mercoledì 13 febbraio 2013

IL NATURALISMO, IL SENSUALISMO, IL POSITIVISMO

Sotto la denominazione generica di Naturalismo si raccolgono numerose altre correnti filosofiche che si diffusero durante l’Ottocento (sensualismo, materialismo storico, positivismo), diverse tra loro, ma riunite in un motivo comune : la tendenza a considerare la natura come base della loro speculazione. Se l’Idealismo, per trovare il punto in cui “Io” e “non-Io” si fondono cerca di far rientrare il “non-Io” nell’ ”Io”, il naturalismo, per trovare questo stesso punto, cerca di assorbire l’ “Io” nel “non-Io”.

HERBART

Secondo Giovanni Federico HERBART la realtà, la natura, è costituita da una molteplicità di essenze, dette anche “reali”, cioè oggetti, sostanze assolutamente indipendenti dall’Io, le quali sono in sé immutabili, mentre mutano i loro reciproci rapporti.
La conoscenza dei reali ("Metafisica generale") è resa possibile dalla psicologia e dalla filosofia della natura, che ci fanno acquisire cognizioni rispettivamente sulle loro condizioni interne ed esterne.
Quanto esiste è reale, come è reale quanto turba ed influisce sul soggetto al di là che il soggetto riesca ad individuare razionalmente o meno quanto agisce e influisce su di lui. 
Herbart dichiara di essere un "kantiano", ma lo dice con evidente tono polemico per contestare gli sviluppi idealistici della filosofia romantica. In realtà la rivendicazione dell'autorità dell'esperienza e i meriti riconosciuti a Kant per aver impostato il problema delle 'condizioni di possibilità dell'esperienza' mostrando che la cosa in sé non è conoscibile si coniugano con una decisa messa in questione della teoria della conoscenza kantiana, rivolta a colpirla nel punto "debole" costituita dalle forme a priori dell'intuizione e dall'apparato dei concetti puri dell'intelletto. Infatti, Herbart, muove a Kant due critiche. La prima è l'assunzione di 'mitologiche' facoltà dell'anima (la sensibilità, l'intelletto, l'immaginazione, la ragione): a questa concezione kantiana, che fa un passo indietro rispetto a Locke e a Leibniz, occorre invece contrapporre l'unità e la semplicità dell'anima sul piano metafisico. La seconda riguarda la soggettività delle forme dell'esperienza che Kant fondava nella facoltà conoscitiva, mentre Herbart ritiene che invece occorre mettere in luce il "carattere dato" anche delle forme dell'esperienza. Per Herbart il dato è sempre costituito da ciò che viene percepito e dalla sua forma. Anche ammesso che spazio, tempo, categorie, idee siano le condizioni dell'esperienza che si radicano nell'animo, restano pur sempre da spiegare la determinatezza e la specificità delle singole cose che si manifestano nell'esperienza: perché, ad esempio, percepiamo qui una figura rotonda e là una figura quadrata? E non è dunque legittimo pensare che certe condizioni siano in realtà incluse nel dato?
L'ipotesi di un qualche cosa di immutabile è fuori da ogni tipo di realtà, in quanto nulla di quanto conosciamo è immutabile. Soltanto la farneticazione fideistica del concetto del dio padrone, elaborata dagli ebrei mentre erano schiavi a Babilonia per poter esaltare la schiavitù, e ripreso da ogni religione rivelata per scopi di devastazione sociale, contiene il concetto di immutabilità come attributo al loro dio eterno. Ma è pura fantasia riferita ad una descrizione fantasiosa di un ente fantasticato che si traduce nella patologia psichiatrica chiamata “fede”.
La conoscenza dei reali avviene soltanto attraverso il vivere, l’esperienza quotidiana, relazionandosi con la realtà nel suo insieme.

FEUERBARCH

Secondo Ludovico FEUERBACH, filosofo tedesco fra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana, « Siamo situati all'interno della natura; e dovrebbe essere posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine? Viviamo nella natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia non essere derivati da essa? Quale contraddizione! » (Essenza della religione").

Anche la natura umana è una realtà materiale, però l’uomo tende a dare valore assoluto ai propri desideri, per cui, conoscendosi limitato, per appagare le proprie esigenze è costretto a proiettare i suoi desideri fuori di lui ed a crearsi idoli inesistenti.
La pubblicazione, avvenuta anonima, del suo "Pensieri sulla morte e l'immortalità", che nega l'immortalità dell'anima individuale e afferma che l'individuo - pura apparenza - con la morte si dissolve nell'autentica ed eterna realtà dello spirito infinito, si scontrò con il clima politico di reazione alle Rivoluzioni del 1830 dei governi tedeschi che vedevano anche nelle espressioni di pensiero non concordanti con l'ortodossia religiosa un pericoloso attentato all'«ordine» e all'autorità: il libro venne sequestrato e, riconosciuto l'autore, Feuerbach fu costretto a interrompere il suo corso universitario.
Pubblicò ancora, inizialmente, la  "Storia della filosofia moderna da Bacone a Spinoza", l' "Abelardo ed Eloisa, la "Esposizione, sviluppo e critica della filosofia di Leibniz".
Feuerbach intende rilevare come già dal Rinascimento sia avvenuta una progressiva emancipazione della filosofia, e in generale della cultura, dalla teologia e dalla religione cristiana, sia a motivo della visione sostanzialmente negativa che queste ultime hanno della natura e dell'uomo, sia a causa del rinato interesse per lo studio della natura e dell'atteggiamento generalmente positivo nei confronti della libera attività umana. Nell'attività scientifica si realizza tra lo spirito e la natura una feconda unità, nella quale appare difficile la possibilità di una conciliazione tra la filosofia e la religione, come dimostra il fallimento della filosofia di Leibniz di giungere all'unità di ragione e fede e la contraddizione, riconosciuta dal Bayle, esistente tra i principi della ragione e i postulati della teologia, contraddizione che lo portarono a proclamare la necessità della tolleranza religiosa e della indipendenza della morale dalla teologia.
All'inizio Feuerbach si colloca nel solco della filosofia hegeliana, anche se già pone l'accento su elementi che lo allontaneranno da Hegel. Così, nei "Pensieri sulla morte e l'immortalità", egli afferma con forza la connessione tra l'individualità e la sensibilità, propria di un corpo legato allo spazio e al tempo, e su questa base giunge a negare "l'immortalità" individuale. Progressivamente egli matura la convinzione che la filosofia migliore abbraccia tutti coloro che si sono impegnati nella lotta per la libertà di pensiero, da Bruno a Spinoza a Fichte, e non ha il suo compimento in Hegel (come gli hegeliani ortodossi pensavano).
In qualche modo l'unica filosofia che inizia senza presupposti è quella che pone totale libertà di pensiero e che è capace di mettere in dubbio anche se stessa. La filosofia, in quanto libertà che vuole costruirsi da sé e non soltanto come erede della tradizione, deve dunque procedere oltre Hegel, che non critica mai la realtà di fatto, ma si preoccupa soltanto di comprenderla nella sua razionalità e quindi giustificarla. Il compito del libero uomo pensante, consiste invece, nell'anticipare con la ragione gli effetti necessari e inevitabili del tempo. Attraverso la negazione del presente si costituisce la forza per creare qualcosa di nuovo. «Io alla religione ho dedicato tutta la mia vita» dirà Feuerbach; partendo dalla riflessione sul Cristianesimo, Feuerbach giunge a comprendere che la filosofia di Hegel è in realtà teologia filosofica.
Lo scopo di Feuerbach nell' "Essenza del cristianesimo" (1841) non è di condurre una critica al cristianesimo di stampo illuministico, inteso come antireligioso o anticlericale, ossia di ridurlo a un cumulo di menzogne, falsificazioni, errori e superstizioni. Egli invece ritiene che la religione, in particolare quella cristiana, abbia un contenuto positivo che consente di scoprire quale sia l'essenza dell'uomo. Dalle tesi di Schleiermacher, secondo cui la religione consiste nel sentimento dell'infinito, egli trae la conclusione che tale infinito non esprime altro che l'essenza dell'uomo, non già l'essenza di Dio. Nessun individuo singolo contiene in sé quest'essenza nella sua compiutezza, ma ogni uomo ha il sentimento dell'infinità del genere umano. La religione ha un'origine pratica: l'uomo avverte la propria insicurezza e cerca la salvezza in un essere personale, infinito, immortale e beato, cioè in Dio. Quando un soggetto entra in un rapporto essenziale e necessario con un oggetto trascendente, questo significa che l'oggetto trascendente è la vera e propria essenza del soggetto, proiettata. Con Dio il sentimento umano è in un rapporto necessitato dalla sua psiche: Dio dunque non è altro che l'oggettivazione ideale dell'essenza dell'uomo che in Dio rispecchia se stesso. La religione è appunto l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di essi in un ente immaginario, che viene considerato indipendente dall'uomo e nel quale tali aspirazioni si trovano pienamente realizzate idealmente. Nella religione è l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza attraverso un processo psichico di assolutizzazione dell'umano. Non quindi Dio che ha creato l'uomo, ma viceversa. Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea l'idea di Dio. Quando a Dio si attribuiscono l'onniscienza, l'onnipotenza e l'amore infinito, in realtà si intende esprimere l'infinità delle possibilità conoscitive, di potere sulla natura e dell'amore che sono tipici dell'uomo. In Dio e nei suoi attributi l'uomo può quindi scorgere oggettivati i suoi bisogni e i suoi desideri e, dunque, riconoscerli. Feuerbach ne conclude che «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l'uomo ha di sé». La conoscenza che l'uomo ha di Dio non è altro, allora, che la conoscenza che l'uomo ha di sé stesso, ma nella religione l'uomo non si rende conto che è la propria essenza a trovarsi oggettivata in Dio. Solo con la filosofia ciò può giungere a piena consapevolezza. Questo spiega, tra l'altro perché nella storia dell'umanità e degli individui la religione preceda ovunque la filosofia: l'uomo pone la propria essenza fuori di sé prima di riconoscerla come propria. Nella proiezione della propria essenza in Dio, l'uomo non possiede più tale essenza, che ha sede in un altro mondo, cosicché per riconquistarla l'uomo deve negare il mondo terreno. Qui si annida, secondo Feuerbach, la vera colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano: l'aver condotto all'ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia, e in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio.
Rispetto al cristianesimo, il panteismo ha il merito di aver riconosciuto che il divino non è un'entità personale, ma è il mondo stesso. Lo sviluppo della religione consiste dunque in una progressiva negazione di Dio da parte dell'uomo, la quale va di pari passo con la consapevole riappropriazione della propria essenza umana. Quanto c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come teologia per essere conservato come antropologia. In quanto antropologia, la filosofia si assume il compito di liberare l'essenza dell'uomo e le sue infinite possibilità dalla sua alienazione religiosa in un ente estraneo.  Feuerbach afferma che è ateo non chi elimina Dio, il soggetto dei predicati religiosi, bensì chi elimina i predicati con i quali Dio è designato nell'esperienza religiosa, come bontà o saggezza o giustizia. Anche quando si è riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, questi predicati infatti permangono nella loro verità, ma come possibilità e prerogative dell'essenza umana.
Nei "Princìpi della filosofia dell'avvenire" Feuerbach sostiene che il compito dell'età moderna è consistito nella trasformazione e dissoluzione della teologia in antropologia. Noi dipendiamo dalle esigenze materiali. Già il protestantesimo, secondo Feuerbach, è originariamente antropologia religiosa: in esso, infatti, è rilevante ciò che Dio è per gli uomini, non tanto ciò che egli è in sé, anche se in teoria gli è riconosciuta esistenza indipendente. Feuerbach sviluppa così un'antropologia filosofica che scava nella coscienza dell'uomo per scoprire le origini del senso del divino come infinitizzazione di sé. Si tratta di un'analisi intorno a un fondamento antropologico, che non è altro che la proiezione fantasmatica dell'uomo in un ideale ultrauomo "infinito". Tale infinito è la rappresentazione unitaria di tutti gli attributi relativi a ciò che egli vorrebbe essere o diventare, portati all'estremo positivo.
Feuerbach scrive nel § 30 di "Essenza della religione" (1845) «Il pensare, il volere sono cosa mia; ma ciò che io voglio e penso non è cosa mia, è fuori di me, non dipende da me. La tendenza, il fine della religione è volto a togliere questa contraddizione o contrasto. L'ente in cui questa viene tolta è qualcosa in cui ciò che è possibile solo secondo il mio desiderio e la mia rappresentazione, ma impossibile per le mie forze e facoltà, diviene possibile, anzi, si realizza. Questo ente è l'ente divino» E nel § 32 si precisa: «Il desiderio è l'origine, è l'essenza stessa della religione; l'essenza degli dèi non è altro che l'essenza del desiderio.»
L'inizio della filosofia non è dunque Dio o l'Assoluto, ma ciò che è finito, determinato e reale. La filosofia dell'avvenire, in quanto antropologia, riconoscendo il finito come infinito, deve partire, non da come aveva fatto Hegel, dal pensiero autosufficiente, inteso come soggetto capace di costruirsi con le sue proprie forze, bensì dal vero soggetto, di cui il pensiero è soltanto un predicato. Esso è l'uomo in carne e ossa, mortale dotato di sensibilità e bisogni: in questo consiste l'umanesimo di Feuerbach. Occorre dunque partire da ciò che dà valore al pensiero stesso, ossia dall'intuizione sensibile perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo: il sensibile infatti non ha bisogno di dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza. In questa prospettiva, la natura non si trova più ridotta a semplice forma estraniata dello spirito, come avveniva in Hegel, ma diventa la base reale della vita dell'uomo.
Si apre così la possibilità di una nuova filosofia, il sensualismo, che è la risoluzione compiuta della teologia in antropologia: in essa è superata ogni scissione tra uomo e mondo, corpo e spirito. Solo dalla sensibilità deriva il vero concetto dell'esistenza: infatti, solo ciò che è piacevole o doloroso modifica lo stato dell'uomo e mostra che qualcosa esiste o manca. Passione, amore, fame sono dunque la prova ontologica dell'esistenza di qualcosa: solo esse, infatti, hanno interesse all'esistenza o meno di qualcosa. La corporeità, diversificandosi come maschio o femmina, conduce al riconoscimento dell'esistenza di un essere differente dall'io, che tuttavia è essenziale per la determinazione della esistenza. Il vero principio della vita e del pensiero non è dunque l'io, ma l'io e tu, il cui rapporto più reale si configura come amore, interesse per l'esistenza dell'altro. E Feuerbach afferma che "la vera dialettica non è un monologo del pensiero solitario con sé stesso, ma un dialogo tra l'io e tu". L'uomo singolo non ha in sé l'essenza totale dell'uomo, come unità di vita, cuore e ragione; tale essenza è contenuta solo nella comunità, ossia nell'unità dell'uomo con l'uomo, fondata sulla realtà della differenza tra io e tu. In questa prospettiva, l'amore diventa la realizzazione dell'unità del genere umano.
Il fenomeno religioso continuerà a rimanere al centro delle riflessioni di Feuerbach. Nell' "Essenza della religione", egli prende in considerazione non soltanto il Cristianesimo, ma la religione in generale: essa ha la sua matrice nel sentimento di dipendenza dell'uomo dalla natura. Contrariamente a quanto pensava Max Stirner, Feuerbach considera l'individuo un'entità non assolutamente autonoma, ma dipendente da una realtà oggettiva: la natura. Per natura Feuerbach, in questa fase del suo pensiero, non intende più in primo luogo la natura dell'uomo, che si esprime sotto forma di sensibilità. La natura è più in generale il mondo da cui l'uomo dipende: tale dipendenza si manifesta all'uomo sotto forma di bisogno. Proprio dalla difficoltà di soddisfarlo nasce la religione. Di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni l'uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. In questa situazione Dio viene immaginato come l'essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile. Ma questa concezione della divinità rappresenta soltanto la forma più sviluppata di religione. All'origine, infatti, ciò che l'uomo divinizzò fu una natura non addomesticata, anche ostile, solo successivamente egli attribuì a questa natura caratteri simili all'uomo, sino a ravvisare nella natura stessa un ordine dovuto a Dio, inteso come principio ordinatore. Solo per quest'ultima fase dello sviluppo della religione vale la tesi secondo cui Dio e i suoi attributi non sono altro che la proiezione di sentimenti e desideri umani. Ma così facendo si è dimenticata la dipendenza essenziale dell'uomo dalla natura: questo è l'errore della forma più avanzata di religione, soprattutto del cristianesimo, che è dunque il più lontano dall'origine naturale della religione. Nella sua ultima produzione teorica Feuerbach insisterà sull'importanza della conoscenza della natura e di un rapporto armonizzato dell'uomo con la natura stessa. Ciò lo condurrà a guardare con interesse agli sviluppi di concezioni materialistiche nelle indagini scientifiche della metà del secolo e a continuare nella sua polemica antireligiosa.
Le tesi della Essenza della religione trovarono ulteriore sviluppo nelle pagine della "Teogonia secondo le fonti dell'antichità classica, ebraica e cristiana", pubblicata dopo più di sei anni di intenso lavoro nel 1857. La Teogonia, ultima grande opera di critica della religione pubblicata da Feuerbach, si incentra su di una visione antropologica essenzialmente caratterizzata dalla condizione dell'uomo come essere desiderante. Il processo teogonico che dà vita alla rappresentazione degli dei nella coscienza dell'uomo soddisfa in maniera inconscia i suoi desideri più cari: gli dei sono gli esseri in cui viene superata la contraddizione tra il volere ed il potere. Nella Teogonia Feuerbach ricostruisce le cause ed i momenti fondamentali del processo teogonico attraverso l'analisi linguistica e psicologica del linguaggio dell'epica classica e delle fonti antiche ebraiche e cristiane. La religione pagana appare come espressione di un'umanità i cui desideri sono ancora vicini alla natura; gli dei degli antichi, sottoposti a loro volta alle leggi del fato e della necessità, sono solo i ministri della natura, non i suoi signori e creatori come il Dio cristiano. I pagani volevano essere felici in vita e non rifiutavano i limiti della propria condizione mortale. Ai molti desideri dei pagani si oppone l'unico desiderio dei cristiani, quello di una beatitudine ultraterrena ed in contrasto con tutte le leggi della natura. Sacrificando le gioie quotidiane e realizzabili della terra, i cristiani aspirano a guadagnarsi gioie infinite nel cielo; in tal modo la pretesa morale cristiana fondata sull'amore del prossimo nasconde soltanto l'egoismo alienato dell'uomo cristiano. Gli eroi omerici, al contrario, mostrano ancora i caratteri positivi di una virtù fondamentalmente atea che, senza misconoscere la finitezza dell'individuo, lo invita ad impegnare tutte le proprie forze materiali ed intellettuali per realizzare sulla terra le condizione concrete della propria felicità.
Tutti i popoli in principio sono religiosi, ma poi acquistano coscienza e si disalienano. Il compito degli scritti di Feuerbach, come egli stesso afferma, è di abbattere le illusioni e i pregiudizi del presente, traendo la filosofia da quello che egli chiama il regno delle anime morte per reintrodurla nel dominio delle anime vive, radicalmente legate al corpo e alla sensibilità. Per ora il problema è di trarre l'uomo fuori dal pantano in cui era sommerso , non ancora di rappresentare l'uomo quale è. Si tratta in altre parole di dedurre dalla teologia la necessità di una filosofia dell'uomo, di un'antropologia, capendo gli errori concettuali del pensiero pregresso. Questo è il compito che Feuerbach assume per il suo filosofare, provvedendo con i suoi scritti a renderlo noto ed accessibile. Egli è infatti convinto, come dice nella premessa dei "Princìpi della filosofia dell'avvenire" (1843), che solo alle future generazioni sarà concesso di pensare, parlare e agire in modo puramente ed autenticamente umano. In una delle sue ultime opere, Spiritualismo e materialismo (1866), Feuerbach ribadisce la sua concezione dell'individuo come organismo sensibile caratterizzato da bisogni, polemizza contro il dualismo di anima e corpo e, facendo proprio un punto di vista deterministico, nega l'esistenza del libero arbitrio. Per molti aspetti le tesi di Feuerbach saranno uno spunto per il lavoro di Marx, che comunque non tarderà a criticare il lavoro di Feuerbach nelle "Tesi su Feuerbach".


MARX

Per molti aspetti le tesi di Feuerbach saranno uno spunto per il lavoro di Carlo MARX, che comunque non tarderà a criticare il lavoro di Feuerbach nelle "Tesi su Feuerbach". Tuttavia, nei "Manoscritti" del 1844 Marx definirà Feuerbach il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana.
Il suo pensiero è incentrato, in chiave materialista, sulla critica dell'economia, della politica, della società e della cultura a lui contemporanea. Teorico del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia del Novecento.
Secondo Marx l’essere dell’uomo è costituito dai suoi rapporti con gli altri uomini e con il mondo naturale e questi rapporti sono reali, oggettivi, esistenti, non già astratti e formali, e perciò non si lasciano ridurre alla coscienza o allo spirito, come volevano gli idealisti. L’essere dell’uomo è tutto in questi rapporti, che sono rapporti sociali concreti, che hanno la materia, cioè la natura, come loro termine oggettivo. La stessa storia del mondo ha la sua riprova in detti rapporti in quanto empiricamente constatabili.
Nel Capitale Marx si sforza di dimostrare la necessità di determinati rapporti sociali e di constatare i fatti che gli occorrono come punti di partenza o come punti di appoggio. A questo scopo è sufficiente provare sia la necessità dell'ordinamento attuale che la necessità di un diverso ordinamento in cui il primo deve trapassare, essendo indifferente che gli uomini ne siano o meno consapevoli. Marx considera il movimento della società come un processo di storia naturale governato da leggi che non dipendono soltanto dalla volontà, dalla coscienza e dall'intenzione degli uomini ma, al contrario, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni. Se l'elemento cosciente ha nella storia della civiltà un posto così subordinato, è evidente che la critica della civiltà meno d'ogni altra cosa potrà prendere a fondamento una qualunque forma o risultato della coscienza. La critica si restringerà alla comparazione di un fatto non con l'idea, ma con un altro fatto. È importante che tutti e due i fatti rappresentino veramente diversi momenti di sviluppo l'uno di fronte all'altro e soprattutto che sia indagata la serie degli ordinamenti, la successione e il legame in cui si manifestano i gradi di sviluppo. Si potrebbe obiettare che le leggi generali dell'economia siano uniche e medesime, sia che si riferiscano al presente che al passato. Marx nega proprio questo. Per lui queste leggi astratte non esistono, ogni periodo storico ha le sue proprie leggi: non appena la vita economica è passata da un determinato stadio di sviluppo a un altro, comincia a essere retta da leggi diverse. I rapporti e le leggi che regolano i gradi di sviluppo cambiano con la differenza di sviluppo delle forze produttive. Il valore scientifico di questa indagine sta nella spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo, morte di un organismo sociale e la sua sostituzione con un altro, superiore».
Nell'articolo "La religione e Feuerbach" Marx, in contrasto con Ludwig Feuerbach che sosteneva che l'epoca in cui viveva segnava il tramonto della religione, precisa come invece nella religione coabitino un'istanza critica oltreché quella illusoria. Se per Feuerbach la religione è frutto della coscienza capovolta del mondo, per Marx ciò è dovuto al fatto che la società stessa sia un mondo capovolto. La religione è espressione, è critica della miseria reale in cui l'uomo si trova, con la sua stessa presenza denuncia l'insopportabilità del reale per l'uomo. La religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli», ottunde i sensi nel rapporto con la realtà, è un inganno che l'uomo perpetra a se stesso. Incapace di cogliere le motivazioni della propria condizione l'uomo la considera come dato di fatto (causa del peccato originale) cercando consolazione e giustificazione nei cieli religiosi. Una concreta liberazione dalla religione non si avrà, come per Bauer, eliminando la religione stessa bensì cambiando le condizioni e i rapporti in cui l'uomo si trova degradato e privato della sua propria essenza.




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