lunedì 11 marzo 2013

JOSEPH RATZINGER, IL PAPA DISERTORE


PROLOGO
Il suo nome era Simone, ma Gesù gli diede l'appellativo di Pietro: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Giov. 1, 42). In aramaico, la parola che significa pietra è כיפא, translitterata nell'alfabeto latino con "Kefa", "Kepha", "Cephas". Ma l'episodio che, senza alcun dubbio, ha reso Simone celebre a tutti i posteri cristiani, è quello in cui Gesù ebbe a dirgli: “E anch'io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte del soggiorno dei morti non la potranno vincere. A te darò le chiavi del regno dei cieli..."(Mat., 16, 18-19).
Non mi soffermo sulla nota questione sorta in relazione all'appellativo attribuito da Gesù a Simone e che ha fatto dubitare a molti esegeti del N.T. la reale volontà del Cristo di affidare all'apostolo prediletto la costruzione e il governo della futura Chiesa cristiana. A "Simone" viene dato il nome di "πητρος" e la "pietra" di cui si parla nella seconda parte del versetto è in greco "πητρα". Ora, il nome proprio di un uomo dovrebbe essere maschile (-ος), mentre πητρα, la parola usata per "pietra", è femminile (-α). Quindi, il genere è diverso, ma si tratta di un puro requisito grammaticale della lingua greca, un artefatto dovuto alla traduzione dall'aramaico (la lingua probabilmente parlata da Gesù) al greco, e un tentativo di mantenere il gioco di parole. Nè rileva fare la distinzione (circoscritta al linguaggio poetico greco) tra "roccia" e "piccola pietra" o "sasso". Tra i classici, comprese alcune opere di Platone e Sofocle, ci sono molte ricorrenze di πητρος con il significato di "pietra". Inoltre, Gesù dice a Pietro: "A te darò le chiavi del regno dei cieli".  E, in modo particolare, per il popolo ebraico le chiavi erano un simbolo dell'autorità. In Apocalisse (1,18) Gesù dice di avere le chiavi della morte e dell'inferno, che significa che ha potere sulla morte e sull'inferno; anche in Isaia (22,21-22) compaiono le chiavi come simbolo. Il cardinale James Gibbons, nel suo libro "The Faith of Our Fathers" ("La fede dei nostri padri") indica che le chiavi sono un simbolo dell'autorità anche nella cultura odierna; usa l'esempio di qualcuno che dà le chiavi di casa propria ad un'altra persona, e così quest'ultima diventa la rappresentante del padrone di casa durante la sua assenza.
Dopo la Resurrezione e dopo che il discepolo ripara, con una professione di amore assoluto, al triplice rinnegamento di cui si era macchiato durante la Passione, Gesù conferisce a Pietro il primato promessogli : “Quando ebbero mangiato Gesù disse a Simon Pietro: Simone figlio di Giovanni, tu mi ami più di costoro? Gli rispose: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo. Gli disse: Pasci i miei agnelli. Gli disse di nuovo: Simone figlio di Giovanni, mi ami? Gli rispose: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo. Gli disse: Pasci le mie pecorelle. Gli disse per la terza volta: Simone figlio di Giovanni, mi ami? Pietro rimase addolorato che per la terza volta Gesù gli dicesse "Mi ami?", e gli disse: Signore, tu sai tutto: tu sai che ti amo. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle.” (Giov., 21, 15-17). Qui, Cristo dice a Pietro per tre volte: "pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle". Il retroterra biblico di queste frasi sta nelle numerose ricorrenze dell'Antico Testamento in cui Dio dice di essere pastore del suo gregge, cioè del popolo di Israele, Nel Nuovo Testamento è Gesù a dire di sé stesso: "Io sono il buon Pastore" (Giovanni, 10, 11-14); il gregge in questo caso rappresenta coloro che credono in Gesù.
I cattolici credono che a Pietro il Cristo abbia affidato la guida dell'intero gregge dei suoi seguaci, cioè della Chiesa. Cristo medesimo sarebbe dunque  il fondatore della comunità ecclesiale. Pertanto, la Chiesa, pur radicandosi nella storia, avrebbe anche origine e dimensione divine, che sono un elemento costitutivo essenziale del suo essere. Essa, dunque, come il suo fondatore, possiede una duplice natura, umana e divina nel contempo, ed è entro tale cornice che la sua istituzione ed il suo operare vanno colti, letti e interpretati; voler escludere uno dei due elementi che costituiscono la natura della Chiesa (lo storico e il divino) significa pregiudicarsi ogni possibilità di comprensione della sua realtà, che si radica :
- In Cristo, che con la sua parola ed opera, con la sua morte e risurrezione e con l'investitura dello Spirito, ne ha inserito il seme fecondo nella storia degli uomini. La Chiesa ha, pertanto, un fondamento sia cristologico che pneumatico.
- Negli Apostoli, che hanno accolto il seme divino e lo hanno fatto fecondare, rilanciandolo con la loro predicazione e la loro opera.
- Nelle prime comunità cristiane, che hanno lasciato in eredità alle generazioni future e all'intera umanità il dono della fede, ricevuto dall'annuncio apostolico.
- Nei romani pontefici, quali successori di Pietro e depositari del disegno divino di realizzare l'unità di fede e comunione di tutti i credenti; unità necessaria per il compimento della missione salvifica della Chiesa.

STORIA DELLA COSTITUZIONE DELL' UFFICIO DEL ROMANO PONTEFICE
Il Romano Pontefice è in terra il Successore di Pietro, cioè la più alta autorità religiosa riconosciuta dalla religione cattolica. Secondo il Diritto Canonico, è il Vescovo della chiesa di Roma, capo del Collegio dei vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale. Egli possiede anche i titoli di Sommo Pontefice della Chiesa cattolica e, per gli aspetti civili, di Sovrano dello Stato della Città del Vaticano. Inoltre, egli assume anche il nome di Papa. Quest'ultimo deriva dal greco πάππας (pàppas), espressione familiare per "padre", attestata a partire dal III secolo, contestualmente ad un analogo uso fatto per indicare il Vescovo di Alessandria, in Egitto.
L'ufficio del Papa prende il nome di Papato, mentre la sua giurisdizione ecclesiastica ha il nome di Santa Sede o Sede Apostolica: è infatti sede apostolica ed ente di diritto internazionale. La particolare preminenza del Papa sulla Chiesa deriva dal suo essere considerato successore dell'apostolo Pietro, al quale l'interpretazione cattolica dei Vangeli riconosce l'incarico, ricevuto direttamente da Cristo, di guida della Chiesa universale (cosiddetto "primato petrino").  Pietro, secondo la tradizione, avrebbe retto negli ultimi anni di vita la comunità cristiana di Roma, divenendone il primo vescovo e subendovi il martirio nell'anno 67.
Il primato papale è l'autorità apostolica del vescovo della diocesi di Roma su tutte le chiese particolari della Chiesa cattolica, sia di rito latino che di riti orientali. Ma la Chiesa ortodossa riconosce un primato di onore al Vescovo di Roma, ma non di giurisdizione e le chiese protestanti non riconoscono alcuna autorità superiore poiché la ritengono non conforme alle Sacre Scritture. Al giorno d'oggi molte chiese protestanti mantengono questa opinione, mentre altre non escludono una forma di ministero papale, in prospettiva ecumenica, sostanzialmente diversa dal primato papale attuale. La Chiesa anglicana ritiene che "Entro il suo più ampio ministero, il vescovo di Roma offre un ministero specifico riguardante il discernimento della verità, come un'espressione del primato universale." Tuttavia, questo servizio particolare è stato fonte di difficoltà e di fraintendimenti tra le chiese.
Un ulteriore importante attributo del Papa è quello della infallibilità del suo magistero. Il dogma dell'infallibilità papale, contenuto nella costituzione dogmatica della Chiesa "Pastor Aeternus", approvato dal Concilio Vaticano I (18 luglio 1870) nell'imminenza della fine del potere temporale, afferma che il magistero del papa deve essere considerato infallibile quando viene espresso ex cathedra, cioè solo quando il papa esercita il «suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani» e «[...] definisce una dottrina circa la fede e i costumi». Pertanto, quanto da lui stabilito «vincola tutta la Chiesa cattolica». Finora il dogma dell'infallibilità è stato utilizzato due volte: da Papa Pio IX per affermare l'Immacolata Concezione di Maria e da Papa Pio XII per affermare l'Assunzione della Vergine Maria.
L'autorità del Papa, come scrisse Giovanni Paolo I nell'Omelia del 23 settembre 1978, deriva dall'essere vescovo di Roma, cioè successore di Pietro in questa città. Ed infatti, in un primo momento, i papi ebbero solo il titolo di Vescovo di Roma. La più antica menzione del titolo di Papa si deve ad un'epigrafe trovata nelle catacombe di S. Callisto a Roma dove un certo diacono Severo scavò, in occasione della perdita di una figlia, un cubicolo doppio per sè e per la sua famiglia, dicendosi a ciò autorizzato dal "Papae sui Marcellini"(296-304).
Tutti gli antichi elenchi dei vescovi di Roma, che si sono conservati grazie a Ireneo di Lione, Giulio Africano, Ippolito di Roma, Eusebio di Cesarea ed al Catalogo Liberiano del 354, posizionano il nome di Lino immediatamente dopo quello di Pietro. Questi elenchi furono redatti a posteriori basandosi su una lista dei vescovi romani che esisteva al tempo del Vescovo Eleuterio (approssimativamente tra il 174 e il 189). Secondo Ireneo, Papa Lino è il Lino menzionato da Paolo di Tarso nella sua seconda lettera a Timoteo. Il brano di Ireneo ("Adversus haereses", III, III 3) recita: « Dopo che gli apostoli Pietro e Paolo fondarono ed organizzarono la Chiesa [a Roma], essi conferirono l'esercizio dell'ufficio episcopale a Lino. »
L'ufficio di Lino, secondo gli elenchi papali che ci sono pervenuti, durò circa dodici anni. Il Catalogo Liberiano afferma che durò, per l'esattezza, dodici anni, quattro mesi, e dodici giorni, ma le date fornite da questo catalogo, dal 56 al 67, non sono probabilmente corrette. Forse proprio tenendone conto gli scrittori del IV secolo sostenevano che Lino era stato a capo della comunità romana durante la vita dell'apostolo, ma si tratta di un'ipotesi senza alcun fondamento storico. In base ai calcoli di Ireneo sulla Chiesa romana nel II secolo, è fuori dubbio che Lino sia stato scelto come guida della comunità cristiana di Roma solo dopo la morte di Pietro. Per questa ragione il suo pontificato si fa iniziare nell'anno della morte degli apostoli Pietro e Paolo.
Ma, prescindendo dal caso della designazione diretta di Lino da parte di Pietro e Paolo, risulta storicamente accertato che nei primi anni del cristianesimo l'elezione del nuovo pontefice avveniva nell'assemblea dei cristiani di Roma, a volte su indicazione stessa del predecessore. Secondo una tradizione tramandata, Papa Fabiano nel 236 venne eletto poiché durante l'assemblea una colomba si sarebbe posata sul suo capo, fatto che venne interpretato come segno della volontà divina. In seguito al diffondersi della nuova religione dal 336, su decisione di Papa Marco, l'elezione fu riservata ai soli sacerdoti romani. Nel 1059 Papa Niccolò II decise di affidare l'elezione ai soli cardinali vescovi e, nel 1179, Papa Alessandro III stabilì che dovesse decidere l'intero collegio cardinalizio. Era comunque sempre possibile l'elezione anche di semplici maschi battezzati.
Durante i secoli spesso ci fu anche l'ingerenza di re e imperatori che imponevano alcuni candidati o imponevano il veto su altri. Ottone I nel 964 si fece attribuire da papa Leone VIII il diritto di approvare o meno la scelta del papa, che avrebbe dovuto poi giurare fedeltà all'imperatore. Ancora nel 1903, quando si trattò di eleggere il successore di Papa Leone XIII, l'Imperatore d'Austria pronunciò il suo veto contro il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Il collegio cardinalizio respinse il veto ma elesse comunque un diverso candidato, il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, che divenne Pio X. Il neo eletto, nel 1904, finalmente stabilì che i futuri elettori non avrebbero dovuto accettare mai più alcun "veto".
Nel 1198 i cardinali si riunirono per la prima volta in volontaria clausura, ma la decisione dell'isolamento della riunione cardinalizia fu stabilita solo nel 1274 dal Concilio di Lione II, con la Costituzione apostolica Ubi Periculum, per impedire i ritardi, i tentativi di influenza esterna e le corruzioni che in diversi casi si erano verificati. Riassumendo:
1. Nei secoli III e IV il papa veniva eletto dal un collegio di sette diaconi; poi su designazione del clero e del popolo romano, con ratifica dei vescovi suburbicari della provincia.
2. Giustiniano (527-565) sottomise l'elezione del papa all'approvazione imperiale (Vigilio 540 e Pelagio 543) fino al 731 (Gregorio III).
3. Fino alle soglie dell' XII secolo il Papa viene eletto dal clero e dal popolo romano sotto il controllo del potere civile o della pressione di fazioni politiche.
4. Nicola II nel 1059 con la bolla In Nomine Domini riservò l'elezione ai soli cardinali vescovi.
5. Nel 1179 Alessandro III estese l'elezione a tutti i cardinali. Secondo il Canone Licet de evitanda discordia del concilio Lateranense III, l'eletto doveva raccogliere i 2/3 dei voti.
6. Il Conclave ( cum clave, "chiuso con la chiave") venne di fatto istituito da papa Gregorio X che - memore di quanto accaduto a Viterbo durante la sua elezione - promulgò la Costituzione apostolica Ubi Periculum nel corso del Concilio di Lione II (1274). In sintesi, con essa  si stabiliva che i cardinali elettori, ciascuno con un solo accompagnatore, dieci giorni dopo la morte del Papa, si riunissero in una grande sala del palazzo ove risiedeva il papa defunto e fossero lì segregati; qualora dopo tre giorni non fosse avvenuta l'elezione, ai cardinali sarebbe stato ridotto il vitto ad una sola portata per pasto; dopo altri cinque giorni il vitto sarebbe stato ulteriormente ridotto a pane, vino ed acqua; inoltre, durante tutto il periodo della Sede vacante le rendite ecclesiastiche dei porporati erano trasferite nelle mani del Camerlengo, che le avrebbe poi messe a disposizione del nuovo Papa.
7. La Ubi Periculum venne sospesa da papa Adriano V nel 1276 su richiesta di alcuni cardinali e quindi addirittura revocata da papa Giovanni XXI nel settembre dello stesso anno, con la costituzione Licet felicis recordationis, salvo ad essere ripristinata quasi completamente da papa Celestino V con la bolla Quia in futurum, del 28 settembre 1294 e successivamente inserita integralmente da papa Bonifacio VIII nel Codice di Diritto Canonico nel 1298.
8. Gregorio XV (1621-1623) diede due rinnovate Costituzioni per l'elezione pontificia, in balia dei tre grandi stati cattolici di allora, Aeterni Patris e Decet Romanorum Pontificem, che ribadivano la clausura e la maggioranza dei due terzi ed introducevano la segretezza del voto.
9. Le potenze cattoliche continuarono a intromettersi con il diritto di veto, che venne abolito da papa Pio X con la Costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904.
10. Le modifiche più consistenti nella normativa per il conclave sono state effettuate da Paolo VI (Ingravescentem aetatem, 1970; Romano Pontifici eligendo, 1975), che ha escluso dal conclave i cardinali ultraottantenni e che ha fissato in 120 il numero dei componenti del collegio elettorale.
11. Giovanni Paolo II con la Universi dominici gregis del 1996, pur confermando le modalità essenziali in vigore, ha stabilito un nuovo luogo per i cardinali in clausura nella Domus Sanctae Marthae, sempre in Vaticano; ha, inoltre, eliminato le possibilità dell'elezione per acclamazione e per compromesso (ormai comunque in disuso da alcuni secoli) ed ha recuperato, infine, il ruolo dei cardinali che hanno già compiuto ottant'anni: la loro funzione, però, è semplicemente spirituale. Partecipano, infatti, solo alle fasi preliminari dell'elezione e guidano le preghiere della Chiesa Universale.
12. Da ultimo, Benedetto XVI con il motu proprio De Aliquibus Mutationibus dell'11 giugno 2007 (pubblicato il 26) ha stabilito che la maggioranza dei voti per l'elezione del Papa deve essere pari ai 2/3 dei votanti per tutti gli scrutini e che a partire dal 34º scrutinio (o 35° se si era votato anche il giorno di apertura del Conclave) si procederà al ballottaggio, ma sempre con maggioranza di almeno i 2/3 dei votanti, tra i due cardinali più votati all'ultimo scrutinio; questi però perdono entrambi il diritto di voto. Si è così corretta una norma sancita da Papa Giovanni Paolo II - ma già dichiarata possibile in passato da papa Paolo VI - che prevedeva una riduzione del quorum alla maggioranza assoluta a partire dal 34º o 35º scrutinio, qualora ci fosse stato su tale modo di procedere il consenso dei Cardinali elettori. Inoltre, dopo aver presentato le  dimissioni dal soglio petrino, per "assicurare il migliore svolgimento di quanto attiene, pur con diverso rilievo, all'elezione del Romano Pontefice, e in particolare una più certa interpretazione ed attuazione di akcune disposizioni", il 22 febbraio 2013 ha stabilito, sempre  nella forma del motu proprio (“De nonnullis mutationibus in normis ad electionem Romani Pontifici attinentibus") alcune modifiche alle precedenti normative, quali : 1) la facoltà del Collegio dei cardinali, se consta della presenza di tutti i cardinali elettori, di anticipare l'inizio del Conclave, derogando alla regola che a partire dal giorno della "sede vacante" si attendano per quindici giorni interi gli assenti prima di iniziare il conclave; 2) la precisazione delle norme intese a garantire la segretezza del Conclave ( “si dovrà provvedere, anche con l’aiuto di prelati chierici di camera, che i cardinali elettori non siano avvicinati da nessuno durante il percorso dalla Domus Sanctae Marthae al Palazzo Apostolico Vaticano"; "Tutte le persone che per qualsivoglia motivo e in qualsiasi tempo venissero a conoscenza da chiunque di quanto direttamente o indirettamente concerne gli atti propri dell’elezione e, in modo particolare, di quanto attiene agli scrutini avvenuti nell’elezione stessa, sono obbligate a stretto segreto con qualunque persona estranea al Collegio dei cardinali elettori: per tale scopo, prima dell’inizio delle operazioni dell’elezione, dovranno prestare giuramento” secondo precise modalità, nella consapevolezza che un’infrazione comporterà “la pena della scomunica ‘latae sententiae’ riservata alla Sede Apostolica”); 3) l'abolizione dei modi di elezione detti “per acclamationem seu inspirationem” e “per compromissum”: la forma di elezione del Romano Pontefice sarà d’ora in poi unicamente “per scrutinium"; 4) il requisito di almeno i 2/3 dei suffragi, computati sulla base degli elettori presenti e votanti, per la validità dell'elezione, nonchè l'introduzione del ballottagio tra i due più votati nelle votazioni oltre il 33° o il 34°scrutinio.

COME  SI  PERDE  IL TRONO  DI  PIETRO
Dunque, sul trono di Pietro si sale per elezione dei cardinali riuniti in Conclave. La morte del Pontefice eletto o la sua rinuncia o, meglio, la sua abdicazione al trono sono oggi le sole cause che, a mente del Codice di Diritto Canonico,  rendono vacante la Sede Apostolica.
Quella che si è aperta il 28 febbraio 2013, alle 20, è la decima sede apostolica vacante iniziata per cause diverse dalla morte di un Pontefice. Nelle nove occasioni precedenti si tratta di papati le cui vicende, in vari casi, si perdono nella notte dei tempi e risalgono addirittura a prima dell'anno mille.
Queste le 10 eccezioni rispetto alla morte del Papa. Nel 235 Ponziano lascia per rinuncia, nel 537 è la volta di Silverio in cui le cause si sommano: fu deposto e rinunciò insieme; nel 654 tocca a Martino, di nuovo una rinuncia; Giovanni XII nel 963 viene invece deposto; Benedetto V nel 964 è anch'esso deposto; Giovanni XVIII nel 1009 rinuncia al pontificato; Benedetto IX nel 1045 rinuncia; Celestino V nel 1294 rinuncia anche lui, si tratta del Papa del 'gran rifiuto' per antonomasia; anche nel caso di Gregorio XII nel 1415 siamo di fronte a una rinuncia. Dopo oltre settecento anni, Benedetto XVI, nel Concistoro ordinario dell'11 febbraio 2013, annuncia la sua rinincia al Papato. Curiosamente su 10 sedi vacanti 'anomale', in tre casi il Papa si chiama Benedetto.
Per chi si occupa di diritto canonico l’abdicazione del Papa rientra nella categoria della rinuncia all’ufficio ecclesiastico. Quest’ultimo è un incarico, nell’accezione più vasta possibile, costituito stabilmente e per disposizione divina, cioè direttamente collegata a Gesù Cristo come, ad esempio, l’ufficio primaziale del Romano Pontefice e l’ufficio episcopale; o ecclesiastica, collegata invece a coloro che Egli ha posto a capo della Chiesa, come ad esempio, l’ufficio parrocchiale; escludendo con ciò stesso la possibilità di costituzione da parte dell’autorità civile. La rinuncia può essere definita l’atto con cui il titolare dà le dimissioni dall’ufficio che ancora detiene. Due sono le condizioni per rinunciare: l’uso di ragione, per cui chi rinuncia deve essere responsabile dei propri atti e compiere così un vero atto umano e la giusta causa, commisurata in genere secondo il fine spirituale proprio di ogni ufficio ecclesiastico.
Anticamente le cause per la rinuncia all’ufficio venivano compendiate nel sommario contenuto in una lettera decretale di Papa Innocenzo III inviata, nel 1206, al vescovo di Cagliari, che così diceva: «Debilis, ignarus, male conscius, irregularis, quem mala plebs odit, dans scandala cedere potest», quindi l’infermità di mente o di corpo, la mancanza della scienza debita, la coscienza cattiva del crimine commesso, l’irregolarità, l’odio che proviene dai maligni. La rinuncia, di solito, per la sua validità richiede l’accettazione da parte dell’autorità ecclesiastica competente, questo, tuttavia, non si applica per il Pontefice la cui rinuncia non dev’essere accettata da nessuno, basta, per essere valida, che sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, com’è accaduto con Benedetto XVI.
Le regole canoniche sull’abdicazione papale furono emanate da Bonifacio VIII che le inserì, sotto il nome di "Liber extra", nella collezione delle sue Decretali denominata «Liber Sextus», promulgata nel 1298: questa collezione, insieme ad altre, venne poi a formare il «Corpus iuris canonici». Bonifacio VIII aveva stabilito che quando il Romano Pontefice si rende conto di essere insufficiente a reggere la Chiesa universale («se insufficientem agnoscit ad regendam universalem ecclesiam») e a sopportare il peso del sommo pontificato («summi pontificatus onera supportanda») poteva rinunciare al papato e ai suoi oneri e onori («renunciare valeat papatui eiusque oneri et honori»). In effetti, Bonifacio VIII dopo la vicenda dell’abdicazione di Celestino V, che era avvenuta davanti al Collegio dei Cardinali, volle che l’istituto della rinuncia all’ufficio papale entrasse, a pieno titolo, nell’ordinamento giuridico della Chiesa. E così è rimasto. Infatti nel primo Codice di Diritto Canonico, elaborato sotto Papa Pio X e promulgato nel 1917 da Papa Benedetto XV, al canone 221 veniva ribadita la disposizione di Bonifacio VIII precisando che, per la valida rinuncia del Romano Pontefice, non era necessaria l’accettazione né dei Cardinali né di altri. Anche il vigente Codice di Diritto Canonico, promulgato da Papa Giovanni Paolo II nel 1983, che ha sostituito quello del 1917, al canone 332 § 2 riporta la norma sulla rinuncia all’ufficio del Romano Pontefice. Pure il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche, pubblicato nel 1990, al canone 44 § 2 contiene la medesima disposizione.
Più in particolare, il Codice di diritto canonico (o Codex Iuris Canonici) del 1983, al Libro II "Il popolo di Dio", Parte seconda "La suprema autorità della Chiesa", capitolo I "Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi", al canone 332 - §2 recita: "Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti" Si ritiene che alla rinuncia pontificale sia applicabile anche il canone 187 del Libro I "Norme generali", Parte IX "Gli uffici ecclesiastici", capitolo IX "La rinuncia", che disciplina in generale la rinuncia agli uffici ecclesiastici :   "Chiunque è responsabile dei suoi atti può per giusta causa rinunciare all'ufficio ecclesiastico».

IL  CASO  DI  BENEDETTO XVI
Benedetto XVI, nato Joseph Aloysius Ratzinger a Marktl, in Baviera, il 16 aprile 1927, è stato vescovo di Roma e 267º papa della Chiesa cattolica nonché sommo pontefice della Chiesa universale, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, primate d'Italia, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013. È stato il settimo pontefice tedesco nella storia della Chiesa cattolica, il sesto fu papa Stefano IX.
La rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino ha suscitato, com’era prevedibile, sorpresa e stupore. Si tratta, in effetti, di un atto rivoluzionario, non nuovo, ma sempre sconvolgente.
Si noti come il CIC ("Codex iuris canonici") eviti di parlare di abdicazione o di dimissioni del Pontefice e utilizzi soltanto l'espressione "rinuncia". In conformità si è comportato Benedetto XVI :
"Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell'animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l'elezione del nuovo Sommo Pontefice".
Pertanto sotto il profilo strettamente giuridico la sua volontaria e libera discesa dal Soglio pontificio è assolutamente legittima. Ma che dire dal punto di vista del "Diritto divino"?
Si parla di "diritto divino" quando ciò che è istituito nella Chiesa è espressione diretta della stessa volontà di Cristo, rilevabile dalla sua parola o dalla sua opera. Si tratta di un complesso di norme che non sono state poste dal legislatore ecclesiastico, cioè da un’autorità umana, ma da questa sono fatte valere.
Si parla, invece, di "Diritto ecclesiale", cioè di ordinamento giuridico della Chiesa, quando le istituzioni vengono fatte risalire agli Apostoli o alle comunità cristiane. Va detto subito che il "diritto ecclesiale" discende da quello divino e, per certi aspetti, lo incarna e lo attua nella storia. Si sostiene che la distinzione nasce dal fatto che la Chiesa si definisce un’unica realtà composta da un elemento divino e da un elemento umano, regolata correlativamente sia dal diritto divino sia dal diritto (meramente) ecclesiastico, ovvero dalle norme stabilite esclusivamente dalla competente autorità ecclesiastica. Si osservi che in questo caso con "diritto ecclesiale" la Chiesa intende qualcosa di totalmente diverso da quanto indicato con il nome di "Diritto ecclestiastico" dagli stati laici e che attiene alle norme che disciplinano i rapporti interni tra i singoli stati e le istuzioni religiose in essi costituite.
Il "diritto divino" si divide in naturale e positivo: del primo fanno parte tutti i diritti umani intrinseci alla natura umana stessa; del secondo tutte le regole manifestate nella Rivelazione divina, ricavabili dai testi sacri e dalla Tradizione apostolica.
Il diritto divino naturale è dato dall’insieme di principi non scritti che sono stati impressi da Dio nella coscienza dell’uomo e che hanno valore universale.
Il diritto divino positivo è costituito dalle norme che sono state manifestate dalla Rivelazione divina e sono quindi ricavabili dall’Antico e dal Nuovo Testamento, nonché dalla Tradizione Apostolica. Dunque è dato dall’insieme di principi che sono intimamente e strutturalmente connessi con la Chiesa in quanto entità fondata da Cristo, il quale ha dato precise finalità da perseguire nel tempo, i mezzi da utilizzare, le regole fondamentali di governo ed i criteri di appartenenza. Questi principi sono essenziali perché determinano la struttura e il funzionamento della costituzione della Chiesa, irriformabili perché posti dal legislatore divino, quale. ad esempio, il carattere gerarchico che vede due soggetti di suprema autorità comgiunti in un'unità organica : il Romano Pontefice ed il Collegio episcopale, il cui capo è il Pontefice (cann. 330, 331, 336 del Codex iuris canonici).
Il diritto divino e il diritto umano ecclesiale non devono essere inquadrati come due ordini giuridici distinti ma in termini di esplicitazione sul piano del diritto umano dei principi di diritto divino, cioè il diritto umano è una sorta di trasposizione dei principi del diritto divino, il quale è vigente, sovraordinato al diritto umano e dotato di una superiore obbligatorietà. Il Concilio Vaticano II esprime un ripensamento delle tradizionali teoriche dottrinali dando vita a due fondamentali orientamenti: la scuola canonistica di ispirazione teologica e la scuola spagnola di Navarra. La prima pone una netta separazione tra diritto divino e diritto umano ecclesiastico ma in direzione opposta rispetto alla tesi della canonizzazione, assorbendo interamente il diritto divino nella teologia. La seconda pone una teoria che prospetta il rapporto tra diritto divino e diritto umano come un processo di progressivo approfondimento e recezione dei contenuti del primo nelle norme positive attraverso il passaggio da una prima fase (positivazione) caratterizzata dalla presa di coscienza ecclesiale dei contenuti del diritto divino, ad una successiva in cui tali contenuti vengono formalmente inseriti nell’ordinamento giuridico (formalizzazione).
Alla stregua delle suddette considerazioni, mi sembra che la decisione di Benedetto XVI di avvalersi della norma che consente al Pontefice di rinunciare al ruolo di Vicario di Cristo, siccome detentore delle chiavi del Regno dei Cieli  e Pastore del gregge delle pecorelle che Gesù gli ha affidato, sia cosa legittima ma non "cosa buona e giusta". Nessuno lo ha obbligato ad accettare il Pontificato e nessuno e niente gli hanno imposto di assumere il peso del governo di una Chiesa in grave crisi temporale e spirituale. Gesù abbracciò la Croce che il Padre gli aveva destinato e da quella non discese fino alla morte. Quando si accetta di diventare Papa si dovrebbe essere Papa per sempre, fino all'ultimo respiro. Come del resto ha fatto il suo predecessore Papa Giovanni Paolo II. Ma andiamo per gradi.

CELESTINO V  E  BENEDETTO XVI  IN  PARALLELO
Come si è detto, a seguito della rinuncia di Papa Celestino V, nato Pietro Angelerio o Angeleri, monaco eremita detto Pietro da Morrone dal nome del monte Morrone, sopra Sulmona, dove era situato il monastero in cui aveva vissuto nella solitudine della vita ascetica prima dell'elezione al pontificato, Bonifacio VIII con la costituzione "Quoniam alicui" eliminò ogni condizione ostativa all'assoluta libertà del Pontefice in carica a rinunciare al papato.
Ma già nel XII secolo i giuristi avevano cominciato a porsi il problema dell'ammissibilità della rinuncia al papato, cercando di distinguere le eventuali cause legittime da quelle inammissibili e ponendo altresì il problema dell'inesistenza di un superiore gerarchico nelle cui mani il papa in carica potesse rassegnare le dimissioni. Il giurista Baziano sostenne che la rinuncia era ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia. Il canonista Uguccione da Pisa confermò le osservazioni di Baziano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi. Le decretali di Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, precisarono altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l'inadeguatezza del papa per defectus scientiae, nell'aver commesso delitti, nell'aver dato scandalo - quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit - e nell'irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinuncia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, già ritenuto ammissibile dai canonisti. Esse precisarono altresì che non era necessario che la rinuncia fosse confermata dal collegio cardinalizio.
L'atto originale di rinuncia di Celestino V è andato perduto. Lo Stefaneschi scrive nel suo "Opus metricum" che Celestino, nel concistoro dell'8 dicembre del 1294, dichiarò di rinunciare al papato per la sua insufficienza sia fisica che dottrinale; respinta la "dannosa novità" dal collegio, Celestino si consultò con il Caetani e il 13 dicembre espose ancora i motivi della rinuncia: «Defectus, senium, mores, inculta loquela, non prudens animus, non mens experta, nec altum ingenium». Alla fine, circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, nonostante i numerosi tentativi per dissuaderlo avanzati da Carlo d'Angiò, il 13 dicembre 1294 il Pontefice, nel corso di un concistoro, diede lettura del documento di rinuncia all'ufficio di romano pontefice, il cui testo ci è giunto soltanto attraverso l'analoga bolla di Bonifacio VIII:  « Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe [di questa plebe], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale » (Celestino V - Bolla pontificia, Napoli, 13 dicembre 1294).
Nell'immediatezza della rinuncia di Celestino, il francescano Pietro di Giovanni Olivi ed  i teologi della Sorbona Godefroid de Fontaines e Pierre d'Auvergne avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l'illegittimità della rinuncia di Celestino. Contro la rinuncia di si espressero anche Iacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una «horrenda novitas», avendo favorito le successioni degli «Anticristo» Bonifacio e Benedetto XI.
Tuttavia, la rampogna più severa rivolta all'atto di rinuncia di Celestino V fu quella dell'Alighieri che nel III canto dell'Inferno, avendo appena raggiunto con Virgilio l'Antiferno, cioè il luogo dove sono le anime degli ignavi, ossia di coloro "che visser senza infamia e sanza lode", scrisse di lui : "Vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto".
Ritenuta la sostanziale equivalenza fra il "rifiuto" di cui parla Dante e la "rinuncia" pronunciata da Celestino V, resta da capire l'esatto significato che la parola «viltà» ha nel verso di Dante, essendo quella la causa attribuita dal poeta all'atto del Pontefice. Lo storico Paolo Golinelli ha dimostrato come viltà è il contrario di nobiltà - nobilitas, non vilitas - e pertanto può assumere, se riferito all'uomo, un significato tanto morale quanto di condizione sociale. In Dante e in generale nella lingua del Trecento, il vile può essere sinonimo di pusillanime, opposto a magnanimo: «Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempremagnanimo si tiene meno che non è [...] lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare e l'altrui pregiano». Natalino Sapegno conferma : «Viltà è quella rilassatezza che deriva da troppa scarsa coscienza di sé e delle proprie forze». Ed è utile riportare la definizione di "pusillanime" data da uno scrittore stimato e ben conosciuto da Dante come Tommaso d'Aquino: «E' chiamato pusillanime soprattutto colui che, degno di grandi cose, si rifiuta di occuparsene e attende ad altre meno importanti; infatti, si abbasserebbe a cose molto minori se non fosse degno delle grandi». La definizione dell'Aquinate, ripresa da Dante anche nel "Convivio", comporta  un giudizio negativo sotto l'aspetto sia morale che politico:  Celestino sarebbe stato un inetto e un incapace, cioè, in tal senso, un vile, ovvero un uomo indegno del papato e dei compiti che lo attendevano. La causa della sua rinuncia - espressa nei termini della dottrina canonica - va allora individuata nella sua ammissione di insufficienza, provocata dalla sensazione di non possedere adeguata scientia a una carica che l'eremita doveva sentire di troppo elevato impegno per l'umiltà del proprio spirito. Perciò, Dante, lo condannò per mancanza di «magnanimità».
Fra Celestino V e Benedetto XVI corrono più di sette secoli. Ma non è arbitrario constatare l'esistenza di alcune importanti analogie tra questi due Pontefici. Entrambi uomini di grande fede, hanno scelto spontaneamente di dimettersi e per entrambi la motivazione principale appare simile: l'umile e drammaticamente umano riconoscimento di non avere le forze per continuare a guidare la Chiesa e rinnovarla. E forse non è un caso se dopo il terremoto dell'Aquila, nell'aprile del 2009, Benedetto XVI, visitando la basilica di Collemaggio, abbia deciso di porre il suo pallio (il paramento che gli era stato imposto nel primo giorno del pontificato) proprio sull'urna di Celestino V.
Ma, allora, la condanna dantesca di "viltade" rivolta al Papa del "gran rifiuto" è estensibile pari pari a Benedetto XVI?
Penso proprio di sì. Ed infatti, indipendentemente dalla cause vere, prossime o remote, che lo hanno indotto ad abdicare (c'è chi ha ricordato gli scandali che hanno afflitto gli otto anni del suo pontificato, quali il caso della diffusa pedofilia emersa tra le fila dei ministri della fede, quello dello Ior (la Banca del Vaticano), quello delle cosiddette "Vatileaks", cioè della fuga di notizie e documenti dalle stanze del Papa; c'è chi ha alluso alla  fiera opposizione mossa dalle lobby curiali, veri centri di potere, al suo tenace tradizionalismo conservatore; c'è chi ha parlato di un suo cedimento davanti all'incalzare della secolarizzazione del mondo e dell'ateismo montante; e c'è chi, addirittura, è risalito alle torbide dicerie che sono circolate sulla sua giovinezza tedesca), penso che, con una mente lucida ed acuta come la sua e con  un fisico ancora  apparentemente sano come il suo, mai avrebbe dovuto sottrarsi alla lotta volta a difendere ed a rigenerare la Istituzione cattolica, consegnando il pesante fardello al futuro Papa. Evidentemente, non ha ascoltato le parole sapienzali del Siracide (4, 28): "Lotta sino alla morte per la verità ed il Signore combatterà per te"
Benedetto XVI, quando nel coro della Cappella Sistina si riunì il Conclave per eleggere il successore di Giovanni Paolo II,  promise, si obbligò e giurò, prima per bocca del Cardinale Decano e poi personalmente, che qualora fosse stato eletto Romano Pontefice, avrebbe svolto fedelmente il munus Petrinum di Pastore della Chiesa universale e che non avrebbe mancato di affermare e difendere strenuamente i diritti spirituali e temporali, nonché la libertà della Santa Sede. Si può dire che il Papa che si ritira per stanchezza fisica o fragilità psicologica dal suo Sommo Ufficio si comporta "strenuamente" rispetto agli altissimi compiti che si era impegnato a svolgere? O, piuttosto, bisogna riconoscere che in questo ritiro si è manifestata quella carenza di magnanimità che Dante ha rimproverato a Celestino V?
La risposta ce l'ha data implicitamente Giacomo Galeazzi, un valente giornalista de "La Stampa", quando ha scritto: "Ratzinger finalmente sta conducendo a Castelgandolfo la vita che ha sempre desiderato : musica, libri, e preghiere". Anche Hans Kung, intervistato da "Radio 24", ha osservato: "...il Papa ha confermato tutto ciò che molti. anche in Curia, hanno detto: questo papa non governa, non governa . Il Papa ha scritto tre libri su Cristo e ha usato tutto il suo tempo libero non per governare ma per studiare e scrivere libri".  Più esplicitamente, Michela Murgia, su "Micromega Online" del 13 febbraio 2013, si è soffermata sulla guida inadeguata del gregge cattolico da parte di un Papa desideroso di una vita tranquilla, fatta di meditazione e preghiera, sgravata dalle responsabilità che incombono sul Pastore: "Da quando è diventato papa J. Ratzinger di passi falsi ne ha fatto una miridiade. Il ripristino della liturgia latina ... la revoca della scomunica meritatissima dei lefevriani ... la mala gestione dello scandalo della pedofilia ... Più che la pressione del papato, forse è la consapevolezza della propria inadeguatezza a essersi fatta finalmente chiara".
Gli è che a differenza di Abramo, Benedetto XVI crede che per Dio sia impossibile guidare la Chiesa attraverso un pontefice debole: non lo sfiora l’idea che proprio la debolezza del governo centrale e l’abbandono delle pratiche di potere potrebbero essere il disegno di Dio sulla Chiesa. No: egli pensa che la Chiesa va salvata dalla sua debolezza, che ci vuole un papa forte. Perché – questo l’inevitabile sottotesto – il cielo è vuoto, e la Chiesa deve cavarsela da sola. Osserva lo storico Tomaso Montanari sul blog "Il fatto quotidiano" che se da almeno mille e settecento anni l’esercizio del potere da parte della Curia romana tradisce un ateismo pratico, il discorso con il quale, l’11 febbraio scorso, Benedetto XVI ha annunciato l’inaudita decisione di lasciare il pontificato sembra presupporre un ateismo anche teorico. Egli ha voluto dire: mi dimetto perché non sono forte, non sono adatto (in latino, ha scelto la parola «aptus»: capace). E per vincere, nel mondo d’oggi («in mundo nostri temporis»), ci vuole la forza, il «vigor». Per un cristiano queste sono affermazioni sconvolgenti perché negano radicalmente l’idea di Dio che la Chiesa stessa ha insegnato, seguendo la Scrittura e la Tradizione. Il Dio della Bibbia è il Dio che ribalta sistematicamente la logica umana della forza: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Luca, 9, 24). «Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio della mia infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (S. Paolo, Corinzi 2, 12, 9-10).
Come è universalmente noto, da secoli e secoli la maggioranza della Chiesa gerarchica e quasi tutti i papi hanno, nei fatti, negato questa prospettiva. La loro potenza si è manifestata pienamente nella forza, nel potere temporale, nel denaro. Ratzinger si è adeguato fino in fondo. Lo dice esplicitamente, anzi, arriva a teorizzarlo: la debolezza, inaccettabile per il papato, ora diventa inaccettabile anche per la persona del Papa. Paradossalmente, egli sembra aver completamente introiettato la visione ‘relativistica’ che tanto vorrebbe condannare: il suo sistema di valori è quello relativo al nostro tempo storico in Occidente, un «mondo di oggi» ipercompetitivo, basato sulla forza e sulla qualità della prestazione. Però egli è debole, non ce la fa, e abbandona.

I  SANTI  OZI  DI  JOSEPH  RATZINGER
Dunque, Ratzinger immeritevole come Pietro da Morrone? Sì, ma con quali diversi destini finali!
Al vecchio Celestino V toccò infatti una sorte spiacevole: undici giorni dopo le sue dimissioni,  il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, laziale di Anagni. (aveva 64 anni circa ed assunse il nome di Bonifacio VIII). Ebbene il Caetani, che aveva aiutato Celestino V nel suo intento di dimettersi, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi a lui contrari mediante la rimessa in trono di Celestino, diede disposizioni affinché l'anziano monaco fosse messo sotto controllo, per evitare un rapimento da parte dei suoi nemici. Celestino, venuto a conoscenza della decisione del nuovo papa grazie ad alcuni tra i suoi fedeli cardinali da lui precedentemente nominati, tentò la fuga per raggiungere il Morrone e poi Vieste sul Gargano, per tentare l'imbarco per la Grecia, ma il 16 maggio 1295 fu catturato presso Santa Maria di Merino da Guglielmo Stendardo II, connestabile del regno di Napoli, figlio del celebre Guglielmo Stendardo, detto "uomo di Sangue". Celestino tentò invano ancora una volta di farsi ascoltare dal Caetani chiedendo di lasciarlo partire, ma il Caetani restò fermo sulle sue decisioni al riguardo. Gli storici narrano che Celestino si rese conto dell'inutilità delle sue richieste e mentre veniva portato via sussurrò una frase rivolta al Caetani che sembrò essere un presagio: « Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis » (« Hai ottenuto il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane »). Fu rinchiuso nella rocca di Fumone, in Ciociaria, castello di proprietà di Bonifacio VIII, dove, secondo fonti attendibili, morì di stenti. Ma dopo la sua morte, si erano sparse voci secondo le quali Bonifacio ne avrebbe ordinato l'assassinio. Il 5 maggio 1313, fu canonizzato da papa Clemente V, a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo il Bello e da forte acclamazione di popolo, accelerando moltissimo l'iter avviato da Bonifacio. Tuttavia, anche la sua canonizzazione non fu esaltante:  Clemente V non lo canonizzò quale martire, come avrebbe voluto Filippo il Bello, ma come confessore.
Fatte, naturalmente, le debite proporzioni ed i necessari distinguo storici, a Benedetto XVI tutto è andato molto meglio. Il "semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore", come ebbe a definirsi nel suo primo discorso da Papa, il 16 aprile 2005, stanco delle ambasce che gli procurava la gestione temporale e spirituale della Chiesa, ha optato per la vita contemplativa: "Vado a pregare, non vi lascio" ha detto  salutando i suoi fedeli. Un eufemismo, che nasconde la resa. Il conductator resta alla testa delle sue truppe quando la battaglia infuria, non si ritira ad implorare l'intervento di Dio per ottenere la vittoria. Per diventare santi, oltre alle preghiere, ci vogliono le opere buone (S. Paolo, Efesini, 2, 10). Ha pure detto: "Non scendo dalla croce, resto con il Signore". Certo, però con il Signore in Paradiso, perchè il Signore, dopo aver compiuto la sua missione ed aver patito il Calvario per portarla a termine, non è più sulla croce.
Oggi Ratzinger è un pensionato di lusso, ospite non pagante al "Grand Hotel" del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, dove, abito bianco e coppolina bianca in testa, lo abbiamo visto serenamente a passeggio nei giardini, accompagnato dal fido segretario Georg e da qualche monaca ; poi, fra due o tre mesi, si ritirerà in un ex convento di clausura dentro le mura del Vaticano, oggi in corso di ristrutturazione ed ammodernamento perchè divenga degno di cotanta personalità.
Celestino V, dopo le dimissioni, tornò ad essere il povero monaco Pietro da Morrone, per giunta perseguitato ed imprigionato. Joseph Ratzinger, andato a riposo per sua volontà, si è invece assegnato una residenza confortevole nelle cinta del Vaticano, in cui, conservando il nome scelto da Papa e rivestendo la qualifica di "Papa Emerito", potrà tornare alla sua vita di intellettuale e dedicarsi a tempo pieno - assistito dalle quattro affezionate "memores Domini", dal suo segretario particolare Georg Ganswein, da servitù varia e specializzata, da professoroni della medicina - alla sue attività preferite : ai libri., agli studi teologici, all'amato pianoforte. Inoltre, come ha promesso nell'ultimo Angelus, comincerà a salire  "il Monte per incontrare il Signore" (è permesso chiedere se allude ad un incontro supplementare o, effettivamente, fino ad oggi non abbia mai incontrato il Signore?) e pregherà per la rinascita della Chiesa cattolica, per il buon governo del nuovo Pontefice, per la salvezza del gregge che intanto lui ha abbandonato. Immagino che per un ex Papa anche il pregare deve essere un diletto terreno.
La stessa uscita di scena di Papa Ratzinger non è certamente stata improntata all'umiltà del "pellegrino", secondo la definizione che si è data in tale circostanza, visto che egli non si è seppellito nottetempo in un monastero sconosciuto, ma ha scelto un finale da kolossal, decollando in elicottero verso Castel Gandolfo. E il tutto a favore di telecamera, e non prima di aver lanciato un ultimo tweet. Una fine spettacolarmente in sintonia con lo spirito dei tempi. E, quasi fosse l’amministratore delegato di una grande multinazionale, l’avveduto Joseph Ratzinger si è liberato dalle responsabilità ma ha conservato i benefit, come il titolo di ‘papa emerito’, la veste bianca, il diritto di esser chiamato ancora  Benedetto XVI e ‘santità’, e infine un’abitazione di 450 mq., dove presumibilmente passerà le sue giornate scrivendo best-seller.

LA QUESTIONE DEL "PAPA EMERITO"
Nella vicenda bimillenaria della Chiesa Benedetto XVI è il primo ad essere chiamato "Papa emerito".
Qualcuno ha rilevato che la questione non è da poco. Il Papa, con l'aiuto di esperti, si è interrogato su come ci si dovesse rivolgere a colui che ha rinunciato al «ministero petrino» e alla fine è stato lui stesso a decidere. Perciò, Ratzinger, nonostante sia cessato dal Pontificato, è ancora «Sua Santità Benedetto XVI» in quanto «Papa emerito», oppure «Romano Pontefice emerito».  Però sulla veste talare bianca non può più indossare la mantellina papale ed ha dovuto dismettere le scarpe rosse e l'anello del Pescatore, che è stato annullato ed è stato sostituito da un altro affine, da vescovo. Nella Chiesa i simboli sono importanti.
Così la Chiesa avrà ufficialmente, per la prima volta, un Papa effettivo e un «Papa emerito», residente in un ex monastero poco distante dal Palazzo Apostolico dove vivrà il successore. «Il Signore mi chiama a salire sul monte, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa», ha sostenuto Joseph Ratzinger nell'ultimo Angelus. Vale a dire che il nuovo Papa saprà di poter contare sul predecessore, un «Papa emerito» che resta presente in Vaticano con la «preghiera» e la «meditazione» e non «isolato dal mondo». Intanto, congedandosi dai cardinali, ha detto : "La Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente della forza di Dio. Tra voi c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza".
La "questione del papa emerito" aveva spinto il predecessore di Ratzinger, Giovanni Paolo II, a rifiutare decisamente l'idea delle dimissioni pur a fronte di un manifesto peggioramento di salute. Anche Paolo VI, per evitare di recare turbamenti all’interno dell’istituzione ecclesiastica, optò per il mantenimento della carica. “L’elezione di un nuovo pontefice mentre il vecchio è ancora in vita rappresenterebbe un problema (…) la gente si domenderebbe chi dei due conta” sanciva il cardinale Franz Koenig qualche anno fa.
Con l’intento di rimuovere eventuali dubbi al riguardo, si è pronunciato padre Lombardi, portavoce del Vaticano: “Ratzinger non parteciperà all’elezione del prossimo pontefice”. Risulta arduo, tuttavia, ritenere che l’influenza dell’oramai ex pontefice non tocchi il vaglio dei cardinali sul prossimo eletto, come rileva lo storico Alberto Melloni.
A tal riguardo mi sembrano più esaustive le argomentazioni esposte su l' "Huffington Post" del 7 marzo 2013 il solito amico/nemico di Ratzinger Hans Kung: "Sia chiaro, io non ho nulla contro Joseph Ratzinger. Gli auguro tutto il bene possibile. Non ho nulla in contrario a una vita bella, in un posto dove riposarsi, abbiamo la stessa età... Inizialmente avevo pensato: quella di ritirarsi in un convento per pregare è una buona decisione. Ma ora si vede che non era questo il disegno. E’ molto pericoloso avere un ex Papa che vive nel Vaticano stesso. Che non vive in un monastero, che non vive con monaci, ma con suore che erano al suo servizio in Vaticano come Papa, che ha lo stesso segretario, padre George. Evidentemente, vuole avere contatti con i cardinali, con il nuovo Papa. Si delinea la figura di un 'Papa ombra' nel Vaticano. Ora questo mi sembra confermato. Ratzinger ha certamente interesse che la sua linea sia prolungata, altrimenti non avrebbe fatto così. Questo non è andare sul monte a pregare: ma avere la possibilità di interventi continui. E’ una situazione pericolosa. Se per esempio il Papa futuro dirà: è necessario discutere del celibato dei preti, chi non vuole questo, si rivolgerà al Papa vecchio. Io vedo una ingerenza segreta, non controllabile. Ratzinger dice: “Io sono fuori, ma sono al centro del Vaticano”. Insomma, non va bene. Certo non avrà comunicazioni ufficiali ma infiniti colloqui privati. Com’è possibile, per esempio, che padre George Gaenswein, lo stesso segretario del vecchio Papa sia anche Prefetto della casa pontificia? Con controllo sull’anticamera, decisione sulle udienze. Si configura una comunicazione continua tra palazzo pontificio e vecchio Papa. Questo è stato preparato da molto tempo. E’ parte di una strategia chiara. Basta pensare alla nomina del suo segretario come arcivescovo, (lo scorso dicembre): in Curia hanno definito tutto ciò “nepotismo nuovo”. Oppure c’è il Prefetto del Sant’Uffizio, amico e discepolo di Ratzinger, vescovo di Regensburg, meno accettato in Germania tra i vescovi…"

ULTERIORI  RIFLESSIONI  E  CONCLUSIONI
La rinuncia di Benedetto XVI richiede un ulteriore approfondimento.
La Chiesa stabilisce che il Papa viene eletto direttamente per ispirazione divina attraverso la discesa dello Spirito Santo nell'anima dei vescovi. Infatti, secondo l' "Ordo Rituum Conclavis", approvato da Giovanni Paolo II, subito dopo l'ingresso in Conclave, quando tutti sono riuniti, il Cardinale Decano o, se egli è assente o legittimamente impedito, il Sottodecano, o il Cardinale primo per ordine e anzianità, dà inizio al rito di ingresso in Conclave dicendo: "Tutta la Chiesa, unita a noi nella preghiera, invoca istantemente la grazia dello Spirito Santo, perché sia eletto da noi un degno Pastore di tutto il gregge di Cristo. Il Signore diriga i nostri passi nella via della verità, affinché per intercessione della Beata sempre Vergine Maria, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi, facciamo sempre ciò che gli è gradito".  
Ma se così è, e Ratzinger ben sapeva che lo Spirito Santo invocato in Conclave aveva ispirato la sua elezione, è possibile inferire che con le sue dimissioni egli abbia disatteso la Grazia del Signore, ovvero la volontà di Dio?
Mi sembra di udire la risposta della dottrina e del magistero della Chiesa : "I cardinali non sono burattini e il Conclave non è infallibile. I cardinali – principi della Chiesa – sono esseri umani, quindi godono del pieno libero arbitrio in ogni loro scelta. Lo Spirito non è un grande burattinaio che pilota i voti e non stabilisce chi voterà chi: ispira le anime, mostra una via, parla nei cuori e nelle coscienze di tutti noi e, ovviamente, in quelle dei cardinali, tanto più in momenti così delicati per il cristianesimo. Ma i cardinali restano esseri umani come noi" . In altri termini, i cardinali pregano per discernere e per comprendere quale sia la via indicata loro dallo Spirito; lo fanno in particolar modo prima del conclave, nelle Congregazioni generali, per poter compiere la scelta migliore per la Chiesa, ma questo non ci assicura che accolgano davvero la guida dello Spirito. I cardinali sono esseri umani, hanno debolezze, difetti, sentimenti tipicamente umani e, come ogni altro essere umano, sono dotati del libero arbitrio.  Duellano tra loro per questioni prettamente secolari – non credo che dirlo costituisca sacrilegio, anzi: dobbiamo prenderne coscienza – ed, a volte, possono essere mossi dall’invidia, dalla brama di potere, dal denaro; possono subire pressioni esterne. D'altronde,  possono anche sbagliare in buona fede. Molte volte nei secoli sant’uomini hanno agito pensando di fare il bene della Chiesa e, invece, l'hanno pilotata lontana delle sue sponde.
E' vero. La tradizione stessa della Chiesa non ci parla mai di “infallibilità” del Conclave; sappiamo che il papa può effettuare pronunciamenti infallibili, sappiamo che la Chiesa nella sua collegialità gode di una certa infallibilità, ma nulla si dice del Conclave. Tuttavia, dal punto di vista teologico, è difficile accettare l'idea che il Dio cristian agisca in occasione del Conclave come un semplice suggeritore che opera dietro le quinte come un regista occulto, limitandosi a consigliare come mandare avanti la elezione del Papa, senza obbligo a seguire ciò che onniscientemente consiglia.
Dunque, nulla veramente ci assicura che il papa eletto dal Conclave sia scelto da Dio, il migliore possibile o, quanto meno, il solo idoneo al ruolo? Ma se come diceva San Vincenzo Pallotti, il fondatore della "Unione dell'Apostolato Cattolico" «Alcuni papi Dio li vuole, alcuni li permette, altri li tollera»; se dobbiamo prendere atto del lungo elenco di papi non idonei  alle sfide che si sono trovati ad affrontare, papi che hanno recato alla Chiesa più danni che benefici; se, insomma,  dobbiamo accettare con il beneficio dell'inventario la scelta dei cardinali e attendere la prova provata che il Papa eletto sia quello giusto, quello effettivamente voluto da Dio, dove va a finire la certezza della infallibilità che gli viene attribuita a priori, senza alcuna riserva?
Il circolo è vizioso. Ed io, anzichè pensare che anche l'elezione del Papa  faccia parte del segreto incomprensibile dell’Amore di Dio, il quale ci ha donato la libertà (il cosiddetto "libero arbitrio") perché ci ama e questa libertà è tale da consentirci di sbagliare e anche di rifiutarlo (allora dovremmo solo pregare affinchè i cardinali sappiano discernere la guida dello Spirito nella loro scelta imminente, non potendo essere certi che essa sia guidata dalla fede e non dal denaro, dal potere, dai vizi umani o, semplicemente, dall’errore involontario), preferisco pensare che anche il Signore talvolta commette grossi sbagli di valutazione, per cui, dopo aver ispirato la elezione di un Papa inadatto, venga a trovarsi nella ingrata situazione, segnalata da San Vincenzo Pallotti, di doverlo tollerare.
Scrive Marcello Veneziani  su "Il Giornale" di domenica 17 febbraio 2013: "Lo senti assai vicino Ratzinger che si dimette per raggiunti limiti d'età, per vecchiaia e per stanchezza, per sottrarsi a veleni e ricatti, per liberarsi dalla cappa dei poteri, dalle trame oscure e dalle cose del mondo, per tormento intellettuale. Lo senti umano, profondamente umano, nella rinunzia, lo senti perdutamente filosofo e umanista. Magari ammiri la sua ascesi intellettuale, ti ritrovi nella sua solitudine di studioso, nel suo prediligere la spiritualità ai fedeli. Però non lo senti Papa, cioè Santo Padre, cioè custode di una Tradizione e Pastore nel segno della Croce. Semel abbas, semper abbas, dicevano gli antichi: una volta padre, sei padre per sempre. Non si può rinunziare, andarsene in pensione come uno qualunque, spezzare una tradizione, generando assurdi imbarazzi e strane vacatio. Tutti plaudono all'umanità di un Papa che si dimette e perfino al coraggio; ma un Pontifex è ponte con la divinità, non si esaurisce nella sua umanità. È richiesto il sacrificio della sua individualità soggettiva, anteporre l'Ufficio alla sua personale inclinazione. Non a caso perde il suo nome originario. Cosa volete che siano, alla luce di Cristo e dell'eternità, la vecchiaia, i veleni e il disagio di un ruolo? Da Santità non ci si può dimettere. La via dell'ascesi è eccelsa, ma dopo il papato sconfessa il Magistero della Chiesa. Per questo, con tutto l'affetto che nutro per la delicata spiritualità di Ratzinger e per il suo acume teologico, lasciatemi dire, con immenso rispetto e la morte nel cuore: ha disertato".
Condivido. Le dimissioni di Benedetto hanno sconfessato il Magistero della Chiesa e, di conseguenza, desacralizzato la figura del Papa. Lo stesso popolo dei cattolici ne è rimasto disorientato e smarrito. Ho letto sul web dichiarazioni di sfiducia nei confronti del sistema ecclesiastico e di abiura alla fede del Dio cristiano. Non sono pochi quelli che, dopo le dimissioni del Papa, hanno manifestato l'intenzione di convertirsi al Buddismo.
Paolo Flores d’Arcais, intervistato dal quotidiano brasiliano “O Estado de Sao Paulo”, ha detto: "Il Sommo Pontefice era un sovrano assoluto con un’aura carismatica assolutamente senza eguali, quella di essere vicario di Cristo in terra, cioè il sostituto nell’al di qua della Seconda Persona della Santissima Trinità che regna nell’aldilà, insomma il vice di Dio. Ma un vice Dio che può dimettersi, e diventare un ex vice Dio, distrugge proprio la caratura di sacralità che fin qui ha accompagnato la figura del Papa".
Il filosofo Massimo Cacciari su "Il Foglio" del 13 febbraio 2013 ha invece valutato l'addio al Pontificato di Ratzinger da un punto di vista strettamente secolare, rilevando che, d'ora in poi, "...il Pontefice diventa uno come noi e come tutti, qualcuno che può abbandonare la propria carica, andarsene, rinunciare ... Ma non si può far finta che questo gesto dalla immensa carica innovativa non apra un varco, una breccia in cui potrebbero farsi largo altre innovazioni. Dopo le dimissioni, come non pensare a innovazioni anche più radicali?”. Ed aggiunge che gli ambiti nei quali quella carica innovativa potrebbe irradiarsi, preceduta e sollecitata dal gesto senza precedenti del Papa, potrebbe essere non solo quello della crisi delle vocazioni, ma soprattutto quello dei modi di trasmissione, di comunicazione della fede. Una fede che non necessariamente deve essere consolante, rassicurante, e che non ha paura di testimoniare la debolezza, la necessità di affidarsi a un altro.
Come assorbirà, la chiesa, il trauma dell’addio di Benedetto XVI al pontificato? Cacciari risponde: “In tedesco, trauma e sogno sono quasi la stessa parola. Potrebbe anche essere un bel sogno, che porta a innovazioni più radicali, all’abbandono di certe trincee. Il compito della chiesa è quello di dire che cosa pensa della vita, della morte, della libertà, predicando il verbo sulle questioni ultime. Il trauma delle dimissioni del Pontefice, perché di trauma si tratta, potrebbe condurre con sé qualcosa di molto salutare, un ripensamento su come comunicare la fede oggi”. "La giusta strada - dice ancora Massimo Cacciari - l’ho vista nella prima enciclica, la ‘Deus caritas est’, ricca di prospettive nuove, mentre il pensiero successivo di Benedetto XVI si è attardato sulle questioni di ragione e fede, affrontate in termini di scolastica".
Sicuro, la speranza è proprio questa : che proprio il gesto delle dimissioni, nella sua paradossalità, conduca la Chiesa ad una predicazione del Vangelo che riesca ad riavvicinarla al mondo. Ma temo che questo non accadrà e che le auspicate innovazioni si limiteranno a rendere l'istituto delle dimissioni del Papa non più un evento eccezionalissimo, ma una pratica di ordinaria amministrazione. Con l'effetto tragico di alimentare i giochi sotterranei di potere di cui è intessuta la Curia romana, poichè quello di provocare con una dura opposizione la rinuncia del Papa al suo mandato apparirebbe obiettivo concreto ed a portata di mano.













































































































1 commento:

Clara Calamai ha detto...

Penso che Ratzinger sia stato un Papa intelligente ed un uomo con i piedi in terra.