla nel punto "debole" costituita dalle forme a priori dell'intuizione e dall'apparato dei concetti puri dell'intelletto. Infatti, Herbart, muove a Kant due critiche. La prima è l'assunzione di 'mitologiche' facoltà dell'anima (la sensibilità, l'intelletto, l'immaginazione, la ragione): a questa concezione kantiana, che fa un passo indietro rispetto a Locke e a Leibniz, occorre invece contrapporre l'unità e la semplicità dell'anima sul piano metafisico. La seconda riguarda la soggettività delle forme dell'esperienza che Kant fondava nella facoltà conoscitiva, mentre Herbart ritiene che invece occorre mettere in luce il "carattere dato" anche delle forme dell'esperienza. Per Herbart il dato è sempre costituito da ciò che viene percepito e dalla sua forma. Anche ammesso che spazio, tempo, categorie, idee siano le condizioni dell'esperienza che si radicano nell'animo, restano pur sempre da spiegare la determinatezza e la specificità delle singole cose che si manifestano nell'esperienza: perché, ad esempio, percepiamo qui una figura rotonda e là una figura quadrata? E non è dunque legittimo pensare che certe condizioni siano in realtà incluse nel dato?
L'ipotesi di un qualche cosa di immutabile è fuori da ogni tipo di realtà, in quanto nulla di quanto conosciamo è immutabile. Soltanto la farneticazione fideistica del concetto del dio padrone, elaborata dagli ebrei mentre erano schiavi a Babilonia per poter esaltare la schiavitù, e ripreso da ogni religione rivelata per scopi di devastazione sociale, contiene il concetto di immutabilità come attributo al loro dio eterno. Ma è pura fantasia riferita ad una descrizione fantasiosa di un ente fantasticato che si traduce nella patologia psichiatrica chiamata “fede”.
La conoscenza dei reali avviene soltanto attraverso il vivere, l’esperienza quotidiana, relazionandosi con la realtà nel suo insieme.

FEUERBARCH

Secondo Ludovico FEUERBACH, filosofo tedesco fra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana, « Siamo situati all'interno della natura; e dovrebbe essere posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine? Viviamo nella natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia non essere derivati da essa? Quale contraddizione! » (Essenza della religione").

Anche la natura umana è una realtà materiale, però l’uomo tende a dare valore assoluto ai propri desideri, per cui, conoscendosi limitato, per appagare le proprie esigenze è costretto a proiettare i suoi desideri fuori di lui ed a crearsi idoli inesistenti.
La pubblicazione, avvenuta anonima, del suo "Pensieri sulla morte e l'immortalità", che nega l'immortalità dell'anima individuale e afferma che l'individuo - pura apparenza - con la morte si dissolve nell'autentica ed eterna realtà dello spirito infinito, si scontrò con il clima politico di reazione alle Rivoluzioni del 1830 dei governi tedeschi che vedevano anche nelle espressioni di pensiero non concordanti con l'ortodossia religiosa un pericoloso attentato all'«ordine» e all'autorità: il libro venne sequestrato e, riconosciuto l'autore, Feuerbach fu costretto a interrompere il suo corso universitario.
Pubblicò ancora, inizialmente, la  "Storia della filosofia moderna da Bacone a Spinoza", l' "Abelardo ed Eloisa, la "Esposizione, sviluppo e critica della filosofia di Leibniz".
Feuerbach intende rilevare come già dal Rinascimento sia avvenuta una progressiva emancipazione della filosofia, e in generale della cultura, dalla teologia e dalla religione cristiana, sia a motivo della visione sostanzialmente negativa che queste ultime hanno della natura e dell'uomo, sia a causa del rinato interesse per lo studio della natura e dell'atteggiamento generalmente positivo nei confronti della libera attività umana. Nell'attività scientifica si realizza tra lo spirito e la natura una feconda unità, nella quale appare difficile la possibilità di una conciliazione tra la filosofia e la religione, come dimostra il fallimento della filosofia di Leibniz di giungere all'unità di ragione e fede e la contraddizione, riconosciuta dal Bayle, esistente tra i principi della ragione e i postulati della teologia, contraddizione che lo portarono a proclamare la necessità della tolleranza religiosa e della indipendenza della morale dalla teologia.
All'inizio Feuerbach si colloca nel solco della filosofia hegeliana, anche se già pone l'accento su elementi che lo allontaneranno da Hegel. Così, nei "Pensieri sulla morte e l'immortalità", egli afferma con forza la connessione tra l'individualità e la sensibilità, propria di un corpo legato allo spazio e al tempo, e su questa base giunge a negare "l'immortalità" individuale. Progressivamente egli matura la convinzione che la filosofia migliore abbraccia tutti coloro che si sono impegnati nella lotta per la libertà di pensiero, da Bruno a Spinoza a Fichte, e non ha il suo compimento in Hegel (come gli hegeliani ortodossi pensavano).
In qualche modo l'unica filosofia che inizia senza presupposti è quella che pone totale libertà di pensiero e che è capace di mettere in dubbio anche se stessa. La filosofia, in quanto libertà che vuole costruirsi da sé e non soltanto come erede della tradizione, deve dunque procedere oltre Hegel, che non critica mai la realtà di fatto, ma si preoccupa soltanto di comprenderla nella sua razionalità e quindi giustificarla. Il compito del libero uomo pensante, consiste invece, nell'anticipare con la ragione gli effetti necessari e inevitabili del tempo. Attraverso la negazione del presente si costituisce la forza per creare qualcosa di nuovo. «Io alla religione ho dedicato tutta la mia vita» dirà Feuerbach; partendo dalla riflessione sul Cristianesimo, Feuerbach giunge a comprendere che la filosofia di Hegel è in realtà teologia filosofica.
Lo scopo di Feuerbach nell' "Essenza del cristianesimo" (1841) non è di condurre una critica al cristianesimo di stampo illuministico, inteso come antireligioso o anticlericale, ossia di ridurlo a un cumulo di menzogne, falsificazioni, errori e superstizioni. Egli invece ritiene che la religione, in particolare quella cristiana, abbia un contenuto positivo che consente di scoprire quale sia l'essenza dell'uomo. Dalle tesi di Schleiermacher, secondo cui la religione consiste nel sentimento dell'infinito, egli trae la conclusione che tale infinito non esprime altro che l'essenza dell'uomo, non già l'essenza di Dio. Nessun individuo singolo contiene in sé quest'essenza nella sua compiutezza, ma ogni uomo ha il sentimento dell'infinità del genere umano. La religione ha un'origine pratica: l'uomo avverte la propria insicurezza e cerca la salvezza in un essere personale, infinito, immortale e beato, cioè in Dio. Quando un soggetto entra in un rapporto essenziale e necessario con un oggetto trascendente, questo significa che l'oggetto trascendente è la vera e propria essenza del soggetto, proiettata. Con Dio il sentimento umano è in un rapporto necessitato dalla sua psiche: Dio dunque non è altro che l'oggettivazione ideale dell'essenza dell'uomo che in Dio rispecchia se stesso. La religione è appunto l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di essi in un ente immaginario, che viene considerato indipendente dall'uomo e nel quale tali aspirazioni si trovano pienamente realizzate idealmente. Nella religione è l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza attraverso un processo psichico di assolutizzazione dell'umano. Non quindi Dio che ha creato l'uomo, ma viceversa. Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea l'idea di Dio. Quando a Dio si attribuiscono l'onniscienza, l'onnipotenza e l'amore infinito, in realtà si intende esprimere l'infinità delle possibilità conoscitive, di potere sulla natura e dell'amore che sono tipici dell'uomo. In Dio e nei suoi attributi l'uomo può quindi scorgere oggettivati i suoi bisogni e i suoi desideri e, dunque, riconoscerli. Feuerbach ne conclude che «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l'uomo ha di sé». La conoscenza che l'uomo ha di Dio non è altro, allora, che la conoscenza che l'uomo ha di sé stesso, ma nella religione l'uomo non si rende conto che è la propria essenza a trovarsi oggettivata in Dio. Solo con la filosofia ciò può giungere a piena consapevolezza. Questo spiega, tra l'altro perché nella storia dell'umanità e degli individui la religione preceda ovunque la filosofia: l'uomo pone la propria essenza fuori di sé prima di riconoscerla come propria. Nella proiezione della propria essenza in Dio, l'uomo non possiede più tale essenza, che ha sede in un altro mondo, cosicché per riconquistarla l'uomo deve negare il mondo terreno. Qui si annida, secondo Feuerbach, la vera colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano: l'aver condotto all'ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia, e in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio.
Rispetto al cristianesimo, il panteismo ha il merito di aver riconosciuto che il divino non è un'entità personale, ma è il mondo stesso. Lo sviluppo della religione consiste dunque in una progressiva negazione di Dio da parte dell'uomo, la quale va di pari passo con la consapevole riappropriazione della propria essenza umana. Quanto c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come teologia per essere conservato come antropologia. In quanto antropologia, la filosofia si assume il compito di liberare l'essenza dell'uomo e le sue infinite possibilità dalla sua alienazione religiosa in un ente estraneo.  Feuerbach afferma che è ateo non chi elimina Dio, il soggetto dei predicati religiosi, bensì chi elimina i predicati con i quali Dio è designato nell'esperienza religiosa, come bontà o saggezza o giustizia. Anche quando si è riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, questi predicati infatti permangono nella loro verità, ma come possibilità e prerogative dell'essenza umana.
Nei "Princìpi della filosofia dell'avvenire" Feuerbach sostiene che il compito dell'età moderna è consistito nella trasformazione e dissoluzione della teologia in antropologia. Noi dipendiamo dalle esigenze materiali. Già il protestantesimo, secondo Feuerbach, è originariamente antropologia religiosa: in esso, infatti, è rilevante ciò che Dio è per gli uomini, non tanto ciò che egli è in sé, anche se in teoria gli è riconosciuta esistenza indipendente. Feuerbach sviluppa così un'antropologia filosofica che scava nella coscienza dell'uomo per scoprire le origini del senso del divino come infinitizzazione di sé. Si tratta di un'analisi intorno a un fondamento antropologico, che non è altro che la proiezione fantasmatica dell'uomo in un ideale ultrauomo "infinito". Tale infinito è la rappresentazione unitaria di tutti gli attributi relativi a ciò che egli vorrebbe essere o diventare, portati all'estremo positivo.
Feuerbach scrive nel § 30 di "Essenza della religione" (1845) «Il pensare, il volere sono cosa mia; ma ciò che io voglio e penso non è cosa mia, è fuori di me, non dipende da me. La tendenza, il fine della religione è volto a togliere questa contraddizione o contrasto. L'ente in cui questa viene tolta è qualcosa in cui ciò che è possibile solo secondo il mio desiderio e la mia rappresentazione, ma impossibile per le mie forze e facoltà, diviene possibile, anzi, si realizza. Questo ente è l'ente divino» E nel § 32 si precisa: «Il desiderio è l'origine, è l'essenza stessa della religione; l'essenza degli dèi non è altro che l'essenza del desiderio.»
L'inizio della filosofia non è dunque Dio o l'Assoluto, ma ciò che è finito, determinato e reale. La filosofia dell'avvenire, in quanto antropologia, riconoscendo il finito come infinito, deve partire, non da come aveva fatto Hegel, dal pensiero autosufficiente, inteso come soggetto capace di costruirsi con le sue proprie forze, bensì dal vero soggetto, di cui il pensiero è soltanto un predicato. Esso è l'uomo in carne e ossa, mortale dotato di sensibilità e bisogni: in questo consiste l'umanesimo di Feuerbach. Occorre dunque partire da ciò che dà valore al pensiero stesso, ossia dall'intuizione sensibile perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo: il sensibile infatti non ha bisogno di dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza. In questa prospettiva, la natura non si trova più ridotta a semplice forma estraniata dello spirito, come avveniva in Hegel, ma diventa la base reale della vita dell'uomo.
Si apre così la possibilità di una nuova filosofia, il sensualismo, che è la risoluzione compiuta della teologia in antropologia: in essa è superata ogni scissione tra uomo e mondo, corpo e spirito. Solo dalla sensibilità deriva il vero concetto dell'esistenza: infatti, solo ciò che è piacevole o doloroso modifica lo stato dell'uomo e mostra che qualcosa esiste o manca. Passione, amore, fame sono dunque la prova ontologica dell'esistenza di qualcosa: solo esse, infatti, hanno interesse all'esistenza o meno di qualcosa. La corporeità, diversificandosi come maschio o femmina, conduce al riconoscimento dell'esistenza di un essere differente dall'io, che tuttavia è essenziale per la determinazione della esistenza. Il vero principio della vita e del pensiero non è dunque l'io, ma l'io e tu, il cui rapporto più reale si configura come amore, interesse per l'esistenza dell'altro. E Feuerbach afferma che "la vera dialettica non è un monologo del pensiero solitario con sé stesso, ma un dialogo tra l'io e tu". L'uomo singolo non ha in sé l'essenza totale dell'uomo, come unità di vita, cuore e ragione; tale essenza è contenuta solo nella comunità, ossia nell'unità dell'uomo con l'uomo, fondata sulla realtà della differenza tra io e tu. In questa prospettiva, l'amore diventa la realizzazione dell'unità del genere umano.
Il fenomeno religioso continuerà a rimanere al centro delle riflessioni di Feuerbach. Nell' "Essenza della religione", egli prende in considerazione non soltanto il Cristianesimo, ma la religione in generale: essa ha la sua matrice nel sentimento di dipendenza dell'uomo dalla natura. Contrariamente a quanto pensava Max Stirner, Feuerbach considera l'individuo un'entità non assolutamente autonoma, ma dipendente da una realtà oggettiva: la natura. Per natura Feuerbach, in questa fase del suo pensiero, non intende più in primo luogo la natura dell'uomo, che si esprime sotto forma di sensibilità. La natura è più in generale il mondo da cui l'uomo dipende: tale dipendenza si manifesta all'uomo sotto forma di bisogno. Proprio dalla difficoltà di soddisfarlo nasce la religione. Di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni l'uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. In questa situazione Dio viene immaginato come l'essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile. Ma questa concezione della divinità rappresenta soltanto la forma più sviluppata di religione. All'origine, infatti, ciò che l'uomo divinizzò fu una natura non addomesticata, anche ostile, solo successivamente egli attribuì a questa natura caratteri simili all'uomo, sino a ravvisare nella natura stessa un ordine dovuto a Dio, inteso come principio ordinatore. Solo per quest'ultima fase dello sviluppo della religione vale la tesi secondo cui Dio e i suoi attributi non sono altro che la proiezione di sentimenti e desideri umani. Ma così facendo si è dimenticata la dipendenza essenziale dell'uomo dalla natura: questo è l'errore della forma più avanzata di religione, soprattutto del cristianesimo, che è dunque il più lontano dall'origine naturale della religione. Nella sua ultima produzione teorica Feuerbach insisterà sull'importanza della conoscenza della natura e di un rapporto armonizzato dell'uomo con la natura stessa. Ciò lo condurrà a guardare con interesse agli sviluppi di concezioni materialistiche nelle indagini scientifiche della metà del secolo e a continuare nella sua polemica antireligiosa.
Le tesi della Essenza della religione trovarono ulteriore sviluppo nelle pagine della "Teogonia secondo le fonti dell'antichità classica, ebraica e cristiana", pubblicata dopo più di sei anni di intenso lavoro nel 1857. La Teogonia, ultima grande opera di critica della religione pubblicata da Feuerbach, si incentra su di una visione antropologica essenzialmente caratterizzata dalla condizione dell'uomo come essere desiderante. Il processo teogonico che dà vita alla rappresentazione degli dei nella coscienza dell'uomo soddisfa in maniera inconscia i suoi desideri più cari: gli dei sono gli esseri in cui viene superata la contraddizione tra il volere ed il potere. Nella Teogonia Feuerbach ricostruisce le cause ed i momenti fondamentali del processo teogonico attraverso l'analisi linguistica e psicologica del linguaggio dell'epica classica e delle fonti antiche ebraiche e cristiane. La religione pagana appare come espressione di un'umanità i cui desideri sono ancora vicini alla natura; gli dei degli antichi, sottoposti a loro volta alle leggi del fato e della necessità, sono solo i ministri della natura, non i suoi signori e creatori come il Dio cristiano. I pagani volevano essere felici in vita e non rifiutavano i limiti della propria condizione mortale. Ai molti desideri dei pagani si oppone l'unico desiderio dei cristiani, quello di una beatitudine ultraterrena ed in contrasto con tutte le leggi della natura. Sacrificando le gioie quotidiane e realizzabili della terra, i cristiani aspirano a guadagnarsi gioie infinite nel cielo; in tal modo la pretesa morale cristiana fondata sull'amore del prossimo nasconde soltanto l'egoismo alienato dell'uomo cristiano. Gli eroi omerici, al contrario, mostrano ancora i caratteri positivi di una virtù fondamentalmente atea che, senza misconoscere la finitezza dell'individuo, lo invita ad impegnare tutte le proprie forze materiali ed intellettuali per realizzare sulla terra le condizione concrete della propria felicità.
Tutti i popoli in principio sono religiosi, ma poi acquistano coscienza e si disalienano. Il compito degli scritti di Feuerbach, come egli stesso afferma, è di abbattere le illusioni e i pregiudizi del presente, traendo la filosofia da quello che egli chiama il regno delle anime morte per reintrodurla nel dominio delle anime vive, radicalmente legate al corpo e alla sensibilità. Per ora il problema è di trarre l'uomo fuori dal pantano in cui era sommerso , non ancora di rappresentare l'uomo quale è. Si tratta in altre parole di dedurre dalla teologia la necessità di una filosofia dell'uomo, di un'antropologia, capendo gli errori concettuali del pensiero pregresso. Questo è il compito che Feuerbach assume per il suo filosofare, provvedendo con i suoi scritti a renderlo noto ed accessibile. Egli è infatti convinto, come dice nella premessa dei "Princìpi della filosofia dell'avvenire" (1843), che solo alle future generazioni sarà concesso di pensare, parlare e agire in modo puramente ed autenticamente umano. In una delle sue ultime opere, Spiritualismo e materialismo (1866), Feuerbach ribadisce la sua concezione dell'individuo come organismo sensibile caratterizzato da bisogni, polemizza contro il dualismo di anima e corpo e, facendo proprio un punto di vista deterministico, nega l'esistenza del libero arbitrio. Per molti aspetti le tesi di Feuerbach saranno uno spunto per il lavoro di Marx, che comunque non tarderà a criticare il lavoro di Feuerbach nelle "Tesi su Feuerbach".


MARX

Per molti aspetti le tesi di Feuerbach saranno uno spunto per il lavoro di Carlo MARX, che comunque non tarderà a criticare il lavoro di Feuerbach nelle "Tesi su Feuerbach". Tuttavia, nei "Manoscritti" del 1844 Marx definirà Feuerbach il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana.
Il suo pensiero è incentrato, in chiave materialista, sulla critica dell'economia, della politica, della società e della cultura a lui contemporanea. Teorico del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia del Novecento.
Secondo Marx l’essere dell’uomo è costituito dai suoi rapporti con gli altri uomini e con il mondo naturale e questi rapporti sono reali, oggettivi, esistenti, non già astratti e formali, e perciò non si lasciano ridurre alla coscienza o allo spirito, come volevano gli idealisti. L’essere dell’uomo è tutto in questi rapporti, che sono rapporti sociali concreti, che hanno la materia, cioè la natura, come loro termine oggettivo. La stessa storia del mondo ha la sua riprova in detti rapporti in quanto empiricamente constatabili.
Nel Capitale Marx si sforza di dimostrare la necessità di determinati rapporti sociali e di constatare i fatti che gli occorrono come punti di partenza o come punti di appoggio. A questo scopo è sufficiente provare sia la necessità dell'ordinamento attuale che la necessità di un diverso ordinamento in cui il primo deve trapassare, essendo indifferente che gli uomini ne siano o meno consapevoli. Marx considera il movimento della società come un processo di storia naturale governato da leggi che non dipendono soltanto dalla volontà, dalla coscienza e dall'intenzione degli uomini ma, al contrario, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni. Se l'elemento cosciente ha nella storia della civiltà un posto così subordinato, è evidente che la critica della civiltà meno d'ogni altra cosa potrà prendere a fondamento una qualunque forma o risultato della coscienza. La critica si restringerà alla comparazione di un fatto non con l'idea, ma con un altro fatto. È importante che tutti e due i fatti rappresentino veramente diversi momenti di sviluppo l'uno di fronte all'altro e soprattutto che sia indagata la serie degli ordinamenti, la successione e il legame in cui si manifestano i gradi di sviluppo. Si potrebbe obiettare che le leggi generali dell'economia siano uniche e medesime, sia che si riferiscano al presente che al passato. Marx nega proprio questo. Per lui queste leggi astratte non esistono, ogni periodo storico ha le sue proprie leggi: non appena la vita economica è passata da un determinato stadio di sviluppo a un altro, comincia a essere retta da leggi diverse. I rapporti e le leggi che regolano i gradi di sviluppo cambiano con la differenza di sviluppo delle forze produttive. Il valore scientifico di questa indagine sta nella spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo, morte di un organismo sociale e la sua sostituzione con un altro, superiore».
Nell'articolo "La religione e Feuerbach" Marx, in contrasto con Ludwig Feuerbach che sosteneva che l'epoca in cui viveva segnava il tramonto della religione, precisa come invece nella religione coabitino un'istanza critica oltreché quella illusoria. Se per Feuerbach la religione è frutto della coscienza capovolta del mondo, per Marx ciò è dovuto al fatto che la società stessa sia un mondo capovolto. La religione è espressione, è critica della miseria reale in cui l'uomo si trova, con la sua stessa presenza denuncia l'insopportabilità del reale per l'uomo. La religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli», ottunde i sensi nel rapporto con la realtà, è un inganno che l'uomo perpetra a se stesso. Incapace di cogliere le motivazioni della propria condizione l'uomo la considera come dato di fatto (causa del peccato originale) cercando consolazione e giustificazione nei cieli religiosi. Una concreta liberazione dalla religione non si avrà, come per Bauer, eliminando la religione stessa bensì cambiando le condizioni e i rapporti in cui l'uomo si trova degradato e privato della sua propria essenza.